Come ricostruire un “movimento di donne ” capace di mettere in discussione i rapporti forza fra generi e fra classi?
Se il femminismo si “accoda” acriticamente alla ripetizione di ritornelli o di slogans ormai svuotati del loro carattere conflittuale rischia di non essere più capace di leggere e comprendere la realtà e quindi di non essere più in grado di promuovere un coscienza critica e pratiche conflittuali.Avremmo voluto partecipare all’incontro di Paestum . Il tema dell’incontro “Primum vivere anche nella crisi: la rivoluzione necessaria. La sfida femminista nel cuore della politica” è ora più che mai attuale ed irrinunciabile per chi come noi considera il femminismo una categoria di pensiero ed un pratica politica.
Purtroppo motivi essenzialmente economici e/o professionali non ci permettono di esserci “fisicamente”, per questo scriviamo a tutte le amiche che parteciperanno le cose che avremmo voluto dire.
L’associazione IFE Italia (Iniziativa Femminista Europea), di cui facciamo parte, lavora da tempo sui temi dell’autodeterminazione (a partire da quella economica), della laicità e del potere in una dimensione europea (che giudichiamo ineludibile) grazie alla rete “ Feminists for another Europe”.
La crisi economica e sociale che sta investendo l’Occidente, e l’Italia in particolare, non può essere compresa appieno nella sua complessità se non si utilizza la lente del “genere” (che noi intendiamo come “elemento costitutivo dei rapporti sociali fondato sulle differenze percepibili fra donne e uomini e come primordiale modalità di significare i rapporti di potere” secondo la definizione che ne diede, nel 1980, la torica americana Joan Wallach Scott) insieme a quella di “classe”.
La categoria di “genere” viene di prassi sottovalutata, snobbata, dimenticata. Eppure senza di essa non si può comprendere la duplice valenza, contraddittoria, del “processo di femminilizzazione” del lavoro che ha determinato un aumento quantitativo di manodopera femminile consentendo, se possiamo dire così, il diffondersi di una migliore “coscienza di genere”, ed una positiva ricaduta sull’auto-percezione delle donne e nel contempo ha generalizzato le condizioni di lavoro storicamente prerogativa delle donne (part-time, flessibilità, precarietà, bassi salari) producendo ulteriore sfruttamento ed esclusione.
Il processo di femminilizzazione del lavoro è stato una delle caratteristiche strutturali del modello neo-liberista e ci fa piacere che venga esplicitamente riconosciuto nella lettera di invito all’incontro di Paestum. La crisi economica scombina le carte producendo una drastica riduzione dei posti di lavoro salariato (licenziamenti, ristrutturazioni, delocalizzazioni, chiusure di aziende) ed un aumento esponenziale del lavoro di riproduzione sociale determinato dal fatto che, dentro la crisi, i vincoli di Maastricht e la follia del pareggio di bilancio (che l’Europa chiede di mettere in Costituzione e l’Italia supinamente ha subito fatto) “costringe” gli Stati ad un draconiano taglio dei sistemi pubblici dei servizi alla persona.
Se proviamo a dare una parzialissima forse addirittura azzardata, lettura della crisi utilizzando la categoria di “genere” possiamo intravedere alcune possibili tendenze:
a) i licenziamenti femminili, in crescita esponenziale, tornano ad essere motivati dal fatto che una donna può comunque tenersi occupata grazie al lavoro domestico e di “riproduzione e cura” (sic!) . Addirittura , qualche mese fa, una fabbrica metalmeccanica del milanese aveva proprio usato questo argomento per tentare di licenziare alcune lavoratrice al posto dei loro colleghi maschi riproponendo una questione che è vecchia quanto il mondo e cioè la diseguale distribuzione fra generi dei lavori di riproduzione domestica.
Ci riferiamo cioè a tutti quei lavori necessari alla sopravvivenza ed al benessere della specie umana che in quanto necessari non sono surrogabili: il cibo cotto, la casa in ordine, i vestiti puliti. Eppure la “sostenibilità del vivere” (come efficacemente la definisce Antonella Picchio) che, in ogni parte del mondo, viene garantita quasi esclusivamente dal lavoro gratuito delle donne, diventa elemento di freno e di ostacolo all’ingresso delle donne nel mondo del lavoro retribuito o motivazione per il loro licenziamento;
b) con le due manovre finanziare del 2011 le risorse a disposizione del sistema delle autonomie locali, (comuni, province, regioni) tra il 2011 e il 2014 verranno tagliate per più di 40 miliardi di euro: 12 miliardi in meno ai comuni, 2,8 alle province, 27 alle regioni (sanità). A questi si aggiungono i tagli prodotti dalle nuove manovre del governo Monti, a cui va aggiunta la mannaia del patto di stabilità che mette in ginocchio tutti i Comuni.
Negli anni ’70 il nostro welfare oltre ad essere centralizzato aveva una condizione, che era basato soprattutto sulle forma di salario diretto, differito e sociale. A partire dagli anni ’90 è emerso un nuovo modello economico sempre più influenzato dai processi finanziari, cui ha fatto seguito una crisi nel mercato del lavoro e nell’welfare (come dimostrato da studi sociologici esiste infatti un nesso inscindibile tra i cambiamenti nei processi economici e i processi di organizzazione della società).
Si è così delineato il seguente quadro: oggi la disoccupazione giovanile è al 30% e chi non ha un lavoro rischia di essere collocato fuori dal processo di protezione sociale. Il sistema di precarietà e d’impoverimento è sempre più diffuso. Paghiamo le tasse non più per garantirci la pensione e i servizi sociali, ma per pagare il debito dello stato.
Cambia la base materiale per l’organizzazione delle politiche di welfare tanto da mettere in discussione l’idea stessa di welfare. Se la si osserva da questa visuale la proposta (condivisibile) della ministra Fornero di rendere obbligatorio anche per i padri un periodo di congedo parentale rischia di essere uno dei soliti specchietti per le allodole. Così come lo è stata la proposta di potenziare la rete dei servizi pubblici con l’aumento di contribuzione femminile, nel settore pubblico, dovuto all’innalzamento dell’età pensionabile.
Al contrario servirebbero forme di accompagnamento dal momento della perdita del posto di lavoro, all’accesso ad un nuovo impiego, con interventi di riqualificazione professionale e incentivi ad accedere al lavoro. Vi sono modelli già sperimentati in altri Paesi e che quindi si possono riprendere con gli adattamenti, i miglioramenti e le modifriche derivanti dall’esperienza già fatta e dall’altro delle condizioni della storia diversa del nostro Paese;
c) per le giovani generazioni di donne il lavoro è sostanzialmente precarietà. Il riflesso sul piano simbolico è che il lavoro ha smesso di saper/poter essere un “organizzatore di soggettività personale e collettiva” fondate sulla comunanza e sulla solidarietà per trasformarsi in luogo di competizione solitaria e insicurezza. Una simile trasformazione potrebbe agire sull’immaginario collettivo delle giovani donne per le quali, alla continua ricerca di lavori precari, sarebbe alla lunga preferibile il ritorno ai ruoli di sempre nella “dorata prigione” delle privato.
In questa situazione come IFE Italia esprimiamo il bisogno di ridare corpo ad un femminismo che non “accompagni ” i processi in atto ma li sovverta. Se il femminismo si “accoda” acriticamente alla ripetizione di ritornelli o di slogans (per quanto tempo ancora dovremo sentir parlare di “soffitto di cristallo” ? di “parità di mansione a parità di salario”? di “ineguale distribuzione fra generi del lavoro di cura” senza che nulla cambi?) ormai svuotati del loro carattere conflittuale rischia di non essere più capace di leggere e comprendere la realtà e quindi di non essere più in grado di promuovere un coscienza critica e pratiche conflittuali;
Ci servono categorie , paradigmi, pratiche rinnovate!
Alcune filosofe francesi (Genevieve Fraisse, Nicole Edith Thevenin per esempio) propongono interessanti riflessioni che provo a illustrare, sinteticamente, per punti.
Una politica femminista oggi dovrebbe:
a) saper tenere insieme il soggetto e l’oggetto, cioè in questo caso , smettere di parlare di “lavoro” in astratto per considerare le donne e gli uomini che lavorano, i loro diritti, le loro aspirazioni, le loro paure, i loro sentimenti? Nel seminario che come IFE Italia abbiamo tenuto qualche mese fa ci siamo chieste : cosa intendiamo per lavoro oggi?
Che senso ha il lavoro nella crisi globale? Com’è cambiato il senso del lavoro?
Desideriamo liberare il lavoro o liberarci dal lavoro? Come possiamo pensare il lavoro salariato in una prospettiva ecologica e di cura che si ponga l’obiettivo della trasformazione della società? In che modo i temi di genere possono scardinare la separazione tra il lavoro produttivo e il lavoro di riproduzione sociale ripensando al lavoro come “attività umana capace di produrre benessere sociale in una dimensione non alienata”?
Il lavoro può diventare “bene comune” o non può che restare confinato alle dinamiche del profitto e della produzione di merci di consumo?
b) risignificare il principio di “eguaglianza”. Oggi questo principio viene utilizzato, in modo strumentalmente “pacificato”, per “falsificare la concorrenza” fra i sessi. Questa risignificazione dovrebbe partire dall’idea che il principio di eguaglianza non è una norma ( le “pari opportunità” per intenderci) ma un vero e proprio processo cioè “un operatore di pensiero” e “un organizzatore di politica” , un processo da riempire di quel carattere conflittuale che gli ha consentito di animare le lotte delle donne in ogni parte del mondo. Da questo punto di vista ci piacerebbe poter affermare “differenti ma non diseguali” ;
c) riaffermare l’”universalismo” dei diritti senza abbandonare o dimenticare il nostro sesso. Un universalismo, quindi, capace di contenere le contraddizioni, materiali e simboliche, fra l’eguale ed il diverso, fra l’uno ed il multiplo.
Si ripropone però a questo punto una questione “antica” : quella del potere.
Una questione che stiamo affrontando, in un confronto vivace e a volte pungente, con le amiche europee con cui siamo in rete condividendo la necessità di darsi un orizzonte che sappia contenere le necessarie rotture rispetto a compatibilità che sembrano inevitabili e sono invece il frutto malato della riorganizzazione restauratrice di poteri antichi.
Questa consapevolezza, che è di genere e di classe, ci ha permesso di condividere l’idea che il potere, per come si presenta e si esercita, è usato per affermare sé stesse e se stessi, ma soprattutto se stessi, e garantire interessi parziali. Un potere siffatto non può che tramutarsi in prevaricazione, dominazione, esclusione.
Noi non rifiutiamo affatto il potere ma siamo convinte che debba esserne cambiato il paradigma.
Il potere per noi deve avere la dimensione ed il metodo della cura : cura di sé, delle e degli altri e del mondo. Questo è possibile nel momento in cui si cambiano le relazioni tra le persone e nella società per tendere all’autodeterminazione, alla partecipazione consapevole, alla capacità di educare ai sentimenti per educarci alla politica, alla volontà di affermare il nostro diritto ad organizzarci rifiutando nel contempo il “potere” dell’organizzazione.
Tutto ciò detto mette in evidenza un nodo di fondo: con quale soggettività, forme e con quali strumenti le femministe possono oggi sfidare la politica rimettendone in discussione i paradigmi ?
Come ricostruire cioè un “movimento di donne ” capace di mettere in discussione i rapporti forza fra generi e fra classi?
Può (vuole?) l’incontro di Paestum essere un inizio in questo senso.
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