Borghi di montagna salvati dai profughi
Per centocinquant’anni, è stato il “paese della Liabel”: fu a Pettinengo – poco più di 1500 anime su una cima montana nell’entroterra biellese – che lo storico marchio della “lana fuori e cotone sulla pelle” aprì, nel 1851, il primo maglificio industriale nella storia d’Italia. Con i suoi mille impiegati, lo stabilimento ha nutrito per un secolo e mezzo il tessuto economico e sociale di quella vallata: finché nel 1998 sono arrivati gli americani, che hanno rilevato il marchio e – in barba agli accordi presi con l’ex proprietario Angelo Pavia – dismesso la produzione. Il contraccolpo per il territorio fu devastante: disoccupazione, calo demografico, esodo verso le città. Lo stesso Pavia, imprenditore vecchio stampo, proprio non ci stava a tradire le promesse fatte a dipendenti e concittadini. Poi, una decina d’anni fa, Pavia si è deciso a reagire: terminato un periodo di volontariato con gli anziani del paese, ha liquidato ai figli la futura eredità, trattenendo per sé e la moglie quanto bastava a vivere “come normali pensionati”. Ciò che rimaneva del suo capitale l’ex industriale lo ha utilizzato per dar vita a “Pacefuturo”, un’associazione di beneficenza che dal 2007 – oltre a organizzare mostre, rassegne ed eventi – si occupa di assistere disabili, indigenti e disoccupati.
Il paese salvato dai rifugiati. A questi ultimi, qualche anno fa, si sono aggiunti i richiedenti asilo: ed è così che il borgo è entrato con tutti e due i piedi in una nuova fase della sua storia. Finita l’epoca Liabel, oggi Pettinengo è conosciuto come “il paese salvato dai migranti”: il Comune al momento ne ospita un centinaio, circa il 2000% in più di quanto stabilito dalle linee guida del Viminale nel piano operativo per i cosiddetti “flussi straordinari”.
Arrivano da Mali, Nigeria, Senegal e Costa d’Avorio: ma nessuno, a quanto pare, si sente “invaso” nella zona. Al contrario, con i e le migranti nascono amicizie, collaborazioni lavorative e sono già stati celebrati almeno due matrimoni “misti”. Il tutto grazie alla gestione oculata e trasparente dei fondi stanziati dal governo.
“L’importante – spiega il direttore di Pacefuturo Andrea Trivero, che alle spalle ha una lunga esperienza da cooperante in Africa – è che gli stanziamenti per l’accoglienza siano destinati al 100% ad attività mirate ad accogliere. Noi abbiamo investito ogni euro in programmi di formazione e inserimento lavorativo, tirocini, stage, cercando sempre di creare delle sinergie che andassero anche a beneficio del territorio e di chi lo abita”. Le ricadute, in questo senso, cominciano ad essere ben visibili. Di recente, a Pettinengo, una quarantina di disoccupati sono stati assunti per lavorare con i migranti a una serie di opere di manutenzione dei boschi, del patrimonio pubblico e delle aree verdi: lo scorso gennaio, durante un’intervista alla Tv Svizzera, uno di loro affermava di aver vinto ogni diffidenza verso i nuovi arrivati, “tanto da essermene preso uno in casa”. “Alla fine di uno dei progetti d’accoglienza – ha detto l’uomo – mi sono chiesto ‘ma ora dove vanno a finire questi’? E così ho deciso di ospitarlo da me”.
“Montanari per scelta”. Di nuovi abitanti, del resto, ce ne sarebbe fin troppo bisogno nei comuni montani; che in Italia – pur rappresentando i tre quinti del territorio nazionale – ospitano appena un quinto della popolazione totale. La sola Pettinengo ha perso un migliaio di anime negli ultimi 30 anni, ma il trend è lo stesso in tutto l’Appennino: per questo, superate le diffidenze iniziali, i richiedenti asilo qui sembrano spesso riuscire a integrarsi più facilmente che nei grandi centri urbani. “La sfida – spiega Maurizio Dematteis, giornalista, ricercatore e presidente dell’associazione Dislivelli – è trasformare questi ‘montanari per forza’ in ‘montanari per scelta’. Perché all’inizio nessun rifugiato è troppo felice di essere destinato a un comune montano: la meta, in genere, è rappresentata dalle metropoli nord-europee come Stoccolma o Berlino. Ma, col tempo, qualcuno inizia a rendersi conto che – laddove nelle città spesso regnano pregiudizio e diffidenza e i confini europei sono sempre più blindati – in montagna, al contrario, c’è un gran bisogno di loro”.
Quello di Pettinengo, in effetti, non è un caso isolato. Insieme al collega Alberto Di Gioia, Dematteis ne ha presi in esame altri sei, tutti esempi altrettanto virtuosi di integrazione ben riuscita in comuni d’alta quota dell’entroterra piemontese.
Denominata “Montanari per forza”, l’indagine è stata commissionata a Dislivelli e Fieri dalla Compagnia di San Paolo, che era interessata a comprendere come l’accoglienza dei richiedenti asilo stia procedendo nel territorio montano regionale. I precedenti non erano dei migliori: a Torino, ad esempio, è ancora viva la memoria dei 118 rifugiati che qualche anno fa furono trasferiti d’ufficio a Prà Catinat, in una struttura alberghiera del tutto isolata nella Val Chisone, dove nessuno si era mai preso neppure la briga di insegnar loro l’italiano. “Le cose – continua Dematteis – sono notevolmente migliorate rispetto ad allora: siamo di fronte a un vero e proprio modello d’accoglienza diffusa, che ha iniziato ad emergere nel luglio 2014 con il ‘Piano operativo per i flussi straordinari’ disposto dal Viminale. In Val di Susa, ad esempio, abbiamo analizzato il caso di un ventina di comuni che si sono riuniti spontaneamente in un coordinamento, e in questo modo sono riusciti a superare i problemi che nascono per via della profonda disparità tra il Sistema Sprar (Protezione richiedenti asilo e rifugiati) e quello decisamente più emergenziale dei Cas, i Centri di accoglienza straordinaria a cui i comuni montani fanno generalmente riferimento”. Dematteis si riferisce al protocollo d’intesa firmato l’anno scorso da venti municipalità – tra le quali Avigliana, Buttigliera, Condove, Novalesa e Sant’Ambrogio – che si sono accordate per accogliere, in piccoli numeri e in maniera uniforme sul territorio, oltre cento rifugiati all’interno di normali abitazioni reperite nel mercato locale: la Prefettura di Torino si è a sua volta impegnata a non richiedere ulteriori posti ‘emergenziali’ al territorio, in modo che l’accoglienza possa avvenire in modo ottimale. I primi migranti sono arrivati nel luglio del 2016: e l’intera Valle, attraverso l’iniziativa di associazioni, parrocchie e privati cittadini, si è mobilitata perché i nuovi residenti si integrassero al meglio.
I boschi salvati dai migranti.
C’è poi il caso di Ormea, un comune di appena 400 abitanti, dove l’arrivo dei profughi, come a Pettinengo, ha rappresentato l’occasione per creare nuovi posti di lavoro. “Qui – precisa Dematteis – è stata l’amministrazione a farsi garante del progetto. Inizialmente, l’accoglienza doveva essere gestita da un imprenditore che avrebbe dovuto ospitare una trentina di rifugiati all’interno di una struttura alberghiera in disuso, riadattandola a Cas: ma la diffidenza degli abitanti aveva iniziato a montare, e si rischiava di finire alle barricate. Così, il sindaco ha deciso di ristrutturare una vecchia casa di riposo, e si è impegnato personalmente a gestire la permanenza dei richiedenti”. Oltre alle opere di ristrutturazione, l’arrivo dei profughi ha permesso di avviare una serie di progetti per il recupero di vecchi castagneti e terreni agricoli che versavano in stato d’abbandono: ai lavori hanno preso parte anche gli abitanti del borgo, che oltre a trovare un lavoro hanno potuto cementare, in questo modo, un ottimo rapporto con i nuovi arrivati.
Altrettanto è accaduto a Entracque, dove il Comune, per arginare la protesta che andava montando tra la cittadinanza, si è fatto garante dell’accoglienza di una quarantina di richiedenti asilo, formandoli perché potessero svolgere lavori di manutenzione di aree naturalistiche e beni demaniali: un’iniziativa, questa, che si è rivelata molto utile quando Paolo Salsotto, fresco di nomina alla dirigenza dell’ente Parco Alpi marittime, ha voluto coinvolgere i quaranta in un’opera di pulizia e manutenzione di boschi e sentieri della riserva. “In realtà – spiega Salsotto – i lavori stanno faticosamente iniziando: i migranti al momento stanno terminando di dipingere e risistemare alcune strutture in legno che si trovano nel territorio del Parco. Anche la pulizia dei sentieri è già iniziata, ma si tratterà probabilmente di un lavoro ancora lungo e complesso, perché parliamo di percorsi che si inerpicano in alta quota per diversi chilometri: in alta Val Tanaro, ad esempio, c’è da riparare i danni dell’alluvione del dicembre scorso. Altrove si tratterà semplicemente di rimuovere i rami e la vegetazione che spesso tende a inghiottire i percorsi”.
Un problema, quest’ultimo, che in realtà riguarda i centri abitati, prima ancora delle aree boschive: in Italia al momento sono almeno 6mila i paesi fantasma, totalmente disabitati e progressivamente invasi dalla boscaglia. “Ma lo stesso – chiosa Dematteis – sta accadendo anche in molte aree che, seppur ancora popolate, sono colpite da un calo e da un invecchiamento demografico che pare inarrestabile, rendendo sempre più difficile la manutenzione dei borghi. Non lo scopriamo certo noi che l’arrivo dei migranti può rappresentare un’opportunità per questi luoghi: ma sarebbe bello se i modelli di convivenza sociale e produttiva sperimentati da queste comunità potessero estendersi anche ad altre aree del Paese”. (ams)