Cedere potere, o prestare attenzione? un confronto sul ruolo degli uomini nel cambiamento
Cosa succede se gli uomini iniziano a entrare nel discorso femminista, e si comincia a ragionare sulla loro inclusione dentro ai percorsi di cambiamento nelle relazioni tra i generi, nel privato come nello spazio pubblico? Risponde a questa domanda il nuovo numero di “Marea”
“Il modo più comune in cui la gente cede il proprio potere è pensando di non averne affatto”. Sono convinta che quando Alice Walker scrisse questa frase stava in realtà riflettendo non sulla gente in generale ma sulle donne in particolare.
Mi sono tornate in mente le parole di Walker in questi ultimi due anni, da quando cioè ho iniziato a girare l’Italia con Manutenzioni-Uomini a nudo, lo spettacolo tratto dal libro Uomini che odiano amano le donne –virilità, sesso, violenza: la parola ai maschi, uscito nel 2013 per le edizioni di Marea.
Il libro, e la piece, hanno avuto entrambi uno straordinario successo, considerato che la casa editrice non ha distribuzione e che, nonostante una rassegna stampa di tutto rispetto il media più importante, la tv, non ne hai mai parlato, e che sia il libro che la piece hanno girato grazie al passaparola e alla forza di moltiplicazione delle informazioni dei social network.
Ma il libro, e la piece, hanno ricevuto anche ostracismo, più da parte di donne che da uomini.
L’ultimo caso, in ordine di tempo: in una città della laica e colta Emilia Romagna sono state le donne di un’associazione nazionale mista a negare la collaborazione a chi stava organizzando la piece, motivando l’ostracismo affermando che ‘gli uomini non devono parlare di violenza contro le donne’.
Un gruppo femminista ha attaccato la piece sostenendo che dare parola ai maschi era oltraggioso verso le donne vittime, mentre, sempre in Emilia la critica al lavoro teatrale che vede in scena cittadini di ogni età e condizione sociale, mai attori professionisti, è stata da parte di un centro antiviolenza: se portata nelle scuole, è stato detto, poteva turbare i giovani. Curiosamente nel più prudente e cattolico Veneto la piece è stata messa in scena proprio per un intero polo scolastico, con la partecipazione di 400 studenti delle ultime classi di liceo.
La libreria delle donne di Milano non ha ordinato nemmeno una copia del libro, e alcuni luoghi storici del femminismo, dove negli anni passati ero stata invitata a presentare i miei precedenti libri non si sono fatti vivi per quest’ultimo, nel quale ho raccolto le 1800 risposte date da uomini italiani a sei domande sulla sessualità, sulla violenza, sulla virilità e sulla pornografia, lanciate dal blog che dal 2012 ho sul Fatto quotidiano.
Mi sono chiesta cosa ci sia dietro a questo ostracismo, non certo maggioritario ma comunque evidente da parte di alcuni pezzi del femminismo italiano al lavoro di una femminista che ha offerto uno spazio di ascolto e di comunicazione a uomini che prendono parola a partire da loro, dal corpo, dalle emozioni e dai sentimenti contrastanti in relazione alla sessualità. Il terreno principale dal quale il femminismo è da sempre partito per fare analisi politica e intervento sociale e culturale.
Appare surreale che donne femministe eterosessuali, che magari si occupano di violenza di genere, si mettano di traverso, ma il mio caso non è unico.
Il discorso di Emma Watson, testimonial della campagna Onu Heforshe, è stato attaccato da parte di alcune femministe, mentre in Italia stenta a partire un dibattito trasparente (e ce ne sarebbe bisogno, visto il piano nazionale contro la violenza proposto on line dal governo Renzi) sulla necessità e la fattibilità di centri per uomini maltrattanti, o luoghi dove iniziare percorsi specifici per uomini a rischio.
Un caso di violenza denunciato da una donna, che ha indicato come violento e maltrattatore uno dei fondatori del gruppo di riflessione sul maschile più noto in Italia, ha contribuito alla confusione più che aiutare un dibattito che già stenta a decollare, con la creazione di fazioni pro e contro e scambi aggressivi sui social, l’ennesima occasione mancata per aprire uno scambio laico e sincero sulla violenza di genere.
Sgombriamo il terreno da un fattore, comunque importante: l’apertura di luoghi, (o l’affiancamento in strutture già esistenti che si facciano carico dei maltrattanti) costerebbe denaro, drenandolo dai finanziamenti previste per i centri antiviolenza e quindi è legittimo che, già allo stremo, i centri gestiti dalle donne siano in allarme.
Ma il discorso qui non verte sull’emergenza e sulla gestione di situazioni conclamate, bensì sulle pratiche culturali e sociali che, da sempre, il movimento delle donne ha indicato come la vera condizione senza la quale, se la cultura e l’educazione non cambiano, occuparsi della violenza diventa solo riparazione del danno, un danno che si deve e si può evitare andando alla radice, lavorando alla base, sulla relazione sociale, emotiva, relazionale tra donne e uomini.
Se, in questi anni, il lavoro di base è stato doverosamente quello di dare alle donne parola per dire, denunciare, smascherare la violenza, non è venuto ora il momento di porre il conflitto con il mondo maschile, chiedendo agli uomini di venire allo scoperto, prendendo a loro volta parola?
Per fare questo è necessario mettersi in ascolto, perché questo prevede la relazione, anche nel conflitto.
Quando misi mano alle risposte che mi erano arrivate via mail da parte dei 300 uomini, dopo mesi di titubanza e di paura viste le reazioni aggressive e insultanti alla mia iniziativa nel sito del Fatto, mi resi conto che la differenza tra chi aveva risposto a me e quegli insulti era la decisione di mettersi in relazione.
In molte le amiche mi dissero che avrei dovuto ‘lavorare’ il materiale, non pubblicarlo senza intervenire su di esso. Ho al contrario, deciso che in questo caso era necessario che altri uomini commentassero le parole dei loro simili: io sentivo di dover essere testimone silenziosa, non giudicante, in ascolto.
Forse questa mia decisione è alla base delle reazioni di avversione al lavoro del libro e della piece: viene percepita come un arretrare, un cedere, un indietreggiare.
Ma da cosa? mi son chiesta. Ed ecco ripresentarsi la riflessione di Alice Walker: spesso si cede potere perché si pensa di non averne, e se è così anche dare parola all’avversario viene percepito come un gesto di fragilità, di resa, di perdita.
Potere è, dunque, ancora una volta una parola chiave.
Nel versante del dialogo/conflitto/confronto con il maschile per alcune donne (tra cui anche io) è chiaro non da ora che il tema della violenza di genere non può essere affrontato senza processi di inclusione di uomini disponibili a mettersi in discussione nello spazio pubblico così come nel privato.
Nel 2013 Eve Ensler ha ideato, con il regista Tony Stroebel, un potentissimo video di soli tre minuti, Man prayer, che ho scelto come apertura della piece: si tratta di uno straordinario inno alla forza del desiderio di cambiamento, che sfida una delle maledizioni più potenti, quella di Babele e dell’incomunicabilità. I quindici uomini e i due bambini che, in lingue diverse e chiaramente anche di culture e culti diversi auspicano di poter diventare esseri umani più inclusivi, attenti, rispettosi ed empatici verso il femminile del mondo sono la possibile risposta alle nostre paure.
L’occasione offertami dall’autore teatrale Ivano Malcotti a usare il materiale del libro, trasformando le risposte alle domande in una piece teatrale, diventata un inedito laboratorio virale in Italia è stata illuminante, anche per scoprire le resistenze di alcune femministe in questo processo da una parte, e la disponibilità, non scontata, di molti uomini di offrirsi senza garanzie di riuscita in un percorso nuovo.
Non molte ma significative scelte di rifiuto di questa pratica di relazione con gli uomini dicono, a mio parere della paura profonda di alcune donne (e di alcuni luoghi collettivi, di perdere potere, protagonismo, centralità.
Perché per quanto, in particolare sul tema della violenza, la voce femminista in questi anni sia stata e sia forte e chiara, si tratta pur sempre di una voce la cui base di partenza parte dalla sofferenza delle vittime, dal sangue, dal fallimento relazionale, dalle macerie rovinose di un patriarcato indebolito ma ancora molto radicato dentro di noi, uomini e donne.
L’affiancamento, quindi, alla voce dolente delle donne (quello dello spettacolo della Dandini, la proposta scenica delle scarpe rosse o del posto occupato) con l’offerta di presa di parola maschile di Manutenzioni, o l’invito della Watson e della campagna Heforshe è stato percepito da alcune come uno spostare l’asse della discussione, e quindi cedere luce, potere, visibilità sul femminile.
Io penso che invece quella forza femminile della quale molte parlano si manifesti proprio nel porre come urgente l’emersione delle parole, dei dubbi, dei disagi degli uomini che si trovano a fare i conti con la propria connivenza con la violenza, pur non essendo violenti, e che quindi in un processo collettivo di presa di coscienza diventano in prima persona, da soli e poi con altri, testimoni di una maschilità diversa da quella loro imposta.
A partire anche dal vestire i panni di altri, che nella piece accade quando i manutentori danno voce alle parole e ai pensieri di loro simili sconosciuti, alla banale e quotidiana violenza che dalle parole, o dal silenzio assenso verso il sessismo, rischia di tradursi poi in violenza agita.
Nel profilarsi, auspicato da molte, uno scenario nuovo nel quale anche gli uomini si manifestino agenti attivi contro la violenza maschile (perché la violenza sulle donne è un problema maschile), come rapportarsi alla loro presa di parola? Quali sono le paure, le obiezioni, i rischi, di questa interlocuzione, nello spazio pubblico come in quello privato?
Ho partecipato, in quasi due anni, a decine di incontri a partire dal libro e Manutenzioni è stato realizzato in 15 città, tutto documentato con video e audio al sito, per dare la possibilità di vedere lo spettacolo-laboratorio e farsi una idea.
L’esperienza mi ha rafforzata nella convinzione che fino a che solo le donne saranno le testimoni della violenza, e solo loro le parole e i corpi a parlare, gli uomini si sentiranno fuori dal coinvolgimento. Cose da donne: ammirabili, magari, ma dalle quali stare lontani, estranei, non toccati. E invece la violenza li riguarda, e abbiamo bisogno di parole e azioni di uomini che ci affianchino nello smantellamento della casa patriarcale. Empatia, non amicizia, chiedo agli uomini quando decidono di avvicinarsi al testo e si impegnano nella piece.
Provare a imparare ad ascoltare il disagio, l’afasia, la difficoltà di rompere la gabbia della virilità, capire che le parole non sono neutre, prendersi in giro e iniziare anche grazie alla dissacrazione delle certezze dell’identità, una strada diversa per essere più liberi come uomini: questo, anche, è il lavoro offerto da Manutenzioni-Uomini a nudo.
Come ogni pratica politica non deve piacere a tutte e a tutti, e le critiche sono vitali per ogni progetto politico di cambiamento.
Il punto è un altro: quanto potere siamo disposte a dimostrare, e a mettere a disposizione dell’altro verbo, quello dell’azione concreta che portiamo nella relazione, per realizzare l’azione del cambiamento? Quanto siamo disposte a investire, come movimento politico delle donne, affinchè l’educazione all’affettività e al rispetto, che deve coinvolgere sin dall’asilo maschi e femminile, sia una priorità, e come realizzare una formazione che veda donne e uomini insieme per un lavoro comune contro la violenza?
Prenota il nuovo numero di Marea scrivendo a monica.lanfranco@gmail.com
Lascia un commento