Auschwitz spiegato a mia figlia – un testo di Annette Wieviorka
Non c’è niente di logico, di cartesianamente razionale, nei fili spinati che intrappolano lo sguardo. Muovono però sommesse domande legate ad una ri-considerazione, lucida: perché dare morte ad un proprio simile di cui non si tollera l’esistenza?
Insapientiti da secoli di nostra razionalità siamo impacciati nella ricerca di un significato verosimile davanti al tanto veritiero generato dai racconti sull’Olocausto.
Quell’estate Mathilde rimase scioccata vedendo un numero sull’avambraccio sinistro di Berthe, un tatuaggio fatto con inchiostro azzurrognolo. D’un tratto tutto ciò che aveva visto diventava in qualche modo reale.
Con queste parole Annette Wieviorka ammette, da genitore, la propria difficoltà nel fare alla figlia tredicenne il racconto di vicende troppo dolenti. Prende atto di non riuscire a dire l’essenziale.
Difficile per la lingua pronunciare parole, per la mente capirne il senso e, come ultima operazione concettuale, riuscire a scriverle sulla carta.
Essere diventati un numero , inciso per sempre sulla pelle, è stato, parafrasando Amoz Oz, come entrare ed uscire continuamente da una sorta di Chernobyl. Da storica Annette Wieviorka aspira ad una tessitura dell’incomprensibile che possa narrarsi. Da madre teme che non ci siano parole per quel mondo che auspica animato ancora da vita, ma riconosce calpestato da troppa morte.
Il bisogno di dare sostanza alle sue posizioni concettuali s’ incontra nel desiderio di definire ruoli e responsabilità. Voler costruire un nesso fra il fatto e l’intenzione – che ne è stata il motore – mi domando se non sia stato anche modo sottile e raffinato per tollerare un’inquietudine tanto vaga quanto potente, tentando, in aggiunta, di rimettere ordine in emozioni già troppo invasive.
L’operazione del capire, per poter poi comprendere, diventa cesello e ricamo: cerca di dare fisionomia più definita a quell’intreccio di fattori storici, sociologici, economici, politici e psicologici attraverso i quali ancora ci si presenta l’Olocausto.
Se l’elaborazione di quanto ci tormenta dall’interno non può che renderci più porosi, dunque maggiormente sensibili, è quella stessa riflessione a consentire anche il percorso inverso, un contatto con l’umano di altri dopo averlo visto trasformarsi , in altri, inumano.
L’onesto e tenace impegno a definire un prima ed un dopo nella storia dell’Olocausto sollecita spiegazioni tanto logiche quanto lucidamente argomentate. Approfondite considerazioni sulle cause delle deportazioni, delle retate e dei campi di concentramento lasciano però un po’ sullo sfondo quel dirsi dell’Olocausto, che è volto dell’ insopportabile depersonalizzazione di un essere umano.
Bene lo disegna Primo Levi quando accenna ad un noi ,che vive al sicuro, nel tepore delle case, trovando, la sera, cibo caldo ed amici , ed un loro, nel fango, nell’arsura gelida di un pericolo battente, in lotta per un tozzo di pane, davanti alla propria morte sentenziata in un cenno o in uno sguardo.
Annette Wieviorka, come il marito, padre di Mathilde e nonno di Sophie, Eve, Elsa e Nadia, alle quali il libro è dedicato, ha ereditato il nome di un familiare morto ad Auschwitz.
Il fare domande su quanto questa eredità di morte abbia pesato – e ancora condizioni l’autrice del libro – riesprime, in qualche modo, un’inconsapevole bisogno di riparazione. Il desiderio di contrastare il sentimento dell’inconcepibile scandisce l’inconfessata ( ma neanche tanto inconsapevole ) necessità di essere risarcita. Come il marito, ha subito indirettamente questa vicenda: nel tentativo di dominarla entrambi le hanno consacrato una parte del loro lavoro.
Accanto alla voce della figlia Mathilde, dunque, trova un sommesso accordo anche la voce della madre Annette , che non riesce a lenire propri dolorosi interrogativi.
Perchè è mancata una qualche forma di lotta, perché non c’è stata ribellione, perché gli ebrei si sono lasciati prendere e non hanno opposto resistenza, incamminandosi invece come pecore al macello ?
Non sapevano quanto era stato deciso per loro, non sapevano quale ingranaggio si fosse messo in moto, né quale potesse essere l’esito finale.
Non potevano dubitare o avanzare supposizioni: la mostruosità di quelle ipotesi sarebbe stata incredibile, li avrebbe fatti inorridire.
Giorno dopo giorno, senza informazioni, senza giornali e senza radio, in balia delle voci più contraddittorie, gli ebrei dovevano immaginare l’alba di un mattino come tutti gli altri.
E gli altri intorno a loro?
Chi tace davanti ad un omicidio ne diventa complice, e chi non condanna approva. Ma forma di eroismo è quella di donne e uomini che li hanno aiutati a fuggire, a salvarsi, o anche solo hanno loro offerto un rifugio.
Donne e uomini , semplicemente, capaci di compiere il loro dovere di esseri umani in tempi inumani.
Il mondo ha cominciato a prendere atto di una guerra doppia quando le truppe alleate hanno visto degli uomini sopravvissuti in scheletri con occhi stravolti.
I tuoi bisononni hanno la tomba scavata nel cielo, rammenta, con dolore, Annette alla figlia.
L’Olocausto è l’avvenimento più europeo del Novecento, storia ancora viva, visto che alcuni sopravvissuti, purtroppo sempre meno, attendono che la loro voce si faccia remota. Storia, appunto.
Auschwitz è stato il luogo dove più numerosi sono stati i morti, ma anche dove il numero dei sopravvissuti è stato maggiore.
Racconti che facciano leva solo su emozioni non sono però destinati ad avere effetto duraturo.
Continuo a credere nella ragione e nelle risorse dell’intelligenza , all’intelligere che è intus legere.
Nonostante l’abbondanza di letteratura specialistica sull’argomento, ci sono fenomeni nella storia dell’uomo e della donna che lasciano ampi spazi di incomprensione. Diventa sempre più complicato farsi bastare una concettualizzazione teorica pur certa ed anche condivisibile. Chiedersi, ancora, perché tante energie siano state spese unicamente per annientare quegli esseri umani potrebbe essere la domanda che ci faranno domani i nostri nipoti.
Alla quale, forse, non siamo in grado di saper dare compiutamente la risposta.