Accettando il burqa santifichiamo la ghettizzazione delle donne
Di nuovo, sul corpo delle donne si discute. Uomini e donne, secondo i propri schieramenti politici esprimono pareri spesso abbastanza superficiali e approssimativi. Più o meno inconsapevolmente. Di nuovo perché un prefetto, quello di Treviso, ha decretato che il burqa le donne lo possono indossare in quanto si tratta di un simbolo religioso.Allora i politici si sono fatti avanti per dire la loro: {{Rosi Bindi}} si è detta d’accordo, la ministra {{Pollastrini}} no, forse d’accordo è anche Prodi, pure il ministro Amato che di recente , a un convegno , ha dichiarato che “se una donna islamica mette il velo liberamente, nessuno può obiettare alcunché”. D’accordissimo con il prefetto il ministro Ferrero.
_ Poi c’è stata una trasmissione: quella di {{Ritanna Armeni}} e Giuliano Ferrara intitolata (10 ottobre) “la libertà, il corpo e il burqa”. Intorno al tavolo una giovane giornalista e scrittrice algerina di nome {{Nagèra Benali}}, il solito Mario Borghezio della Lega Nord, {{Daniela Santanchè}} di AN e la Verde {{Paola Balducci}}.
_ Ritanna Armeni , quando il dibattito è scivolato sulle moschee, ha dichiarato che va riconosciuto il diritto a costruirne alla pari di chiese e sinagoghe. Chiaro il riferimento a Bologna dove è stata bloccata, per il momento, la costruzione di una grande moschea con il minareto. Ma ci si deve limitare ad affermare un diritto incluso nella sacrosanta “libertà religiosa”?
La superficialità – dovuta alle continue semplificazioni- ha regnato sovrana nel corso del dibattuto. E cominciamo pure dalle moscheee. Renzo Guolo, sociologo dell’Islam all’Università di Torino, ha scritto e ribadito in due libri che in Italia è soprattutto l’UCOII a volere e creare centri di culto islamico e moschee vere e proprie, in quanto intende offrire agli immigrati di cultura e fede islamica, luoghi ove vivere l’appartenenza a una precisa identità collettiva in modo da integrarsi nel tessuto culturale e comportamentale italiano fino ad un certo punto.
_ L’UCOII fa parte della corrente neotradizionalista che ha come obiettivo “la costruzione dell’Islam in Italia, più che il ritorno dei suoi militanti in patria.” Le leadership islamiste rivendicano la piena visibilità dell’Islam immigrato nella scena pubblica r“ifiutando sia l’assimilazione sia l’occultamento fuori dello spazio collettivo”. (Vengono incoraggiati stili di vita diversi da quelli legati alla cultura autoctona e si dà vita a reti assistenziali e caritatevoli, a servizi in campo sanitario e educativo e a circuiti di distribuzione della carne halal, lecita religiosamente, mediante la catena di macellerie controllate o collegate a associazioni. ({Xenofobi xenofili}, 2003, ed.Laterza).
In Italia, come nei paesi musulmani e nel resti dell’Europa, “gli islamismi fanno leva, nella loro battaglia ideologica, sul tradizionale concetto popolare dell’onore comunitario, strettamente legato alla copertura del corpo femminile. Onore comunitario che essi ritengono stravolto dagli effetti della modernizzazione, dell’urbanizzazione e, da ultimo, dall’emigrazione. Nell’esperienza migratoria la copertura e il tradizionale senso del pudore, oltre che i rapporti di genere, sono messi in discussione da un ambiente estraneo, considerato ostile.
_ La dimensione sessuale dell’onore, strettamente legata all’esemplarità della condotta delle donne della famiglia, adulte e adolescenti, è sottoposta a forte attenzione. La donna che viola tale onore discredita l’uomo, marito o padre che sia, facendogli perdere la reputazione familiare”.
Lo stato di emigrazione muta il contesto tradizionale perché la necessità che anche le donne abbiano accesso al lavoro “impedisce la riproduzione quotidiana del controllo familiare”; e poi la televisione veicola un’immagine femminile incompatibile con la morale islamica.
_ Si destabilizza quindi l’immaginario maschile tradizionale fondato sul compito della custodia della purezza femminile: “{{la salvaguardia dell’onore comunitario viene così affidata, sempre di più , al velo}}.L’hijab, il cui significato letterale è, appunto, ‘ciò che ostacola’, ‘ciò che separa’, ristabilisce simbolicamente la separazione tra sessi sulla base dell’ordine sociale islamico.” Indossare il velo in pubblico vuol dire garantire l’onore familiare e la purezza della società. Ma nello stesso tempo, scrive il sociologo, “esso simbolizza la sottomissione del corpo femminile alle prescrizioni della fede.” In un altro libro, (L’Islam è compatibile con la democrazia? ed.Laterza, 2004) Guolo fa notare che, in assenza di un territorio “puro” e nell’impossibilità di applicare la sharia (legge islamica) , l’accento viene posto sull’etica. L’islamismo agisce, nell’esperienza migratoria,come “marcatore di una neoetnicità che presuppone che tutti i musulmani condividano la stessa cultura, indipendentemente della loro cultura concreta. Si va quindi alla costruzione di una comunità che mira “più che all’integrazione individuale dei suoi membri, a negoziare, su base collettiva, uno statuto derogatorio di cittadinanza che definisce il grado di autoesclusione necessario alla riproduzione della separatezza comunitaria.” Queste sono le problematiche del momento: infatti ora si notano, rispetto alla migrazione sparuta di anni fa, molte più donne velate. La coesione sociale di questo tipo di comunità necessita della garanzia del “pudore”, ovvero della purezza del corpo femminile. Ma perché la donna è nell’Islam garante della purezza dell’ordine comunitario ma anche simbolo del disordine sessuale.
{{La cultura giudaico cristiana}} non nutriva certo una concezione tanto diversa della donna, ma la costituzione dell’individuo che segna la traiettoria della modernità occidentale, ha via via impedito che si continuasse a negare (totalmente) l’uguaglianza tra i sessi senza mettere in discussione le proprie premesse valoriali.
Per ultimo riporto ciò che ha scritto {{Giuliana Sgrena}} sul Manifesto (10.10.07) : “mentre {{nel mondo islamico è aperto lo scontro sul velo}}: è islamico oppure no, e nemmeno il Corano è sufficiente a redimere il quesito, {{in Italia si avvalla come dovere religioso l’uso del burqa}}.”
Amaramente, lei che l’Irak lo conosce molto bene, scrive che forse proprio per questo relativismo culturale “molto diffuso anche nella sinistra” non facciamo nulla “contro le milizie religiose irachene che uccidono le donne che si rifiutano di portare un velo che non avevano mai portato. E che dire della nuova milizia religiosa nella Gaza di Hamas ma anche nella Ramallah di Fatah? (…)
Non è accettando il burqa che riconosciamo un diritto alle donne: sottolineando la loro {diversità} santifichiamo la loro ghettizzazione. E quando si parla di libera scelta occorrerebbe tenere in considerazione che l’unica scelta di cui godono queste donne è quella di portare il velo e molte di loro hanno così interiorizzato l’idea che la loro sicurezza passa attraverso l’annullamento del proprio corpo che non si sono ancora liberate del burqa.”
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