Artemisia Gentileschi agli onori della cronaca
E’ di questi giorni l’attribuzione del quadro “Davide con la testa di Golia” alla pittrice Artemisia Gentileschi proprio mentre la National Gallery di Londra sta dedicando alla pittrice una mostra.
Per me, che ad Artemisia ho dedicato un atto unico nel testo teatrale “Una tavolozza rosso sangue” (1985), notizia più felice non poteva esserci! Lo interpretò Elisabetta Pozzi e lo scorso anno è stato portato nuovamente in scena, in una nuova versione, da Sandra Collodel.
Artemisia guardava e riguardava il padre dipingere e intanto imparava… Orazio, desideroso di perfezionare il talento della figlia, chiese ad Agostino Tassi, suo collega con il quale lavorava al Casino delle Muse del Cardinale Scipione Borghese a Monte Cavallo (attuale Palazzo Rospigliosi Pallavicini), di insegnarle la prospettiva.
Tassi, detto lo “smargiasso” per le sue vanterie, era un uomo spregiudicato e violento. Artemisia, oltre che brava, era bella, molto bella, tanto che, preso dal desiderio, un giorno Agostino la violentò. Ne seguì un processo per stupro (marzo 1612), intentato dal padre contro Tassi, infamante per la giovane artista.
Leggendo la deposizione di Artemisia, conservata nell’Archivio di Stato, è palpabile la sofferenza soprattutto per il raggiro subito: Agostino, infatti, le aveva promesso di sposarla tacendo di avere già moglie.
Ripercorrere oggi le vicende e il destino di una pittrice del seicento come Artemisia Gentileschi, significa far riaffiorare dalla storia elementi di attualità che si intrecciano con il nostro presente.
Cronache di molestie sono al centro del dibattito politico e sociale, ma in Artemisia le donne di oggi possono ritrovare intatto il desiderio di farsi spazio da sole, di credere nelle proprie capacità, di avere l’orgoglio di essere oltre e al disopra di tutto, insomma delle magnifiche splendenti protagoniste della propria vita.
“Il nome di donna fa stare in dubbio, ma farò vedere a Vostra Signoria cosa sono capace di fare”. Così scriveva con fierezza Maestra Artemisia Gentileschi, nel seicento, ad un suo committente. E aggiungeva orgogliosa: “L’opere mie saran quelle che parleranno”. E ora, a distanza di secoli, possiamo dire che aveva ragione.