Bellezza degli ampi circuiti. Relazione di Serena Dinella all’orto botanico di Roma 2016
Ne l’ordine ch’io dico sono accline /tutte nature, per diverse sorti,/più al principio loro e men vicine; /onde si muovono a diversi porti / per lo gran mar de l’essere, e ciascuna/con istinto a lei dato che la porti.
Dante, Paradiso Prima cantica, 109-114
Vi proponiamo, su suggerimento di Gabriella Anselmi, la relazione introduttiva di Serena Dinelli al Secondo Seminario sul mondo vegetale del Circolo Bateson – Roma, Orto Botanico
Nei mesi passati sono sorti vari ostacoli pratici e non si capiva se saremmo riusciti a fare questo secondo Seminario sul mondo vegetale. Ma abbiamo continuato a cercare di risolvere le varie difficoltà. E ringrazio molto a nome di tutti la professoressa Gratani, Direttrice dell’Orto Botanico, che è oggi qui con noi e ci ha risolto almeno la questione della sede, aprendoci ancora una volta questo luogo bellissimo.
Quello che ha sostenuto la nostra determinazione è stato un fenomeno un po’ particolare, che riguarda voi che siete qui: in questi mesi diverse persone hanno mostrato un’affezione speciale per questi seminari, hanno continuato a chiederli a voce, di persona, e con mail arrivate da varie parti d’Italia.
Proprio da questa insistenza voglio partire oggi, perché mi ha molto colpito e mi ha fatto pensare.
Che cosa ci rende preziosi dei seminari sul mondo vegetale? Che rapporto ha questo con l’essere interessati al pensiero di Gregory Bateson? Perché ci piace stare con le piante, pensare su di loro e con loro? Sicuramente ognuno di noi ha una sua risposta.
Io me ne sono data almeno una riandando a quel che dice il nostro amato Bateson: la vita dipende da ampi circuiti interconnessi. Ma di questi grandi circuiti, dice Bateson, la nostra coscienza vede solo archi molto brevi: di solito la nostra coscienza si limita
a vedere solo quei segmenti della vita su cui possiamo intervenire con la nostra intenzionalità1. E questo è sempre più vero oggi, nella nostra vita quotidiana. C’è in Verso un’ ecologia della mente un saggio del 1968 che molti di voi conoscono e che
trovo bellissimo: il titolo, “Effetti della finalità cosciente sull’adattamento umano”.
Qui Bateson dice cose come sempre lungimiranti, ma voglio ricordare in particolare Gregory Bateson, Verso un’ecologia della mente, Adelphi 1977, pag. 185 un passaggio: “Oggi il quadro sociale è caratterizzato dall’esistenza di un gran
numero di entità auto massimizzanti, che dal punto di vista giuridico hanno più o meno lo status di persone (trusts, società, sindacati… nazioni ecc). Nella realtà biologica queste entità non sono affatto persone, e non sono neppure aggregati di persone intere: sono aggregati di parti di persone. Quando il signor Rossi entra nella sala del consiglio della sua società deve limitare strettamente il suo pensiero ai fini specifici della società … Per fortuna non è del tutto possibile far ciò e alcune decisioni della società sono influenzate da considerazioni che scaturiscono da parti più ampie e più sagge della mente …” (VEM pagg 486-87).
A volte mi chiedo quanto certe nostre infelicità possano dipendere proprio dal fatto di vivere chiusi in questi orizzonti così circoscritti: costruiti da noi stessi e, tanto più oggi, imposti e proposti dalla cultura in cui siamo immersi. Mi chiedo cioè quanto le nostre infelicità siano dovute proprio al fatto di ritagliare solo brevi archi di circuiti entro il vasto mondo di cui facciamo parte. Questa riduzione di scala significa perdere la conoscenza e il sentimento della vasta connessione a cui apparteniamo.
Rischia di farci perdere la capacità di comprendere quello che ci accade con una intelligenza lungimirante e profonda. Può limitare la nostra capacità di vivere un sentimento di vero rispetto per noi stessi e per gli altri; e appannare un sentimento di
appartenenza e di rispetto verso il vivente che anima il piccolo astro verde – azzurro su cui viaggiamo lanciati nel buio dell’Universo.
Allora forse l’interesse per questa vasta “ecologia altra” con cui condividiamo ìl pianeta, manifesta quella che sarebbe la nostra naturale propensione a ricollocarci, a riconnetterci, in ampi circuiti.
In questo senso mi colpisce il fatto che oggi si parla sempre di più del mondo vegetale, è un argomento che suscita grande attenzione nel pubblico. Nel 2015 il libro saggistico più venduto in Germania è opera di un guardaboschi, Peter Wohlleben (il
suo nome è profetico, significa ‘benvivere’). Wohlleben introduce il lettore al “meraviglioso mondo degli alberi e delle foreste: racconta come le piante comunicano fra loro, come curano la propria progenie, come collaborano… ” (cito dalla fascetta). Il libro sta avendo traduzioni in tutto il mondo occidentale, e uscirà presto anche in italiano.
Nel frattempo, in un ambito e con una prospettiva molto diversa, è successa un’altra cosa interessante: proprio quest’anno tre laboratori di ricerca europei, di cui uno italiano, hanno messo a punto i primi robot ‘plantoidi’: robot che si ispirano al modo
di essere e di funzionare delle piante per svolgere varie funzioni ambientali e non solo.
Voglio partire proprio da questi due piccoli eventi per parlare di una questione che mi sembra importante. In questo momento ci sono almeno tre forme tipiche con cui si manifesta l’attuale interesse verso il vegetale. Sono tre atteggiamenti caratteristici che
avevamo già visto all’opera l’anno scorso. Da un lato c’è un accostarsi alle piante con la tendenza a vederle simili a noi a livello di comportamenti: per esempio Wohlleben ne parla proprio in termini antropomorfici, e in una intervista rivendica che è questo il
giusto modo per avvicinare le piante; ed è quello che fa per esempio anche Stefano Mancuso, quando parla in chiave divulgativa di piante, umanizzandole. E Wohlleben dice che bisogna guardare le piante umanizzandole per combattere l’opposta tendenza
prevalente a vederle invece come dei robot, da sfruttare per cavarne ossigeno e legno: un atteggiamento verso le piante come merci, come cose meramente utili ai nostri scopi circoscritti e per le nostre intenzioni. Wohlleben lo dice in base alla sua esperienza di guardaboschi, che ha curato per decenni foreste più o meno naturali, più o meno artificiali. Queste foreste sono considerate dagli Enti che se ne occupano solo in termini di utilità per scopi umani: per cui per esempio un albero storto, che nello storcersi ha trovato un suo modo di sopravvivere a qualche situazione difficile, viene considerato “sbagliato e inutile” perché al taglio non risulta economicamente conveniente. E questa è appunto la seconda faccia, il secondo modo di avvicinarsi al
vegetale: è in questa logica, per esempio, che si sente dire che i vegetali si prestano meglio degli animali alle sperimentazioni perché non soffrono, e quindi con loro non si pongono problemi etici nello sperimentare liberamente qualsiasi cosa. C’è poi un
terzo modo, che si vede all’opera nei ricercatori che hanno inventato i plantoidi: è la cosiddetta corrente della biomimetica, una ricerca di tecnologie che traggano ispirazione dalle soluzioni create dalla natura nei suoi grandiosi processi evolutivi.
Dieci anni fa, quando al Darmouth College ho seguito un seminario di biomimetica tenuto da una pioniera, Janine Buyens, era una tendenza del tutto innovativa2. Oggi la biomimetica costituisce di fatto una forte critica, più o meno esplicita, a quello che è stata la tecnologia del IXX e XX secolo: per esempio, a differenza dei sistemi sviluppati dall’Evoluzione, nella produzione
industriale di energia si hanno in realtà forti sprechi e perdite; o nelle lavorazioni industriali si hanno residui dannosi e non utilizzati e così via. La biomimetica si lega all’idea dell’economia circolare, e sta anche ispirando invenzioni quali per esempio le stoffe o le superfici edilizie autopulenti, come lo sono le foglie o le corazze di certi insetti. Ricordo che Janine Buyens ci chiese di immaginare un sistema per conservare a lungo dell’acqua in un contenitore totalmente riciclabile. Ci rendemmo conto alla fine che un’arancia è un’ottima soluzione al problema. Il gruppo italiano di lavoro sui plantoidi è coordinato da Barbara Mazzolai,
Direttrice del Center for Micro-BioRobotics dell’Istituto Italiano di Tecnologia a Pontedera (Pisa). I plantoidi traggono ispirazione dal lavoro delle radici vegetali nell’esplorazione dei terreni, in particolare a scopi di bonifica di suoli inquinati.
Un interessante trend in sviluppo, coltivato in particolare, e forse non a caso, da ricercatrici donne.
Rispetto a certe ottiche oggi molto diffuse, il tentativo che stiamo facendo con questi seminari è battere una strada diversa, legata in senso lato al pensiero batesoniano. Da un lato cercare di essere aperti, curiosi di una ecologia diversa, con cui quella nostra
umana convive; cercare di conoscere almeno un poco, e di capire, questa alterità, senza volerla ricondurre subito a noi, alle nostre intenzioni, al nostro modo di stare al mondo come animali dotati di affetti, coscienza e intenzionalità. Oggi nel pomeriggio
Marcello Sala ci parlerà di soluzioni vitali che il mondo vegetale ha sviluppato nel corso dell’evoluzione, evoluzione tuttora in atto: sono soluzioni molto diverse dalle nostre e rivelano una meravigliosa varietà e duttilità, che forse come tale è alla base
del fatto che le piante hanno saputo vivere sulla Terra per tanti milioni di anni.
Quindi, il primo ‘angolo visuale’ che ricerchiamo è un lavoro sulle differenze, e sulle specificità del mondo vegetale.
Un secondo aspetto del percorso che cerchiamo di fare in questi seminari è andare anche in traccia di aspetti comuni. Questo però non in termini di antropomorfismo delle piante, quanto invece di patrimoni che condividiamo grazie al fatto che tutti,
batteri, animali, uomini e vegetali, abbiamo ascendenze comuni attraverso i grandi, lenti e complessi processi dell’evoluzione in un ambiente planetario condiviso. Scrive Daniel Chamovitz, un importante biologo vegetale israeliano: “Ciò che dobbiamo
capire a un livello più generale è che noi condividiamo la biologia non soltanto con le scimmiette e con i cani, ma anche con le begonie e le sequoie … Quando guardiamo un’edera abbarbicata a una parete, stiamo guardando quello che avrebbe potuto essere il nostro futuro, se non vi fosse stato un qualche remoto incidente probabilistico.
Stiamo osservando un altro possibile risultato della nostra stessa evoluzione, un risultato che ha imboccato una strada diversa circa due miliardi di anni fa. (“Quel che una pianta sa”, Cortina, 2013, pag 147).
In epoche lontanissime a un certo punto si sono aperte diverse strade di evoluzione.
Quindi, un secondo aspetto di questi seminari è cercare di cogliere qualcosa che tutti abbiamo in comune come esseri viventi, come organismi vivi. E stamani Marcello Buiatti ci parlerà di aspetti della biologia che connettono tutto il vivente in termini
molto generali e quindi molto essenziali.
Qui io voglio fare qualche esempio in cui mi sono imbattuta nelle mie letture di dilettante e che mi ha grandemente divertito. Ne voglio parlare perché sono magnifici sia agli occhi di una settantenne come me, come possono esserlo per un bambino di
scuola materna.
Un esempio è il rapporto con la luce, rapporto che è molto diverso in piante e animali, e credo che Marcello Sala ce ne parlerà oggi pomeriggio. Tuttavia ci sono aspetti che rivelano la nostra origine comune, e al tempo stesso la nostra comune connessione con il pianeta. Uno di questi è la sensibilità alla luce blu. Mentre altri recettori della luce sono diversi in piante e animali, in comune abbiamo i criptocromi che in tutti noi viventi regolano i ritmi cicardiani: e cioè l’orologio interno, che regola ogni momento dell’esistenza, nostra e delle piante. I criptocromi assorbono la luce blu, segnalando così alle cellule che è giorno. Succede in noi, e succede nelle piante, e tutti insieme ci regoliamo sugli ampi cicli di rotazione del nostro pianeta intorno
alla grande stella, intorno al Sole. Orologi relativamente semplici di questo tipo sono stati identificati anche nella maggior parte degli organismi unicellulari, perfino i batteri e i funghi. Insomma, l’evoluzione della percezione della luce è scaturita forse
da un atavico fotorecettore comune a tutti gli organismi viventi: la sua esistenza protegge le cellule dai danni mutageni che la radiazione ultravioletta può arrecare. In che modo? Secondo Chamovitz, il “criptocromo ancestrale” ha da sempre monitorato
la luce ambientale, così che la suddivisione cellulare è stata confinata alle ore notturne, giacché le radiazioni solari possono comportare mutazioni dannose in questo delicatissimo processo di divisione delle cellule. Nel corso dell’evoluzione,
poi, la percezione della luce si è differenziata in due diversi apparati visivi, differenti nelle piante e negli animali, inclusi noi3. .Ma noi, moltissimi animali, e le piante, all’alba reagiamo al sorgere del sole e alla luce blu del cielo, risvegliandoci tutti
insieme, così come insieme andiamo verso l’assopimento e la preparazione al buio man mano che la luce blu cala alla sera fino a sparire. Tra parentesi, è un qualcosa su cui riflettere rispetto ai grandi cambiamenti che sono entrati nella nostra vita con la luce elettrica, e oggi ulteriormente con in vari devices elettronici (tutti a luce Led) con cui si legge e si lavora fino a tardi a buio pieno.
Per fotoperiodismo si intende il rapporto dei processi di crescita e sviluppo delle piante con la durata della luce e del buio. La fotosintesi è stimolata dalla radiazione blu alla lunghezza d’onda di 425 ÷ 450 nm e dalla rossa tra i 575 ÷ 675 nm. La capacità fdelle piante di misurare la durata del giorno e della notte consente anche di sincronizzare la riproduzione sessuale di tutti gli individui della stessa specie, favorendo il processo di fecondazione incrociata.
Leggendo per questo seminario sono venuta a sapere, con un certo stupore, che le lampade a LED, così importanti per il risparmio energetico che stiamo perseguendo, hanno però un non piccolo difetto: cominciano ad esserci evidenze che un uso quotidiano e prolungato può danneggiare seriamente la vista umana.
Un altro aspetto comune che mi ha molto colpito e divertito è un micro dispositivo che accomuna noi e i vegetali nella percezione della posizione e del dinamismo dei nostri corpi in rapporto alla gravità terrestre. Dispositivo evidentemente anch’esso molto molto antico, e legato a una questione fondamentale, cioè al percepire come ci si rapporta al suolo del Pianeta. Questo ha anche vedere con quella che rispetto a noi umani si chiama propriocezione: e cioè il modo in cui noi “ci sentiamo”, indipendentemente dai singoli organi di senso. La propriocezione sarebbe quel tipo di sentire per cui, per esempio, in questo momento tutti noi insensibilmente ci sentiamo “seduti sulla sedia in posizione verticale”. Nel caso di noi umani questo sentirci è consentito da segnali provenienti dall’orecchio interno, che comunicano l’equilibrio, e si coordinano con segnali dei nervi di tutto il nostro corpo, comunicando nel complesso al cervello la nostra posizione.
La descrizione dell’organo dell’orecchio che ci dà questo “senso di noi nello spazio” è una miniatura squisita, nella cui ammirazione mi sono perduta.
Nel nostro orecchio interno, accanto alle strutture con cui udiamo, c’è un complesso sistema di minuscoli canali e una piccola camera, il vestibolo, pieni di liquido: i canali sono sistemati su tre piani diversi e tra loro incrociati, in un modo che forma
un graziosissimo giroscopio biologico in miniatura. Quando muoviamo la testa il liquido nei canali si muove, e questo dà messaggi a dei sensori, che reagiscono alle ondate del fluido: data la struttura giroscopica dell’apparato, i sensori sono in grado
di segnalare al cervello i movimenti del capo in ogni direzione.
Ma oltre ai canali, come dicevo, c’è anche la mini-camera del vestibolo: qui, oltre al liquido, ci sono anche dei minuscoli sassolini, gli otoliti cristallini, che rispondono alla gravità affondando nel liquido, il che aumenta la potenza della pressione sui sensori di cui dicevo sopra. Bene, mi direte, affascinante, ma che c’entra con le piante? Beh, anzitutto la consapevolezza statica e dinamica della posizione del corpo c’è anche nelle nostre lontane parenti piante. E, come stabilito da lunghissime ricerche, proprio come noi abbiamo gli otoliti nell’orecchio interno, le piante hanno i loro sassolini, chiamati statoliti: questi sassolini si trovano in quelle cellule della parte della radice e dell’endodermide che svolgono funzioni di segnalazione della posizione nello spazio e rispetto al suolo. Anche gli statoliti rotolano in posizioni diverse a seconda della posizione di quella parte della pianta, esattamente come fanno gli otoliti, i sassolini cristallini del nostro orecchio interno. E’ uno dei modi con cui la pianta percepisce la propria posizione rispetto al suolo, grazie al quale poi, come abbiamo visto l’anno scorso, lavora a mandare le sue radici verso il basso e il fusto verso l’alto, correggendo il proprio andamento se viene inclinata.
Un terzo ingrediente di questi seminari è un’ ampia esplorazione delle connessioni e delle interdipendenze. Di questo ci parlerà egregiamente, come ho già detto, il Professor Buiatti. Ma oggi ci è sembrato interessante rompere anche il confine che Bateson ha posto tra Pleroma (il mondo non vivente) e la Creatura (il mondo vivente). Se si legge bene Bateson si vede che lui il confine l’ha fissato per focalizzarsi sul tema del vivente e della sua specificità, che è già di per sé enorme e arduo. Ma credo che sarebbe stato d’accordo con noi per l’invito che abbiamo fatto alla dottoressa Calzolari perché ci parli del suolo: oggi infatti il seminario partirà proprio da suolo come area liminale, di soglia, tra non vivente e vivente. Quel suolo che consideriamo spesso come “cosa” amorfa, o spesso semplicemente come terra che sporca (per cui cerchiamo di mattonare tutto lo spazio intorno alla casa e tenere
‘pulito’). Ripartire dal suolo ci è sembrato importante per ricostruire connessioni che il nostro modo di vivere continuamente ci fa perdere. Credo che già solo il titolo del contributo della dottoressa Calzolari ci faccia intuire che senza il suolo è difficile
vivere, anche se a quanto pare non ce ne rendiamo affatto conto, visto che in continuazione divoriamo suolo vivo per coprirlo di complicate cose statiche prodotte da noi e dalla nostra splendida intelligenza.
Gli interventi umani sul suolo nel corso degli ultimi due secoli sono stati follemente pervasivi: oltre metà dei suoli fertili della Terra sono ormai utilizzati dall’uomo (oltre 13 miliardi di ha), per fini agricoli e non, con una perdita di suolo stimata in 5-10
milioni di ha/anno. In molti casi, questa pressione umana è stata di intensità tale da trasformare il naturale ordine dei suoli in una totale disorganizzazione, in un vero caos, producendo di conseguenza una crisi della diversità. I casi più emblematici e
orrendi di caos sono le discariche abusive, dove sostanze naturali e sostanze chimiche da noi inventate si mescolano in combinazioni mai esistite in tutta la storia della Terra, combinazioni folli e non di rado perfino difficilissime da identificare e da
descrivere. Il Premio Nobel per la Chimica Paul Crutzen, in un articolo uscito su Nature nel 2002, è arrivato a dire che stiamo vivendo una nuova Era geologica, l’Antropocene. La caratteristica di questa nuova Era è la pervasività dell’impatto
umano sui suoli e sulla geologia superficiale (e quindi indirettamente sul regime delle acque). Crutzen nota, forse come un monito, che l’avvento dell’Antropocene progredisce con la medesima subitanea rapidità che ha caratterizzato la fine del
Cretaceo 65 milioni di anni fa (sì, proprio l’epoca in cui in modo subitaneo moltissime specie fino allora floride- tra cui i famosi dinosauri- furono cancellate per sempre dalla faccia della Terra, non si sa bene come e perché). Questa nuova Era si
manifesta già oggi nella ridotta capacità dei suoli di mantenere la biodiversità e di reggere l’attuale produzione agricola.
Credo che in questo panorama di insensibilità al mondo in cui viviamo il contributo di Lucilla Ruffili, alla fine della giornata, ci farà risentire l’odore della terra, ci farà sentire come coltivando si possa tornare a conoscerla e sentirla come una cosa viva,
con i suoi buoni odori emanati dai funghi e dai batteri, creature minuscole che la rendono appunto una realtà in continua microscopica trasformazione da milioni di anni. Realtà che è l’habitat naturale per i vegetali, vegetali ai quali a nostra volta
dobbiamo molto, in primis la possibilità di respirare. E se vogliamo vivere di ossigeno abbiamo bisogno. I brevi circuiti in cui viviamo ce lo fanno dimenticare. Ma nel nostro corpo abbiamo i polmoni. Qualche anno fa, durante un seminario, ho
scoperto con stupore che la superficie polmonare di ognuno di noi è di ben 90 metri quadri: non ce ne accorgiamo perché questa vasta superficie del nostro scambio vitale col mondo è impacchettata in un meraviglioso sistema di alveoli, per cui entra nel
poco spazio del torace umano. Ma forse non ce ne accorgiamo anche perché, vivendo in ristretti circuiti, spesso il nostro respiro è anch’esso ristretto e breve.
E non a caso tra gli oratori che abbiamo oggi invitato c’è anche Caterina Lorenzi, che fa un lavoro prezioso: prepara gli insegnanti a lavorare sull’ecologia con le nuove generazioni. Io credo che sia prezioso per un bambino poter riflettere sul mondo in
cui sta, sulle domande che spontaneamente ogni bambino e ogni adolescente si fa su chi siamo, da dove veniamo, e dove andiamo, visto che ogni essere umano giovane è un filosofo e uno scienziato potenziale molto più di quanto di solito riconosciamo (come Marcello Sala e Caterina stessa sanno bene).
Confrontarsi col mondo vegetale è una vera e propria avventura umana e conoscitiva.
Significa confrontarsi con una ‘ecologia altra’, con la quale la nostra umana ecologia convive, in modo fin troppo inconsapevole.
E’ anzitutto un’avventura nel tempo. Il modo di essere delle piante è su tutt’altra scala di tempo: è un modo lentissimo, a paragone del nostro. Abbiamo visto l’anno scorso come i loro movimenti per noi diventino percepibili solo registrandoli a lungo
attraverso una telecamera fissa. Ma la scala del tempo è diversa anche rispetto alla lunghezza che la loro vita può avere. Una delle piante più antiche finora identificate è la Lomatia Tasmanica, che sopravvive in Australia lungo i ruscelli della residua Foresta pluviale: da 43.000 anni. Questa pianta non ha diversità genetica, ha una solo minima variabilità morfologica. Con ogni probabilità l’intera specie è un unico clone che si propaga per via vegetativa con un andamento di straordinaria lentezza. In effetti nella stessa zona dove sta la pianta vivente sono stati trovati frammenti fossili di foglia geneticamente identici a quelli di oggi e risalenti appunto a 43.000 anni fa.
Un’altra pianta antidiluviana è stata individuata in California: è una entità che esiste continuativamente da 13.000 anni, la Quercus Palmeri Jurupa. E’ un albero a cespuglio di 25 MQ di ampiezza. Anche in questo caso geneticamente sono tutti cloni
di un unico individuo. La Jurupa cresce di un solo millimetro all’anno. E, dicono i botanici e i biologi, è proprio questo suo modo di crescere lentissimo che le ha permesso di sopravvivere a innumerevoli incendi, periodi di siccità, al freddo
estremo, a tempeste e a fortissime raffiche di vento.
Forse dalla Jurupa ci viene un messaggio interessante per riflettere sul mito della velocità che oggi ci viene così spesso proposto ed imposto. E forse confrontarsi con questa profonda dimensione del tempo può aiutarci a rientrare in un vasto respiro,
assai più ampio, rilassato e disteso del fiato breve con cui spesso ci troviamo a vivere e a costruire il significato di quel che ci accade. (16 aprile 2016)
Gregory Bateson (Grantchester, 9 maggio 1904 – San Francisco, 4 luglio 1980) è stato un antropologo, sociologo e psicologo britannico, il cui lavoro ha toccato anche molti altri campi (semiotica, linguistica, cibernetica…).
Varrebbe forse la pena considerarlo provocatoriamente prima di tutto un filosofo, nel senso “classico” del termine, per la sua inimitabile capacità di passare da un campo all’altro dello scibile umano creando sintesi originali spesso descritte come olistiche. Due delle sue opere più influenti sono Verso un’ecologia della Mente (Steps to an Ecology of Mind, 1972), e Mente e Natura (Mind and Nature, 1980). Bateson era figlio del famoso genetista William Bateson ed è stato, dal 1935, il terzo marito di Margaret Mead, da cui nel 1939 ebbe una figlia, Mary Catherine Bateson, scrittrice e antropologa.
In vita, Bateson era famoso soprattutto per aver sviluppato la teoria del doppio legame per spiegare la schizofrenia.