“Agnese, una Visconti” di Adriana Assini
La scrittura evocativa di Adriana Assini, già sperimentata in altre biografie romanzate come Le rose di Cordova (2007), Un caffè con Robespierre (2016), Giulia Tofana. Gli amori, i veleni (2017), si riconferma nelle pagine dedicate ad Agnese, una Visconti (Scrittura & Scritture, 2018).
La vita di Agnese (1363-1391) figlia di Beatrice e Bernabò Visconti “cui assomiglia nel volto e ancora di più nell’animo”, inizia nella corte milanese, all’epoca fulcro di un’epoca, e termina con la decapitazione, per adulterio, in quella, emergente, di Mantova dov’era entrata giovanissima con una dote di 50.000 scudi d’oro e molte e ricche proprietà (Parma, Cremona, Brescia e Bergamo).
I precari equilibri, ottenuti e mantenuti con le armi e con i matrimoni, delle casate tardomedievali, vollero che l’astro di Bernabò cadesse e soffrisse la prigionia, a Trezzo, con i suoi eredi e poi la morte a causa del colpo di stato inferto dal nipote Gian Galeazzo Visconti.
Lontano, tra i laghi e le nebbie e gli splendori mantovani, Agnese, perso l’uomo che più amava al mondo, suo padre, iniziò le ostilità contro il cugino e aiutò i suoi oppositori, ospitandoli a Mantova; un serio pericolo per le politiche adulatorie del marito, Francesco I, verso il nuovo Signore milanese.
Le strade coniugali, già divaricate, si troncarono con la passione, descritta dall’Autrice in un crescendo tra due aspiranti emuli delle più celebri coppie letterarie del tempo.
Processo e decapitazione (7 febbraio 1391) si sarebbe potuti evitare con la scomparsa della Signora di Mantova in un chiostro ma né il giovane leone mantovano né il drago milanese ne avrebbero patito o vendicato la morte perciò la condanna. Da ottimo partito, Agnese, madre di una femmina, Alda (1381-1405), si era trasformata in un ostacolo alle mire espansive dei due uomini. Dopo due anni di vedovanza, il Signore di Mantova sposò Margherita Malatesta (1370-1399), altra pedina delle nuove alleanze del Gonzaga, questa volta contro i Visconti.
Vero o presunto amante, che fosse, Antonio da Scandiano fu torturato e impiccato e se l’Autrice ne fa un innamorato ardente, disposto a sacrificarsi per salvare (inutilmente), onore e vita ad Agnese, poco importò alla Corte che la coppia fosse sepolta in un orto, senza segni identificativi, cancellata dagli occhi e dalla storia di Mantova.
L’Autrice s’appassiona per prima alla vicenda; ricostruisce nel dettaglio l’ambiente; insegue Agnese nei sogni, nell’operato e nelle delusioni; ne descrive l’orgoglio visconteo, il poco adattamento a vivere sottotraccia come richiesto anche alle nobildonne sebbene ancora non fosse arrivato il Rinascimento che avrebbe da una parte esaltato e dall’altro ristretto i confini del femminile.
“Mi riterrete troppo ardita, ma lo stesso vi dico che non è degna di essere chiamata vita quella vissuta in modo tanto austero, facendo a meno delle cose belle” sostiene Agnese in un dialogo con un vegliardo che le descrive le insidie del mondo e consiglia l’astuzia delle volpi e la prudenza degli scoiattoli.
“Non gli avrebbe dato retta. Quell’uomo non aveva idea di quanto fosse scialba la sua esistenza dentro quel palazzo, né del gelo che dominava la sua alcova. Distratto da temi differenti, di certo non immaginava la potenza straordinaria dei sogni quando infiammavano lo spirito e la carne.” (p. 232)
Il silenzio assoluto che tenne al processo era una sfida e il disconoscimento dell’autorità di uomini ossequienti al marito, capeggiati da Obizzone dei Gardesini, Podestà e Giudice di Mantova, che pure cercarono inutilmente di distogliere Francesco I dai suoi intenti uxoricidi:
“…sebbene non fosse che una donna sola, Agnese aveva dato pubblica prova di un radicato senso dell’onore. Un sentimento estraneo in quella corte, dove perfino gli uomini più avvezzi all’arroganza abbassavano la cresta di fronte a quelli più influenti di loro.”