Chi muore a Gaza
L’esercito israeliano spara nel mucchio a Gaza e fa strage. Come sempre. Da decenni. Difende il proprio onore (la propria umanità?) dicendo che è una risposta al terrorismo palestinese. Come sempre. Da decenni.L’unico messaggio che colpisce al cuore di chiunque è, credo, il seguente: il bombardamento e la strage, se compiuti da un’esercito regolare che risponde a uno Stato, sono l’unica politica nella quale bisogna credere e alla quale bisogna affidarsi. Non c’è altra politica e la politica non è altro. La politica, più propriamente, non esiste se non nel bombardamento e nella strage.
Dopo di che, credere che l’antipolitica sia opera tutta italiana di qualche giornalista o di qualche comico alla ricerca della propria visibilità diventa ridicolo. L’antipolitica è questa morte seminata all’ingrosso tra inermi, tra creature in crescita, di per sé (religiosamente parlando) portatrici di speranza in un altro futuro. E lo Stato d’Israele, insieme all’amministrazione americana che lo imita in Iran e in Afghanistan, è un formidabile produttore di antipolitica per tutto il mondo. E per questa sola produzione spicca nel panorama internazionale, a dispetto dei cuori che spezza anche al proprio interno: l’opposizione, tante donne, e uomini, e artisti, poeti, musicisti…Pacifisti li chiamano, sarebbe meglio dire: produttrici e produttori d’Altro.
L’antipolitica è l’assenza di produzione reale per la vita. Ed è in grado di avvelenare un popolo. E anche l’altro. Anche il suo Antagonista.
Dicono alcuni psicologi delle masse, ripresi anche dai media israeliani in tutti questi decenni, che la dedizione di Israele alla guerra come unica cultura politica rilevante derivi dalla pena per i propri Padri i quali non avrebbero combattuto, a suo tempo, contro il proprio sterminio da parte dei nazisti. Come può una bugia essere tanto potente? Gli ebrei hanno combattuto il nazismo, eccome. Basta una breve ricerca tra i nomi delle grandi figure antifasciste per capirlo…Ma l’antipolitica cancella questa evidenza perché non può accettare il senso, tutto politico, di quella lotta. Combattuta non per avere il proprio esercito, le proprie armi di sterminio, una bandiera tutta propria e debitamente insanguinata come tutte le bandiere, ma per ridare futuro all’intera umanità, respiro alla ripresa di una produzione per la vita, leggi per una convivenza in pace, spazio per la nascita di bambini. Per la nascita, non per la morte. Dei bambini e della politica come arte per la vita.
Ogni volta che l’esercito israeliano si muove, muore anche un pezzetto di quella memoria. E di quella speranza.
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