Anche negli atti di giustizia il linguaggio deve rispettare la parità di genere
Anche negli atti di giustizia è corretta la declinazione al femminile, lo ha affermato l’Accademia della Crusca rispondendo a un quesito “sulla scrittura rispettosa della parità di genere negli atti giudiziari” posto dal Comitato Pari opportunità del Consiglio direttivo della Corte di Cassazione.
A questo link si può leggere, dal sito dell’Accademia, il parere completo emesso in risposta al quesito del comitato delle Pari opportunità della Cassazione. La lettura del parere è interessante anche perché offre molte indicazioni pratiche a chi scrive concretamente gli atti giudiziari e che potrà d’ora in poi scrivere “la pubblica ministera” senza la preoccupazione di violare le regole grammaticali dell’italiano che, anzi, è ormai assodato, prevedono la declinazione al femminile delle cariche istituzionali e anche delle professioni.
Il parere richiama esplicitamente “le regole ispirate al modello proposto nel 1986-87 da Alma Sabatini, che ha introdotto queste tematiche nella nostra lingua” e le riassume:
1) evitare in maniera assoluta il maschile singolare perché a torto considerato non marcato (da alcuni definito inclusivo o, meno correttamente, neutro);
2) evitare l’articolo determinativo prima dei cognomi femminili, perché genera un’asimmetria con quelli maschili;
3) accordare il genere degli aggettivi con quello dei nomi che sono in maggioranza o più vicini all’aggettivo;
4) usare il genere femminile per i titoli professionali che sono riferiti a donne.
L’Accademia raccomanda quindi, nella scrittura degli atti giudiziari, di rispettare queste regole che sono ormai presenti, anche se non ancora prevalenti, nel linguaggio comune (nonostante certe puntate oscurantiste della burocrazia governativa che hanno raccomandato di usare “il” davanti a “Presidente del Consiglio dei Ministri” anche quando la carica è ricoperta da una donna, cioè Giorgia Meloni).
Si tratta quindi di un parere rilevante, come è rilevante il fatto che sia rilasciato su richiesta del Comitato per le Pari opportunità della Corte di Cassazione: vuol dire che d’ora in poi chi concretamente scrive un atto di giustizia dovrà fare uno sforzo per discostarsi dalla ripetizione inconsapevole (leggi: copia/incolla) di un linguaggio “sessista” e “discriminatorio”. Ed è del tutto giustificata l’esultanza della giudice Paola Di Nicola Travaglini che, su Fb, esulta perché si vede riconosciuta una pratica che, con fatica e biasimo nei suoi confronti, ha perseguito per anni.
Resta aperta, però, una questione, ed è la stessa Accademia che ne enuncia la problematicità: “Alma Sabatini proveniva dalla cultura femminista del suo tempo e faceva riferimento in maniera esclusiva al rapporto tra donne e linguaggio, mentre oggi le rivendicazioni e le richieste di intervento si sono fatte più ampie, provenendo anche da parte di chi nega la tradizionale sistemazione binaria dei generi.”
Certo, l’Accademia ha il compito di tutelare dal punto di vista lessicale, filologico e linguistico la lingua italiana, non potrebbe farsi carico di rispondere o di suggerire qualche risposta a quelle “rivendicazioni e richieste di intervento” per un linguaggio ancora più inclusivo che, di fatto, in Italia sono ancora minoritarie. Potrebbe, però, e questo è un parere personale, evitare false giustificazioni. Va escluso, “tassativamente” dice il parere, il ricorso all’asterisco (*) e allo schwa (ǝ) perché la lingua scritta deve far riferimento al parlato e non usare segni grafici che non abbiano corrispondenza nel parlato. Ma * e ǝ nello scritto si usano, e questo perché di fatto sono impronunciabili, o quasi. Insomma, il problema resta aperto, e forse, per ora, è meglio così.