BOLOGNA – dal 8 giugno al 31 luglio a Villa delle Rose una mostra di giovan* artist*- GHOSTS AND SELF – a cura di GIULIA PEZZOLI
SEGUIAMO LA NASCITA E IL PERCORSO DI QUESTA MOSTRA CON GIULIA PEZZOLI – La mostra Ghosts and the self / I fantasmi e il sé è il risultato della prima residenza del programma ROSE, progetto volto a promuovere la giovane arte internazionale che l’Istituzione Bologna Musei | MAMbo, ha organizzato per l’anno 2016/17.
Il programma ROSE coinvolge la Residenza per Artisti Sandra Natali e la sede espositiva di Villa delle Rose, dove gli artisti sono chiamati a soggiornare e lavorare. Mahony (Vienna, 2002) è un collettivo artistico formato da Stephan Kobatsch (Austria), Clemens Leuschner e Jenny Wolka (Germania). Mahony si esprime attraverso opere multiformi. Nei loro interventi disegno, pittura, scultura, fotografia, video, collage, stampa diventano tracce di approfondite ricerche in svariati ambiti del sapere: dall’antropologia alla filosofia, dalla geopolitica alla storia. La mostra presenta 10 interventi realizzati da Mahony durante le 4 settimane di residenza. Opere esistenti e lavori site-specific si mescolano nelle sale di Villa delle Rose per interrogare lo spettatore su un tema di grande attualità: la costituzione di un’identità europea contemporanea e la sua convivenza con il nostro passato coloniale, ancora oggi presente, come uno spettro che riappare nella nostra quotidianità.
Nella prima sala, ispirata alla visita alle collezioni del Museo di Antropologia dell’Università di Bologna, Mahony crea un ambiente laboratoriale, sospende al soffitto 5 lastre di vetro (La formazione della cattiva fede, 2016), su ognuna delle quali compaiono immagini sfocate, macchie simili a volti. A terra sono state appoggiate alcune forme per calchi (Testimonianza disincrostata #1 e #2, 2016), le loro sagome ricordano strumenti utilizzati in antropometria: un fonografo e una scala cromatica (servivano rispettivamente per registrare le voci e classificare il colore della pelle dei soggetti studiati).
Mahony richiama alla memoria le pratiche, spesso invasive, attraverso cui i corpi umani venivano studiati e classificati nelle colonie e nei campi di prigionia della I e II Guerra Mondiale, riflette sul processo di costruzione dell’immagine dell’altro attraverso la creazione di parametri e categorie eurocentriche sin dall’epoca coloniale.
I criteri espositivi adottati da tutti i musei antropologici ed etnologici ispirano Il raduno, 2016, la scultura collocata al centro della seconda sala. 120 statuette in gesso, dalla forma modernista ed arcaica allo stesso tempo, sono collocate su 5 scaffali. Sebbene astratte, le figure conservano un aspetto figurativo e sembrano volgere le spalle al visitatore, mostrando invece il fronte verso lo spazio interno e vuoto della struttura, a noi inaccessibile. Mahony riflette sulle metodologie di presentazione di ‘oggetti sensibili’ spesso muti testimoni di una storia complessa e controversa e della loro esposizione decontestualizzata, che li rende incapaci di comunicare allo spettatore la loro autentica valenza simbolica.
Alzando lo sguardo verso il soffitto della terza sala, vediamo Amnesia strutturata, 2016, uno scheletro in cavi di metallo di quello che, ad un primo sguardo, sembra un cappello da safari, un oggetto – simbolo delle fasi esplorative durante le azioni belliche nei territori di Africa, Asia e America Latina. La sua struttura, sospesa al soffitto tramite contrappesi in gesso, è talmente leggera che sembra un disegno nell’aria, la sagoma di una cupola, un emisfero che sovrasta il visitatore fin dal suo primo passo nella stanza. In questa sala Mahony ci parla della difficoltà di riflettere sul proprio posizionamento quando si è costantemente immersi, sin dalla nascita, in forme di pensiero e sovra-strutture eurocentriche. Al piano superiore, nella prima sala sulla destra, Mahony rende visibili i processi legati alla memoria e all’identità. Sulla soglia, Senza titolo (i molti accadimenti), 2013, si configura come un dispositivo per registrare i passaggi e i percorsi dei visitatori negli spazi espositivi. L’opera è composta da granulato di sughero sagomato come lo zerbino di un’abitazione. Sulla parete di fronte da La verità sulle colonie, 2016, riemerge, sotto strati di gesso, la traccia del manifesto della contro-mostra che il movimento surrealista organizzò nel 1931 per contestare la Grande Esposizione Coloniale di Parigi, nata allo scopo di promuovere la funzione civilizzatrice del colonialismo.
Entrando nella sala sulla sinistra, sembra di assistere alla preparazione della spedizione di un ‘ritrovamento archeologico’. In 12 pietre, 5 bastoni, 2 scatole della reincarnazione, 2016, reperti onirici vengono sistemati in imballi sicuri, come le parti di un oggetto che sarà presto da ricostruire. Bastoni, pietre e ‘scatole della reincarnazione’ compongono questo lavoro che trova le sue origini nella dimensione onirica. La reincarnazione, qui non intesa come credo religioso, diviene immagine del ritorno del dimenticato, del riemergere dall’ombra, della rigenerazione del passato.
Nella sala successiva, il lavoro di Mahony si sviluppa attorno ai forti contrasti e alle contraddizioni che caratterizzano la nostra società, in un continuo scambio tra passato e presente. In Porto sicuro (spettacolo europeo #1), 2016, la mitologia greca e romana, il passato coloniale e la cronaca attuale si incontrano. Tre coperte militari sono esposte come teli da spiaggia su un piedistallo, i loro ricami ritraggono Tritone, Minerva e Hydra, nomi mitologici assegnati a operazioni di controllo di Frontex, l’agenzia dell’Unione Europea fondata nel 2004 allo scopo di proteggere i confini dell’Unione. Un libro di piombo è appoggiato sulle coperte, a indicare un momento di pausa, di riflessione. Il titolo inciso sulla copertina cita: The white man’s burden (Il fardello CITTÀ METROPOLITANA DI BOLOGNA l’Istituzione Bologna Musei è sostenuta da dell’uomo bianco), poema di R. Kipling e successivamente libro di W. Easterly. Mahony ci porta ancora una volta ad osservare il nostro eurocentrismo, inscenando un momento di piacere con oggetti carichi di ambiguità e di significati contrastanti.
Entrando nell’ultima sala sulla destra troviamo l’opera La fantastica invasione, 2015. Su una cassa da trasporto, un frigorifero aperto contiene una scultura dalla foggia arcaica, simile a un manufatto pre – colombiano. Si tratta in realtà della copia di una delle statue Art déco collocate a decorazione del grattacielo al 570 di Lexington Avenue a New York, progettato da J. W. Cross per la sede della Radio Corporation of America. La corona di raggi della statua, simile a un’aureola, doveva simboleggiare la diffusione delle onde radio. Lo stesso edificio fu successivamente sede della General Electric, prima compagnia che produsse ilfrigorifero su scala industriale, promuovendone la diffusione mondiale. L’opera può essere letta come una sorta di divinità del commercio internazionale, come un falso idolo di modernità e progresso: Mahony ce la presenta isolata, in una stanza buia, amplificando l’effetto sacrale del lavoro e mettendo l’accento sul suo simbolismo.
Nell’ultima sala sulla sinistra, la video-proiezione Variazioni sul cappello di piume, 2012, si ispira al lungo dibattito tra il governo messicano e quello austriaco per la proprietà e conservazione del copricapo di Montezuma, una corona di piume che, secondo alcune fonti, sarebbe stata donata dal sovrano in persona al conquistatore Cortés al suo arrivo in Messico nel 1519. Il copricapo, oggi conservato presso il Weltmuseum di Vienna, costituisce un elemento fondamentale della sua collezione. Nel video, Mahony presenta al centro della proiezione un cappello da alpino, mentre una serie di ambientazioni e scenari differenti scorrono sullo sfondo. L’audio che accompagna le immagini illustra, con voce neutra, la lunga e dibattuta storia della corona così come venne raccontata al pubblico del Weltmuseum. Il lavoro, che dal 2012 ha subito numerose variazioni e implementazioni, si ispira ancora una volta alle metodologie espositive di ‘oggetti sensibili’.
Nel corridoio di entrambi i piani Mahony colloca l’opera La notevole assenza del viola, 2016: al muro sono applicate due serie di vasi da fiori contenenti 14 piante di Violetta Africana, ciascuna di un colore differente. La loro disposizione su due linee, orizzontale al pianterreno, verticale al piano superiore, si connette al lavoro del collettivo alludendo all’idea di classificazione e categorizzazione.
La Violetta Africana, anche nota come Saintpaulias, è una pianta originaria della Tanzania e della zona orientale dell’Africa tropicale.I suoi semi furono importati in Europa nel 1892 da uno dei commissari distrettuali dell’Africa Orientale Tedesca, il barone Walter Von Saint Paul – Illaire, da cui assunsero il nome di Saintpaulias. Da allora furono oggetto di una vasta e rapida diffusione che giunse sino agli Stati Uniti dove furono ibridate dando origine ad oltre 2000 varietà artificiali di colori e forme differenti.
Sulle pareti dei corridoi del pianterreno e del primo piano, Mahony ha posizionato Senza titolo, 2016, dei brevi testi a parete volti a fornire un ulteriore livello di interpretazione del lavoro. Si tratta di frasi o parole tratte da fonti e documenti inerenti al tema coloniale. I testi richiamano l’atto di definire e denominare oggetti ed eventi, istituendo di nuovo un parallelismo con i metodi espositivi museali.
Foglio di sala a cura di Giulia Pezzoli, Francesca Bersani e del Corso di Didattica dell’Arte e Mediazione del Patrimonio Artistico dell’Accademia di Belle Arti di Bologna: Martina Aiazzi Mancini, Marta Anania, Claudio Baccanico, Roberta Baino, Sabrina Bernardi, Laura Bonora, Fiammetta Cantini, Letizia Cappella, Sonia Casalino, Andrea Cevolani, Luna Corà, Ambra D’Atri, Matilde Fabbri, Virginia Galli, Federica Gianfalla, Francesca Latanza, Sabrina Lodeserto, Michele Luccioletti, Francesca Manni, Martina Marchesi, Francesca Masotti, Francesca Mione, Giulia Orlandi, Valeria Pelosi, Rita Piglionica, Valentina Pigozzo, Guendalina Piselli, Serena Togni.
Nel corso della mostra l’Istituzione Bologna Musei | MAMbo pubblicherà un catalogo con una
ricca selezione fotografica della mostra allestita a Villa delle Rose e i contributi critici di
Roberto Pinto e Giulia Grechi.
Villa delle Rose (via Saragozza 228 – 230, Bologna)