Buon compleanno a Marisa Rodano
L’8 marzo 2013, quando ero Coordinatrice del Corso di Laurea in Scienze della Comunicazione all’Università di Cassino e Lazio Meridionale, proposi all’Ateneo il conferimento della Laurea Honoris Causa in Scienze della Comunicazione alla Senatrice Marisa Cinciari Rodano; ricordo ancora tutto di quel giorno, prima di tutto la sua fierezza nell’Aula Magna mentre leggeva in piedi la Lectio Magistralis, che era poi una lezione di dignità. Ripropongo qui la Laudatio a lei dedicata, così si chiama la relazione in queste occasioni, per augurarle a nome mio e di tutta la Giuria del Premio Il Paese delle Donne, e credo di buonissima parte delle lettrici del Paese delle Donne on line, buon compleanno.
Magnifico Rettore, Direttore Generale, Autorità Accademiche e Politiche, Colleghi e Colleghe, Signore e Signori, Studenti e Studentesse, esponenti di associazioni femminili qui presenti, Fildis(Federazione Italiana Laureate Diplomate Istituti Superiori), Centro Italiano Femminile, Fidapa, Casa Internazionale delle Donne, Rete per la Parità, Accordo di Azione Comune per una Democrazia Paritaria,
sono molto onorata dell’incarico di presentare la Laudatio dell’On. Marisa Cinciari Rodano, in qualità di Coordinatrice del Corso di Laurea in Scienze della Comunicazione, che ha formulato la proposta, dando inizio a un viaggio istituzionale che ci ha condotti qui stamane; ma anche personalmente felice di poter pronunciare nei suoi riguardi parole autentiche di stima e riconoscenza, che hanno assai poco di retorico e molto di genuino. Il suo cursus honorum come si dice, rimanda nell’immaginario a una cornucopia: molti i frutti che fuoriescono, altrettanti quelli ancora celati all’interno, anche perché gli ambiti da lei prediletti e i territori abitati sono stati soggetto recente di analisi storica da parte degli studi di genere e sfuggono ancora ad una visione complessiva.
Possiamo, anzi dobbiamo ricordare che fu tra le fondatrici nel ‘44 dell’Unione Donne Italiane, l’associazione nata nell’immediato dopoguerra, con pregiudiziale antifascista, che riuniva principalmente le donne comuniste, socialiste e repubblicane, ma che ambiva a rappresentare i bisogni delle donne nuove in un’Italia nuova; è stata Consigliera comunale a Roma per più di dieci anni, dal ‘46 al ‘56, Deputata alla Camera dal ‘48 al fatidico ‘68, Senatrice fino al 1972, Consigliera provinciale dal 1972 al 1979, Parlamentare europea, Componente della Commissione nazionale parità, tra le fondatrici di un Caucus di associazioni femministe e animatrice negli ultimi anni di una Rete per la Democrazia paritaria; tutto ciò però dice molto di più se a questo si accoppiano i valori con i quali gl’incarichi sono stati accettati e interpretati. E’ a questa sinfonia d’ideali, valori e cultura, del politico, del sociale, del privato cui l’Università rende omaggio dopo Simone Weil.
Forse Marisa Cinciari Rodano ricorderà la lezione di storia e di vita che ci diede quando, esattamente il 6 marzo di dieci anni fa, fu ospite all’Università di Cassino, per un seminario sulle pari opportunità. Il titolo del Seminario, lo stesso del volume pubblicato a un anno di distanza, recitava Generazioni diverse: mutamenti a confronto, perché era molto chiaro fin da allora, che lei rappresentava per ragazzi e ragazze un personaggio-cerniera, fra generazioni diverse, Italie diverse, fra tradizione e modernità, fra culture arcaicamente misogine e modernità della condizione femminile, fra perennità, se mi lasciate passare il termine e distorsione di alcuni valori fondanti la comunità politica.
Allora, come sempre, non era difficile entrare in contatto con Lei e chiederle di partecipare: nessun filtro, nessuna schiera di portaborse, nessun tempo interminabile prima di avere una risposta, senza essere richiamati. Era sufficiente un telefono, una mail, per una disponibilità non tarata sul criterio dell’illustre e sul clamore di ritorno dei media. Il tema di cui parlò, anticipava largamente uno dei nodi degli anni a venire: La politica come valore. In quell’occasione diceva, e la cito: Per la mia generazione e anche per altre successive alla mia, diciamo fino agli anni ‘70, la politica era intesa come mezzo nobile per operare al fine di costruire la libertà e un assetto sociale giusto e ordinato, sciogliere le contraddizioni, combattere le disparità … ho cominciato molto presto a entrare nella sfera pubblica, a 17 anni, in seconda liceo. Va detto subito che le ragazze della mia generazione quindi anche io, non abbiamo scelto l’impegno politico: non pensavo che la politica sarebbe stata la scelta della mia vita, avevo allora altre aspirazioni, avrei voluto dipingere, sognavo di fare l’esploratore, aspiravo ad essere uno scienziato … la mia generazione non ha scelto la politica, è stata scelta dalla politica, chiamata, mobilitata dalla storia. C’era il fascismo, nel ‘38 vennero emanate le leggi razziali, vedemmo i nostri compagni di scuola e anche insegnanti costretti ad abbandonare il nostro liceo statale, perché non appartenenti alla razza ariana, ne restammo prima stupite, poi angosciate e sconcertate. L’avvicinarsi della guerra rafforzò in noi la convinzione che ci si doveva battere contro uno stato di cose che ci avrebbe portato al disastro. Contava anche l’essere donna: noi ci sentivamo eguali ai nostri compagni di scuola, ma in famiglia non era così, alle ragazze era concessa minor libertà, si predicava loro un avvenire domestico … noi non volevamo vivere come le nostre madri, spesso frustrate e infelici. Se i nostri compagni s’impegnavano nella lotta antifascista perché non avremmo potuto farlo anche noi? La spinta originaria, a ben vedere, era la voglia di esserci, di affermare nei fatti la nostra eguaglianza coi maschi. Oggi si direbbe forse che volevamo omologarci, ma allora l’eguaglianza ci appariva come un valore irrinunciabile. Entrai così in un gruppo clandestino al Liceo, poi all’università ci fu l’incontro con altri giovani, già impegnati con docenti prestigiosi, dopo tre mesi avevo abbandonato prima Scienze biologiche, poi Lettere. Nel ‘43 fui arrestata dalla polizia fascista assieme ad altre quattro ragazze.
Già da questo primo scorcio di vita di Marisa Cinciari, una bella ragazza bionda dalle larghe trecce, di buona famiglia, il cui padre non fu mai in sintonia politica con lei, sono evidenti molte delle ragioni che hanno spinto Scienze della Comunicazione a proporre la laurea, epilogo di un percorso e insieme un riconoscimento, che gli impegni assolutizzanti della sua vita non le consentirono di portare a termine; di mezzo si misero la prigionia, la Resistenza, la militanza politica, l’impegno nell’associazionismo femminile, la famiglia assorbente e numerosa, cinque figli, nati dall’amore profondo per quel compagno di scuola, diventato presto suo marito, intellettuale della sinistra cristiana, Franco Rodano. Una laurea, che oggi le viene attribuita non perché banalmente ha fatto della sua vita un’ininterrotta comunicazione politica pur alta, imparando e improvvisando linguaggi diversi, nei comizi, nei media, nelle istituzioni, all’Onu, al parlamento europeo, nelle manifestazioni per la casa, per i servizi essenziali nelle borgate romane, ma perché è stata un modello. Solo l’Università, riteniamo, poteva rivendicare questo diritto, poiché almeno nei suoi intenti cerca di essere non solo un distributore di crediti e un verificatore di nozioni, ma un diffusore di modelli positivi. In lei ritroviamo il coraggio delle scelte, la coerenza, il mantenere gl’impegni anche quando la gravidanza le ricorda che i figli scelgono di venire al mondo nei momenti meno adatti, per esempio quando ci si è iscritti per un intervento alla Camera o si deve votare. Ma anche un modello di equilibrio fra vita privata e vita pubblica, fra emancipazionismo, come si diceva prima dell’irrompere sulla scena mondiale e italiana del femminismo, e liberazione, fra fede profonda e dolore per le durezze delle gerarchie vaticane, come per la scomunica a carico dei comunisti nel 1949, ancora forse più incomprensibile per lei, che era entrata in relazione con la Chiesa senza mediazioni politiche né esperienze di Azione Cattolica.
Marisa Cinciari e Franco Rodano si sposano nel febbraio del ‘44, e la foto che la ritrae ha ormai seppellito la giovane benestante borghese, figlia di un soldato, poi Podestà e imprenditore, e di un’elegante crocerossina mantovana inurbata per amore. Lei stessa ricorda che la madre cercava di rimediare a quell’aspetto dimesso di una giovane sposa, che rifiutava la ricchezza per motivi di coerenza e accettava il prezzo della scelta.
A 27 anni, Marisa Cinciari Rodano ha già per così dire, bruciato le tappe e rappresenta un modello di giovane donna, oggi per alcuni versi, nonostante l’emancipazione, impensabile, in quanto ad autosufficienza e prolificità: è giovane parlamentare, aveva provato il carcere, era già madre di tre figli, e le scelte erano state una diretta conseguenza della sua scala valoriale; derivavano, prima che da una scelta partitica, da una sensibilità personale molto accentuata che la portava a rifiutare le ingiustizie verso i più deboli, i soprusi ingiustificati, l’arroganza di coloro che erano socialmente ed economicamente più forti, a danno dei diseredati e dei senza-diritti.
Negli scritti e nei fatti concreti della sua vita, a dispetto del costante understatement che caratterizza Marisa Cinciari Rodano, emerge il tessuto del paese visto da una donna la quale certo non gloria se stessa; anzi, minimizza la fatica degli impegni politici, i comizi in località impervie, il logorio di un ruolo istituzionale quale quello di Vice Presidente della Camera, senza i privilegi che da tempo circondano deputati, senatori, ministri nonché il sottobosco, il desiderio di tornare agli affetti e impegni domestici sempre il più presto possibile da qualunque parte d’Italia, il tormento della spola fra la disciplina di partito e le sirene della dissidenza esterna. Un tono low profile, evidente con la descrizione dei vestiti da ragazza adattati alle gravidanze, con il disagio nell’avere da vice presidente della Camera, un autista e macchina di servizio, più segretaria e ufficio. “Era allora la vita del parlamentare assai più spartana e meno appetibile, quanto meno per chi stava all’opposizione, di quanto non lo sia oggi: il compenso era piuttosto modesto, e per il 50% doveva essere versato al partito; al rimborso spese si aveva diritto solo per i giorni di presenza effettiva alle sedute, certificati dalla firma sull’apposito registro; disponevano di biglietti di viaggio gratuiti per i familiari che anch’essi venivano in gran parte incamerati dal partito. Non si aveva l’uso del telefono, di un ufficio, meno che mai diritto a un assistente”. Una modestia di fondo che non voleva dire affatto arrendevolezza, anzi, la durezza e la fermezza erano requisiti necessari, ma una modestia che era priva della componente di arroganza e del pretendere la ragione urlando o aggredendo. Ammette nelle sue memorie anche un certo masochismo nel rifiutare le collocazioni di prestigio che il gruppo comunista le offriva dopo la Vice Presidenza della Camera: la Commissione Esteri, la Commissione di vigilanza sulla RAI. “Proseguii nella mia scelta masochista, scelsi la Commissione Pubblica Istruzione”.
Insomma tutto delle vicende personali andava possibilmente ridimensionato, perché la politica nazionale e di più quella internazionale, incalzavano sempre nella vita e nelle emozioni di Marisa Rodano, sempre più sola però nelle istituzioni, con una compagine femminile che dopo il ‘48 continua a diminuire, come annota: da 43 si era scesi nel 1953, a 34. Nel ’58, le elette alla Camera erano solo 22. Il coro femminile numeroso non era nelle istituzioni, era nell’associazione dell’Udi, con le lotte per la casa e il risanamento delle borgate della Capitale, è nelle solidali donne romane che ospitarono fino alla fine dell’anno scolastico i figli di braccianti poverissimi, vittime delle alluvioni del Polesine nel 1951 e ancora prima, insieme a famiglie di tutta Italia, i bambini sfollati del cassinate.
La vita politica non conosceva soste neanche a casa, frequentata a cena, dopo cena, nelle feste e nei momenti di svago da amici/amiche, colleghi/colleghe di partito, intellettuali, soprattutto nella casa romana di via Latina, ormai luogo simbolo e ancora oggi luogo di discussione e progettazione per una democrazia paritaria. Insomma, più che un tradizionale angelo del focolare, Marisa Rodano era un genius loci.
L’attività nell’Unione Donne Italiane, a partire dalla fondazione, il lavoro come Presidente ha certamente contribuito ad evitare il pericolo di non avere più il polso della realtà, il ben noto distacco della politica di cui si è parlato molto negli ultimissimi decenni. Credo che solo il tener presente entrambe le dimensioni pubbliche di Marisa Rodano, quella partitica, nella Sinistra Cristiana e nel PCI, poi, quella associazionistica possano restituire per intero la trama della sua vita, nel dritto e nel suo rovescio, e quindi la complessità dei momenti che ha vissuto l’ intero Paese, momenti che hanno costruito, nel pensiero di chi parla ora, una grande storia.
La stessa Marisa Rodano ricorda nel suo libro Memorie di una che c’era. Storia dell’Udi, che è stata spinta a tentare questa narrazione per il dispiacere che andasse dispersa la memoria di una parte importante della storia italiana e della sua vita. Ho infatti sentito l’Udi –cito- come una mia creatura, per aver contribuito a farla nascere e a farla crescere in anni difficili. L’Udi è stata per me anche una famiglia, una casa, un luogo di tante stimolanti relazioni con donne di tutte le condizioni sociali, compagne e amiche, nata nel fuoco della lotta di liberazione nazionale dall’occupazione nazista, in mezzo alle macerie di un’Italia devastata, con la Resistenza, cui hanno preso parte non solo operaie, braccianti, intellettuali e professioniste, ma anche contadine, mezzadre, casalinghe, studentesse, operando una saldatura tra donne di ceti sociali diversi, di differente livello culturale e orientamento ideologico. Si racconta, e forse è una leggenda, ma significativa, che quando Olga Prati, poi Presidente dell’Udi di Ravenna, raggiunse in montagna la brigata partigiana, del Partito d’Azione, il comandante avesse detto: “Meno male che sei arrivata, guarda come sono strappati i miei pantaloni” e che lei gli avesse risposto: “ecco ago e filo, rammenda, io sono venuta per combattere, non per riparare i vestiti”.
Nel dopogeurra, nell’Udi, la complessità di una strategia che concretizzasse l’emancipazione femminile, termine che per molti anni non fu neanche usato, acuiva i contrasti con i dirigenti del movimento democratico. “L’idea che un movimento di massa si battesse per emancipazione femminile appariva una stranezza, o peggio, una diversione rispetto agli obiettivi veri. I militanti della sinistra, con pochissime eccezioni, consideravano l’emancipazione femminile quasi una parolaccia. Una donna emancipata era, per non pochi tra loro, una donna poco seria. I cattolici non andavano oltre il termine promozione. Insomma, l’emancipazione sembrava sempre essere finalizzata a qualcos’altro. Definire poi cos’era l’autonomia dell’Udi rispetto ai partiti, comunista e socialista, era ancora più arduo.Essere militanti del Pci, partito regolato dal centralismo democratico e da una forte disciplina, oltretutto da noi introiettata, e a un tempo dirigenti dell’Udi: un’autentica schizofrenia. Le ragazze dei movimenti extraparlamentari divenute femministe avrebbero coniato anni dopo il termine di doppia militanza. Impegnate in un’estenuante battaglia per far prevalere l’autonomia del movimento delle donne e per cercare di svincolare l’associazione dalla tutela dei partiti, ci trovavamo strette in una contraddizione lacerante tra opposti interessi e opposti doveri. Era il classico tentativo di vuotare il mare con un setaccio.
Un sociale attraversato da Marisa Rodano e dall’Udi, anche in questi territori, non solo feriti dalla guerra, ma oltraggiati nella sua parte femminile. L’Udi s’impegnò sul problema delle violenze perpetrate dai goumiersmarocchini dell’esercito francese del generale Juin, nel maggio 1944. Nel Frusinate la battaglia era durata nove mesi e gravissime furono le responsabilità dei comandi francesi e alleati, perché alle truppe fu promessa, se sfondavano, licenza di saccheggio e di stupro. A quelle milizie sembrava del tutto ovvio che il territorio conquistato fosse territorio nemico e non facevano distinzione tra soldati tedeschi e civili italiani. Purtroppo non è solo un evento straordinario del passato, né prerogativa di truppe di colore; dopo mezzo secolo da quegli eventi, popolazioni europee come i serbi non si sono comportate in Bosnia in modo molto diverso dai marocchini del generale Juin. La motivazione di quella campagna dell’Udi era prevalentemente sociale, sollecitare le pratiche di pensione per le donne vittime di quella tragedia e pacifista, ricordare gli orrori della guerra mentre ci si batteva per la pace … tuttavia finì per sollevare il tema della violenza maschile contro le donne, argomento a quell’epoca apparentemente rimosso e tabù, e indirettamente un altro quesito: se lo stupro doveva essere considerato un reato contro la morale(come era nel codice allora vigente), o un delitto contro la persona, interrogativo che ha ritardato per anni in Italia l’approvazione della legge contro la violenza sessuale. Le pratiche di pensione giacevano in un disordine indescrivibile presso l’Intendenza di finanza di Frosinone, essendosi persi sia gli elenchi alfabetici che quelli per comune. Molte donne si erano mosse in ritardo a volte perché non sapevano di aver diritti al risarcimento, altre per vergogna. L’Udi aveva avanzato la richiesta di considerare la liquidazione un contributo straordinario e di pagare la pensione regolarmente.
Un territorio questo, che Marisa Rodano ha conosciuto anche attraverso gli scioperi a rovescio dei braccianti e disoccupati laziali dei Monti Lepini nel biennio ‘50-’51;lo sciopero a rovescio, ricordo per le generazioni più verdi, che era una forma di lotta, nata in ambiente contadino, poi propagandata anche nei centri urbani, che consisteva nel cominciare a costruire un’opera per poi chiedere il pagamento del lavoro effettuato, o meglio ottenere che l’opera fosse finanziata e appaltata. Un metodo che poi fu adottato anche nelle borgate romane per avere strade e acquedotti.
Ma è con le vicende personali, intrecciate con quelle sociali e politiche dell’Udi per un quarantennio che possiamo leggere la sua vita come una lezione di storia e di crescita di ognuno. Le discussioni, le manifestazioni, le battaglie andavano dalle rivendicazioni per la mutualità delle pensioni alle casalinghe, alla riforma del diritto di famiglia, delle norme penali sull’adulterio, reato solo se commesso dalle donne, alla libera vendita dei prodotti anticoncezionali, stante la legge fascista che proibiva la propaganda di contraccettivi, all’educazione sessuale. Anche se alcune leggi d’iniziativa popolare non furono mai discusse, tuttavia, con la conquista del divieto di licenziamento per matrimonio si era aperta la strada alla giusta causa nei licenziamenti individuali e con lotta delle casalinghe e la richiesta d’ingresso nel sistema previdenziale di cittadine in cosiddetta condizione non professionale, l’Udi avrebbe contribuito a far maturare la prospettiva per il passaggio da un regime mutualistico a un sistema di sicurezza sociale. Intanto l’Udi ribadiva ostinatamente che era la lotta di emancipazione e non il socialismo il fine e la ragion d’essere dell’Udi, quindi un ribadire l’autonomia come soggetto politico; una fuga in avanti, sollecitata anche dal movimento studentesco, convinto che la fantasia dovesse andare al potere, e dal femminismo, con la sua pratica del partire da sé. Un decennio 1968/78 definito dalla Rodano, i favolosi anni settanta, caratterizzato dalla priorità della dimensione collettiva, dalla messa in discussione dei confini fra pubblico e privato, da un’esplosione della comunicazione e da un’eccezionale spinta partecipativa dei più diversi strati della cittadinanza, alla quale le forze politiche, il governo e anche l’opposizione cercano di rispondere sia pure talora allo scopo di controllarne la pressione innovativa, con l’offerta di sbocchi istituzionali. Per la prima volta nel ‘70 si votano i consigli regionali, presso le regioni sorgono consulte unitarie delle associazioni femminili. Genitori e insegnanti eleggono gli organi collegiali nella scuola, s’introduce il decentramento nei comuni, circoscrizioni, municipi, consigli di quartiere. Nel ‘68 la Corte Costituzionale dichiara incostituzionale la norma del codice civile per il quale solo l’adulterio della moglie costituiva motivo di separazione legale; nel ’69, gli articoli del codice penale che definivano reati l’adulterio e il concubinaggio. Si adotta nel 1970, ben 25 anni dopo l’entrata in vigore della Costituzione, la legge sul referendum che consente la pratica della democrazia diretta. Nel ‘70, per sollecitare l’approvazione della legge sugli asili nido, quella che sarà poi la legge n. 1044, con il concorso dello Stato, si svolse a Roma una sfilata immensa di mamme con tanti bambini in carrozzina, compreso, ricorda Marisa Rodano, il primo dei miei nipoti. Nel ’74, l’Udi s’impegnò nella campagna referendaria sul divorzio. I dirigenti politici uomini erano molto pessimisti sull’esito della consultazione. Pensavano che le donne sposate non più giovanissime, avrebbero avuto paura di essere abbandonate dai mariti liberi di trovarsi compagne più giovani e avrebbero votato per abrogare la legge. Nelle vicende della legge 194, sulla depenalizzazione dell’aborto, l’Udi svolse un ruolo decisivo, collocandosi in posizione equilibrata fra la paralizzante contrapposizione fra una semplice liberalizzazione voluta dall’Mld, e la casistica puntigliosa dei diversi gruppi politici. L’Udi era per la lotta all’aborto clandestino, la gratuità dell’intervento praticato nelle strutture sanitarie pubbliche e un sostanziale diritto delle donne all’autodeterminazione. Il successivo ventennio è segnato da una rivoluzione geopolitica: il crollo del muro di Berlino, il dissolversi dell’Unione Sovietica, la guerra nel Balcani, i conflitti etnici, religiosi, nazionali in Medio Oriente, in Asia, Africa, e l’intervento armato in Irak; le donne continuano invece a tessere una tela pacifica, pur se rivendicativa, con il ciclo delle conferenze internazionali aperte dall’Onu nel 1975, decennio della donna, Città del Messico, Copenaghen, Nairobi, fino alla IV Conferenza Mondiale sulle donne, Pechino 1995; Guardare al mondo con occhi di donna era la parola d’ordine del forum non governativo.
Nel primo decennio del 2000, l’Udi, dopo che nel 1982 aveva voltato pagina sciogliendo gi organismi dirigenti nazionali, optando per l’autoconvocazione, si trasforma ancora, diventa una signora più che sessantenne, che porta bene gli anni e non va in pensione così la definisce Marisa Rodano che proclama di non collocarsi né a destra né a sinistra, ma solo dalla parte delle donne.
E’ stato probabilmente mentre la sentivo parlare, a Roma nella sede della Provincia, al 90° della Fildis, nel maggio del 2012, quella stessa associazione con cui, tra le altre, preparò una manifestazione per il diritto di voto alle donne nel lontano 1945, raccontando in maniera disarmante che il giorno in cui doveva discutere la tesi, già incinta, fu arrestata, e del suo impegno, infaticabile dopo circa sessant’anni, per l’Accordo comune per una democrazia paritaria, rete di moltissime associazioni femminili, per un’equità della rappresentanza politica e per una democrazia sana, che ho deciso di proporre questa laurea Honoris Causa all’Università di Cassino e del Lazio Meridionale, segno piccolo, ma convinto, della riconoscenza per ciò che ha pensato, fatto e trasmesso. Grazie.