“Chiamatela Venerdì”
“Chiamatela Venerdì” è l’imperativo di un nonno deluso e furioso per la mancata nascita di un nipote maschio, così alla piccola e è stata negato un nome parentale, affettivo o benedicente che la avrebbe immessa nella tradizione familiare.
Alla piccola Venerdì, del Kossovo la cui “infanzia è stata un inferno” s’intitolano i brevi racconti di violenza domestica, tratti da Guendalina Di Sabatino da una sua ricerca e riportate in una narrazione densa e significativa ma con delicatezza e scorrevolezza letteraria.
L’Autrice, laureata in Scienze politiche, già dirigente politica nel PCI di Teramo, presiede il Centro di cultura delle donne Hannah Arendt e s’impegna con la scrittrice Edith Bruck, sopravvissuta ad Auschwitz, sulla memoria della Shoah.
Pubblicazione d’esordio della casa editrice Smasher, la raccolta di testimonianze ha una prefazione di Stefano Ciccone, tra i fondatori di Maschile Plurale “…da molti anni impegnato, come uomo, in un lavoro di riflessione ma anche di iniziativa contro la violenza maschile sulle donne” (retrocopertina); postfazione e riflessione di Lea Melandri, attivista femminista, scrittrice e saggista, già direttora della rivista “L’erba voglio” (1971/78) e di “Lapis” (1987/97).
“Sono racconti e riflessioni come quelli raccolti da Guendalina Di Sabatino a restituirci ciò che nelle teorie e analisi sul sessismo ancora restano in ombra: le ambiguità, le contraddizioni di un dominio che ha intrecciato e confuso perversamente bisogno d’amore e asservimento, tenerezza e violenza.” (L. M. retrocopertina)
Tra i non detti, l’atavica complicità tra maschi recepita dalla maggioranza delle legislazioni, non trattandosi, la violenza domestica, della figlia di un tempo e di un Paese ma di un modello culturale atavico quanto ancora predominante che giustifica, minimizza e tramanda gesti, linguaggi e relazioni violente ai danni delle donne, delle/dei più fragil*, dell’infanzia, elettivamente nella sfera domestica, assegnata a un inviolabile “privato”. La mancata sanzione fra maschi comporta da sempre per l’aggressore un ampio consenso e sostegno sociale, salvezza o scarsità di pena, e fa ricadere la “colpa” d’istigazione o d’accettazione sulla vittima, caricata di una sanzione sociale che andava/va dal ridicolo, all’isolamento, alla perdita affettiva, alla malattia psico-fisica, al rischio anche di vita.
Le testimonianze raccolte di violenze ripetute, transgenerazionali, sono tutte fondate sull’illibertà femminile e su un’atavica omertà maschile che, diversamente da quella femminile, avrebbe avuto gli strumenti della referenzialità e dell’autorevolezza data dalla consuetudine e dalla legge, per fermare, isolare e punire uomini violenti spesso ai danni di loro parenti, figlie, sorelle.
“La vicenda umana delle donne che mi hanno consegnato le proprie testimonianze di quotidiana violenza domestica contenute in questo libro” sottolinea l’Autrice, “si intreccia al mio impegno politico femminista contro la violenza maschile. Sono donne con le quali negli anni ho costruito una relazione di fiducia basata sul solidale ascolto confidente reciproco (…) è terribile più delle altre la storia della madre di Venerdì, ridotta in schiavitù nel timoroso silenzio complice della famiglia del marito e della sua.” (p. 19)
“La vita continuò nell’inferno di sempre” dice la figlia di Aida, costretta ad ascoltare insulti e assistere alle botte ricevute dalla madre e dalla zia. “I miei nonni disprezzavano il comportamento di mio padre, ma tacevano: mai lo avrebbero denunciato o allontanato da noi, perché l’onore della famiglia non doveva essere intaccato da una separazione.” (p. 73)
Anche Liana, Dalila, Elvia s’affacciano a pagine di dolore assoluto; condanna impartita dal nascere tra pareti non protettive né accoglienti.
Non a caso, in copertina s’ammira “La casa capovolta” di Lea Contestabile, opera in lino, rete, tarlatana, stoffe, carte, fili, oggetti vari (2017). È sovente la quotidianità a fornire gli strumenti agli aguzzini (es. il bimbo legato al termosifone; la donna incinta presa per la treccia e rotolata sul tavolo da cucina) e le cosiddette “motivazioni” (es. le botte dal suocero se il cibo non era di suo gradimento o le mille incombenze nella casa di campagna non svolte secondo i suoi desideri).
Se gli argomenti sono duri, la narrazione scorre empatica e delicata anche quando l’esercizio violento d’autorità di un padre o di un marito o di un fidanzato diventa diritto di vita e di morte.
Il suo apice, il femminicidio (termine coniato dal femminismo), essendo un fenomeno legato al mancato riconoscimento della dignità e della libertà di una persona che biologicamente o per orientamento sessuale o transgenderismo, sia donna, si ripropone ovunque, sotto tutti i cieli.
“La violenza fondata sul genere è una verità dalla quale vorremmo, ma non possiamo, distogliere lo sguardo quasi assuefatto” scrive l’Autrice, “(…) L’Onu ci dice che nel mondo 7 donne su 10 subiscono violenza nel corso della vita. Nel nostro Paese ogni tre giorni viene uccisa una donna” (p. 24)
L’Italia afferma la dignità di qualsiasi persona ma la strada verso il pieno compimento del dettato costituzionale è ancora lunga, lo dimostral’agghiacciante storia di Gabriela nata Yuri (ovviamente tutti i nomi sono di fantasia), vittima dell’abuso paterno e delle botte dello zio, presso il quale viveva, quando costui si accorse della precoce inclinazione verso il femminile; la madre quasi sempre lontana per lavori stagionali fuori regione e tenuta all’oscuro da tutto (p. 105).
Con voci diverse ma univoche, il tragico coro delle vittime sottolinea quanto il ruolo tradizionale femminile di figura “seconda”, “accudente”, “salvifica”, che “perdona”, paradossalmente chiamata a “insegnare” al suo aggressore “a non essere violento” giochi da sempre a danno di chi lo interpreti sulle diverse scene, pubbliche e private.
La Relazione di Lea Melandri, La parentela insospettabile tra amore e violenza, “parte da radici profonde nella sua esperienza personale prima ancora che nel suo lungo percorso nel femminismo” (p. 119) e ripercorre, in stretto intreccio, l’ambiguità e la complessità del “sogno d’amore” di cui parlava Sibilla Aleramo, un “intreccio di amore e di potere”; storicizza le questioni di genere: “per millenni, il genere è stato considerato solo il sesso femminile, solo l’uomo era individuo, mentre le donne erano, come un tutto omogeneo, mogli di, madri di. La cancellazione più profonda che viene a consapevolezza negli anni Settanta è questa: le donne non sono state viste, pensate, per secoli come individui, come persone, ma come ruoli in funzione dell’altro” (p. 122). Pone la domanda sul perché, data l’esperienza femminista nell’aiuto e la nascita dei Centri antiviolenza negli anni Ottanta, il tema della violenza domestica arrivi solo alle soglie del 2000 sulla scena pubblica, con manifestazioni importanti, lei stessa iniziano a scriverne nel 2004 (p. 123).
Anche il suo contributo testimonia, con generosa ampiezza, un contesto di violenza domestica che le ha prodotto “ferite tanto profonde che non sono diventate neppure ricordi” (Postfazione, Passivamente obbedivo, p. 115) e la conclusione tratta è che “il rapporto tra i sessi sia oggi responsabilità di analisi e pratica politica per uomini e per donne. (…) I patriarchi non si sono mai retti in piedi da soli perché hanno costruito un sistema patriarcale di controllo sul corpo e sulle menti delle donne (…) non sono solo le pratiche e i simboli del sistema patriarcale che ci opprimono, ma la nostra assunzione di responsabilità rispetto alla qualità della vita dei nostri compagni e dei nostri figli; noi abbiamo un delirio di onnipotenza e loro hanno profonde debolezze coperte e nascoste da noi.” (p. 127)
Resta aperta la domanda su come e perché sia stato costruito il sistema di controllo sulle donne, tuttavia, dalle pagine del libro curato da Guendalina Di Sabatino, da ogni storia narrata si evince una positività; un sapere andare oltre, un uscire con percorsi di aiuto e di analisi dalla violenza, ritrovando quel sé che era stato annientato e ridotto a oggetto di desideri e necessità altrui.
Così anche Venerdì, nata in Kossovo nel giorno della Candelora, dopo “un’orribile infanzia”, riesce a liberarsi del “fidanzato violento” con un percorso psicoterapeutico e persino la guerra, rispetto alla sua esperienza, non le fa paura.
Info: Guendalina Di Sabatino (a cura di), Chiamatela Venerdì, storia di quotidiana violenza domestica, Edizioni Smasher, Barcellona Pozzo di Gotto (ME), 2021.