Ci avevano annunciato un’agenda pink
Lascio a qualcuna con le competenze economiche che io non ho il compito di analizzare quale sia l’impatto di genere dei provvedimenti previsti dall’agenda Monti. Qui vorrei sottolineare come tutto il documento sia sostanzialmente gender blind, pensato e scritto da qualcuno che non “vede” come gli effetti delle leggi, da quelle finanziarie a quelle sui diritti, hanno effetti diversi su uomini e donne.Non vorrei insistere troppo sul {{linguaggio}}: conosco la fatica dei continui tentativi di superare il “maschile inclusivo” che si pretende universale. Conosco lo stupore negli occhi di quasi tutti i compagni e purtroppo anche di molte compagne, di fronte alle richieste di cambiare documenti e volantini. Non posso chiedere a Monti e ai suoi quello che non riesco ad ottenere da chi mi sta più vicino. Nell’agenda dunque il termine “cittadini” comprende anche le cittadine, “lavoratori” include le lavoratrici, e, ovviamente, “giovani” viene usato con l’articolo maschile plurale…
A parte il paragrafo specifico a noi dedicato {{la parola “donne”}} compare solo nel paragrafo sul lavoro, nel solito stupido elenco: giovani-donne-lavoratori anziani come “categorie più colpite dalla crisi”.
{{Il paragrafo specifico}} contiene una serie di {{luoghi comuni }} frutto di un’impostazione dei problemi che {{delle donne non vede neppure il lavoro svolto per sostenere la vita materiale di tutti e tutte}}. L’insistenza su una presenza maggiore delle donne nel mercato del lavoro, da cui ci si aspetta un significativo aumento del Pil, significa anche non vedere i limiti del Pil come unico strumento di misurazione della ricchezza di un Paese. Come ormai sappiamo le donne italiane sono meno presenti sul mercato del lavoro (produttivo e retribuito) rispetto alle altre europee, ma in complesso lavorano più delle altre se si considera {{il lavoro domestico e/o di cura}}, che sta fuori dal mercato del lavoro e non è retribuito.{{ Il nostro problema non è quello di essere o no “dentro” il mercato del lavoro}}, ma che tutto il nostro lavoro, quello svolto per il mercato e quello svolto gratuitamente in famiglia e nelle relazioni, sia riconosciuto. Non sono le donne a doversi collocare nelle attività il cui calcolo contribuisce alla formazione del Pil, sono le categorie economiche che dovrebbero essere cambiate.
Anche {{la divisione in tre paragrafi diversi di donne, welfare e famiglia}} (dove si parla di welfare familiare) conferma l’ottica gender blind, l’incapacità di vedere i soggetti, uomini e donne, e le relazioni asimmetriche degli uni e delle altre nella famiglia e nel sistema di welfare.
I soggetti di cui si parla sono soprattutto {{soggetti collettivi, le imprese, le professioni, le categorie, se sono soggetti individuali sono tutti al maschile (ovviamente inclusivo)}}.
{{Centrali i “cittadini-consumatori”}} posti al centro delle scelte di politica economica e la cui qualità di vita e possibilità di scelta verranno migliorate da una economia più efficiente e innovativa grazie alla concorrenza. Che intere aree del consumo siano nelle mani e sulle spalle delle donne evidentemente non fa parte dell’analisi.
Ma è tutto il testo, fin dall’inizio, a rivelare un atteggiamento gender blind: fra i valori che costituirebbero il “denominatore comune delle forze europeiste”{{ manca l’antisessismo}}. Le discriminazioni contro cui si dovrebbe lottare sono l’effetto di atteggiamenti, che vanno condannati ancor prima che producano effetti. Manca anche, ed è altrettanto grave, {{l’antirazzismo}} (la xenofobia e l’antisemitismo non sono la stessa cosa).
{{Un’osservazione curiosa: il paragrafo “donne”, anche nella versione ufficiale, mantiene traccia delle “revisioni”}}: chi l’ha corretto, chi aveva scritto una o più precedenti versioni, e com’erano, non è dato saperlo. Probabilmente, dopo che mani maschili avevano scritto la maggior parte del documento, si è chiesto a mani femminili di intervenire “sul tema specifico” secondo una prassi molto diffusa.
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