Ricorre quest’anno che sta terminando il bicentenario della morte di Byron di cui è difficile scrivere qualcosa che non sia stato già scritto. Considerate poi le numerose biografie che lo riguardano, si corre il rischio di rinarrare l’eroe romantico, il poeta avventuroso dall’indiscussa fama di seduttore, il padre di tre figlie, paternità (pare) però attendibili solo per due bimbe, e le complicate relazioni con le diverse madri. George Gordon Byron si conferma artista talentuoso, dall’esistenza tumultuosa, amaramente amputata dalla morte, avvenuta a 36 anni, a causa di una meningite, morte forse simbolo di incompiutezza e testimonianza di infelicità. Ma se è caro al ciel colui che muore giovane, come recitava Menandro, la fama di Byron risulta ben meritata: è stato fra i maggiori rappresentanti della poesia inglese dell’Ottocento ed intellettuale di spicco nel Regno Unito durante il secondo Romanticismo. Ha viaggiato a lungo per l’Europa, in paesi diversi, legandosi in particolare all’Italia ed alla città di Ravenna, dove visse e si spese nelle molteplici vesti di politico, poeta e compagno della giovanissima contessina ravennate Teresa Gamba Guiccioli.

Da Letters and journals 1830

George Gordon Byron nacque nel 1788 a Londra, frutto dell’unione fra il capitano John Byron, soprannominato mad Jack, ovvero Jack il pazzo – che in vita contrasse infiniti debiti, pare tristemente saldati in Francia con una morte suicida – ed una giovanissima Catherine Gordon, donna umorale e collerica, che alternava aspre rampogne ad improvvise quanto imprevedibili tenerezze. Nella capitale inglese trascorse però poco tempo: passò l’infanzia per lo più ad Aberdeen, in terra di Scozia, in compagnia della madre, afflitto da una zoppia legata ad un problema di natura tendinea. A nulla valsero i tentativi, numerosi, di correggere quel difetto fisico, ovvero la contrazione del tendine di Achille che lo portava a zoppicare. Per quanto mascherata da una sorta di andatura originale, la zoppia causava a George un’enorme sofferenza psichica, facendolo sentire tremendamente diverso dagli altri. Pesarono inoltre le ristrettezze economiche della famiglia: solo la morte di un prozio permise il viraggio verso una esistenza agiata e rassicurante, evitando così al giovanissimo Byron una vita che probabilmente avrebbe potuto essere povera, forse anche piatta ed incolore. Il 1798 segna quindi una significativa svolta: eredita dal prozio beni consistenti, un titolo nobiliare e diventa così il sesto barone Byron di Rochdale ovvero un Lord. Potrà finalmente permettersi un’adeguata educazione ed abbandonare Londra per Newstead, entrando in possesso di vaste tenute. Nel 1801 inizia a frequentare la Harrow School nella quale si distingue per un insaziabile amore per la lettura, ma anche per una condotta intemperante e trasgressiva. Apparterranno agli anni successivi amicizie, amori e legami profondi sia con Mary Ann Chaworth, lontana cugina, sia con John Edleston. Quest’ultima relazione verrà segnalata addirittura come omofila, uno fra i motivi, tanti, che spingeranno in seguito Byron a lasciare l’Inghilterra ed a viaggiare a lungo e spesso in Europa.

Nel Settecento, ma anche nel secolo successivo, il turismo culturale per un letterato britannico rappresentava anche un vero e proprio tour di formazione, diventava l’humus dal quale trarre spunto per l’esercizio della scrittura: oltre a mostrare affezione per il diverso e il non usuale, il viaggio di per sé permetteva allo scrittore inglese di intrecciare relazioni con politici e uomini di cultura italiana del tempo. Con dovizia di particolari lo raccontano Baldini e Bolognesi (E.Baldini Dante Bolognesi Il richiamo di Ravenna La città e i suoi dintorni secondo i visitatori stranieri 1800-1960, Longo, Il Portico, 2015), offrendoci pagine ricche di vicende anche bizzarre, di passioni intense, di interessi molteplici e di rare curiosità.

Non solo il legame con Edleston, morto giovanissimo, divenne oggetto di profonda riprovazione da parte dell’opinione pubblica britannica: molte furono anche le critiche per la relazione con la sorellastra Augusta, conosciuta dal poeta solo in età adolescenziale, dalla quale pare abbia avuto nel 1814 una figlia, Medora, che assumerà il cognome Leigh, marito di Augusta. Il legame con Augusta si manterrà forte e profondo nel tempo, lo confermerà la lettera inviatale a marzo 1819 da Venezia.

Amor mio, ho trascurato di scriverti, ma che dirti?!Lo stare lontani per tre anni, un cambiamento totale di luoghi ed abitudini, ci ha portato a non condividere nulla, tranne affetti e legami. Non ho mai smesso né potrà accadere di provare altro che un legame, profondo, che unisce e unirà entrambi togliendomi così la possibilità di provare un amore vero per qualsivoglia altro essere umano.

Meno di tre mesi più tardi, a giugno 1819, travolto dalla passione per la contessina Gamba, Byron deciderà di abbandonare Venezia per Ravenna: sarà il triennio 1816-1819 a segnare un solco profondo nel viraggio esistenziale che seguirà alsoggiorno italiano. Il 1816 sancisce la separazione dalla prima (ed unica) moglie, lady Milbanke, dalla quale aveva avuto la figlioletta Ada. Scarsissimi o addirittura nulli saranno nel futuro, per espressa volontà di Lady Milbanke, i rapporti con la bimba. Lady Milbanke – che in un primo tempo respinse le profferte amorose del poeta – proveniva da una famiglia aristocratica, era dotta e religiosa, portata per la matematica, tanto da venir scherzosamente soprannominata dal marito principessa dei parallelogrammi. Fu lei a rompere definitivamente il legame con Byron quando, incinta, apprese del rapporto incestuoso che il marito intratteneva con la sorellastra Augusta (https://ilfoglietto.it/il-foglietto/6416-annabella-milbanke-ada-byron-e-anne-king-donne-straordinarie-nella-vita-di-lord-byron).

Nel 1817 nasce la seconda figlia di Byron, Allegra, una bimbetta che ebbe vita breve ed una morte infelicissima a causa, pare, del tifo contratto mentre cresceva nell’educandato delle Suore Cappuccine di Bagnacavallo dove il padre la aveva allocata, contro il volere della madre Claire Clairmont. La giovanissima Claire, poco più che diciannovenne, era straziata per la lontananza dalla figlia e addolorata per l’insensibilità imposta da un patto/baratto crudele, espressamente voluto da Byron. Claire avrebbe dovuto rinunciare a qualunque contatto con la piccola Allegra e Byron si sarebbe assunto l’impegno di provvedere all’educazione della figlia, che doveva crescere come una vera Byron. Claire in quel periodo non disponeva di mezzi di sostentamento sufficienti per sé e per Allegra: irretita dal fascino che aleggiava intorno al poeta e al tempo stesso non volendo rinunciare alla vita con la figlioletta, lottò per quanto le fu possibile per trovare un accordo meno disumano. Bene lo racconta Manuela Mazza (Claire Clairmont Epistolario A cura di Manuela Mazza, Ed. Solfanelli, Chieti, 2014) nel suo toccante testo. Claire provò più volte, e disperatamente, a convincere Byron a mutare avviso ma fu costretta ad arrendersi. La piccola Allegra cresceva nel frattempo senza figure di riferimento autorevoli ed amorevoli, più o meno affidata alle cure di governanti, di domestici forse anche affettuosi, non mancandole la gentile attenzione della contessina Gamba, con la quale il padre ebbe una relazione profonda che durò fino alla morte del poeta avvenuta nel 1824. Sulla vita di Allegra si sono spese pagine molto belle (Iris Origo, Allegra la figlia di Byron, Skira, 2014) e forse rappresentano una delicatissima forma di risarcimento (postumo) per un tempo di vita amaramente amputato. La bimba crebbe comunque vivace e gioiosa, ma agli occhi del padre altro non era che un grazioso giocattolo, magari una piacevole creatura, certamente vezzosa, con tratti caratteriali e fattezze che richiamavano l’origine byroniana, ma che alludevano inesorabilmente all’ esistenza di una madre, peraltro drammaticamente lontana. Allegra era suo malgrado diventata l’oggetto della contesa fra due genitori, il territorio dove la rabbia e l’intransigenza di entrambi si erano guadagnati un ingiusto spazio.

Se Claire non si rassegnava ai continui rifiuti, continuando a mostrarsi comunque invaghita, Byron rifiutava il frutto del legame, con un puntiglio sprezzante e tenace. Tutto sommato si comportava come se volesse cancellare con l’allontanamento di Allegra l’esistenza della fugace relazione avuta con Claire e dunque una forma di responsabilità afferente alla propria paternità. Un faticoso e paradossale compromesso venne conquistato non solo ponendo fine alle istanze amorose di Claire e alla sua volontà di costruire comunque una famiglia che includesse la bimba, ma barattando l’esclusione della vita della bimba da quella di entrambi i genitori con l’affidamento della piccola alle Suore Cappuccine di Bagnacavallo. Luogo nel quale né padre né madre si recarono a fare visita ad Allegra: solo l’amico comune Shelley, che si era in qualche modo affezionato a questa creatura, si recò qualche volta ad incontrarla. Manuela Mazza, nel suo delicatissimo Epistolario, ha saputo ricreare quell’atmosfera particolare fra Claire e George, ci ha trasmesso i momenti del corteggiamento, le lusinghe che adottava la donna per frequentare Byron, le velleità della stessa, un sottaciuto sgomento generato dai continui rifiuti che le opponeva Byron e, soprattutto, il tormento interiore per non poter provvedere con propri mezzi alle necessità della sua bimba. Un testo che permette, attraverso un plot narrativo strutturato nella felice formula dell’epistolario, di intuire in profondità quanto Byron fosse ben lungi dall’ assumersi una benché minima responsività a livello genitoriale e quanto intima ed intensa fosse la sofferenza sulla quale s’ avviterà la vita di Claire. Il suo epitaffio concentra dolore e senso di colpa che per volontà della defunta doveva suonare monito e rimprovero, scolpito sulla tomba nel Cimitero della Misericordia di S.Maria in Antella, a pochi chilometri da Firenze .

She passed her life in sufferings, expiating not only her faults, but also her virtues.

Il poeta inglese George Byron giunge a Ravenna, una città addobbata a festa per la ricorrenza del Corpus Domini, il 10 giugno 1819.Un arrivo che non passa inosservato perché la carrozza, che Byron si era fatto costruire, sul modello napoleonico, conteneva un lettino, una libreria, un forziere ed un servizio da tavola. Su invito del Conte Guiccioli, il marito di Teresa, conosciuta ad aprile a Venezia, e dietro il pagamento di un congruo affitto, il poeta britannico si insedia al primo piano di Palazzo Guiccioli, in compagnia di una nutrita schiera di animali oltre, ovviamente, a numerosi domestici. Dieci cavalli, otto enormi cani, tre scimmie, cinque gatti, un’aquila, un corvo ed un falco, che, come notò l’amico e poeta Shelley, in visita due anni dopo, si muovevano indisturbati per casa, protagonisti di reciproci alterchi, cui pare assistessero anche cinque pavoni, due galline faraone ed una gru egiziana che per lo più stazionavano sulla scalinata del palazzo. Se l’amico Shelley non riuscì a nascondere il proprio stupore, i ravennati stessi rimasero sconcertati apprendendo in modo casuale dell’esistenza di cotante presenze: risultò ulteriormente amplificata la fama che circondava un letterato tanto bizzarro quanto colto ed originale. Difficile stabilire il ruolo vero assunto dal πρόσωπον, termine che in ambito teatrale mantiene nel greco classico l’accezione di faccia o maschera, attuando così il nascondimento della persona: con molta probabilità Byron nutriva il suo personaggio proprio dei demoni che lo tormentavano, dell’inquietudine che gli causava il vivere, soprattutto dell’irrequietezza, non priva di un’autoimposta solitudine, che esercitava su molte donne del tempo potente fascino e forte attrattiva. In qualche modo la fama del personaggio veniva alimentata dal tormento stesso della persona e gli attirava numerose critiche: non mancando dunque l’inevitabile gossip il poeta inglese era al centrodella scena di un paesotto quale possiamo immaginare Ravenna agli inizi Ottocento. Dal canto suo Byron, talvolta infastidito dai pettegolezzi locali, ricambiava con negligente fastidio le provocazioni malevole, contribuendo ad enfatizzare ulteriormente la fama di personaggio originale. Ai commenti non benevoli ed al neanche tanto celato sconcerto dei ravennati Byron restituiva una sobria quanto calcolata indifferenza, atteggiamento che se da una parte rintuzzava chiacchiere e pettegolezzi, dall’altra contribuiva a far crescere giorno per giorno quell’alone di fascino e mistero che circondava il poeta inglese. Una bizzarra trasgressione non si sposava allora facilmente con quel senso di stabilità ed obbedienza dettato dalla tradizione locale, ma ogni regola, tradizione inclusa, per quanto tutelata e tutelante, esigeva, quasi in una sorta di controcanto, la dovuta eccezione. Scriveva infatti Byron a Richard Belgrave Hoppner, nel gennaio 1820, pochi mesi dopo il suo arrivo a Ravenna.

Mi sto allenando molto duramente per imparare a piegare uno scialle (…) qualche volta mi confondo (…) e metto tutti i cavalier serventi in agitazione (…) si tratta di un luogo terribilmente moralista (Ravenna), infatti non si può badare alla mogli di chiunque (…) e se si passa alla porta successiva si è biasimati e considerati infidi (…) La relazione dell’amante ha tali e tante regole (…) perché dall’amante le donne locali esigono fedeltà come un debito di onore. Soprattutto dichiarava apertis verbis quanto poco sopportasse sia le costumanze locali sia il conflitto che sovente gli accadeva di avere con l’autorità esercitata dal potere politico ravennate.

Oltre alle vessazioni di cui ti parlavo (…) sono incorso in una lite con i carabinieri del papa o meglio con la sua gens d’armerie, che hanno fatto una petizione al cardinale perché le livree dei miei servi assomigliano troppo alle loro maledette uniformi. Fanno obiezione particolare alle spalline, che da noi tutti sfoggiano nelle occasioni di gala. Le mie livree sono di colore conforme al mio stemma, lo stesso che distingue la famiglia dal 1066. Come puoi ben immaginare ho mandato una risposta tagliente: ho fatto capire che se un soldato di quel rispettabile corpo insulta i miei servi mi comporterò allo stesso modo con i loro comandanti. Ho dato ordine alla mia marmaglia, sei di numero e passabilmente agguerriti, di difendersi in caso di aggressione: nei giorni di vacanza e gran festa armerò l’intera squadra me compreso. (…) Tutte queste faide comunque fra il cavalier per via di sua moglie e le truppe per le mie livree sono molto noiose per un uomo tranquillo che fa del suo meglio per compiacere il mondo intero e non desidera altro che amicizia e benevolenza.

Va premesso che Ravenna, pur oggetto delle visite di scrittori e poeti inglesi, non rappresentava nell’Ottocento affatto una meta usuale, perché era anche difficilmente raggiungibile. Enclave ostica o luogo di suggestioni, rimaneva comunque discosta rispetto a mete più tradizionali e famose quali Venezia, Roma, Napoli e Firenze. Scelta nel lontano V^ secolo d.c. come capitale dell’Impero romano d’Occidente, confermerà nel tempo quanto una posizione isolata e circondata da paludi, molto difficilmente espugnabile, possa essere in grado di offrire sicurezza. Cionondimeno il soggiorno byroniano vivacizza questo luogo, si creano amicizie, legami e, soprattutto, nasce una partecipazione attiva alla vita politica del tempo: il poeta diventa un carbonaro americano mettendo a disposizione la propria dimora come deposito delle armi per i carbonari ravennati. Fin dall’inizio del suo soggiorno la relazione con la contessina Gamba darà stabilità al suo essere ondivago: dopo un impatto alquanto disorientante Byron finirà per conquistarsi una sorta di benevolenza della gente del luogo, una popolazione da lui definita stranamente schietta, eccessiva quanto pugnace. Per Byron i romagnoli erano addirittura i migliori mercenari si potesse trovare e non lo stupivano neanche gli omicidi fra i locali, uccisioni usualmente quotidiane, perpetrate alcune per passione amorosa, altre per interessi legati a proprietà.

Originale e generoso, intemperante ed insofferente di ogni forma di autorità, ma pervaso da sentimenti profondi di libertà e giustizia per i più deboli, Byron confermava appieno, con azioni e comportamenti, quel tratto di originalità che le sue biografie ci hanno da sempre tramandato. L’amore per la scrittura di cui si nutre tenacemente non lo abbandonerà mai: nel silenzio della notte nascevano le sue immagini narrative e dal ricordo di Dante Alighieri e di Giovanni Boccaccio coglieva recondite suggestioni. Amante della natura e della pineta, dove cavalcava spesso, anche in compagnia della contessina Guiccioli, frequentava al contempo con assiduità i salotti locali, dove veniva corteggiato, omaggiato, anche vezzeggiato per i suoi abiti eleganti e preziosi, lui rappresentante vero del dandismo. In una delle lettere scritte ad Augusta Leigh, nel luglio del 1819, ammetteva tutto sommato di aver trovato una sorta di pacificazione, di sentire che qualcosa lo placava e dunque in qualche modo riscuoteva il suo interessamento. In buona sostanza pare davvero vivesse quel tempo di vita con un senso di coinvolgimento più intenso, mancato ai giorni del suo passato.

Ho i miei cavalli, e si fanno splendide galoppate nella foresta, e poi ho anche la mia carrozza, e il mare, e i miei libri, e questa signora; così il tempo passa. Mi piace molto cavalcare, mi è sempre piaciuto fuori dall’Inghilterra: odio i vostri Hyde Park, e le piste, ho bisogno di boschi, pianure o deserti in cui spaziare, mentre detesto conoscere in anticipo la strada da percorrere o venire interrotto dalle vostre dannate indicazioni stradali, o da un villano che strepita pretendendo due pence a un incrocio o davanti ad uno steccato.

Anche il ruolo di cicisbeo, usanza amorosa del tempo, tutto sommato lo incuriosisce: pur avvalorando il suo mondo e le origini inglesi come le migliori, non riesce a non farsi meticciare dai costumi locali. Non manifesta imbarazzo, tanto meno appalesa un ostile rifiuto, piuttosto si barcamena dentro una benevola e quasi accondiscendente curiosità. Pur biasimando l’inconsistenza della figura del cicisbeo, vi si conforma, almeno in apparenza: in questo modo mima una forma di adattamento che gli permette di ingraziarsi il favore delle dame e di non inimicarsi troppo i rivali in amore. Il cicisbeo infatti altro non era che una sorta di cavalier servente, totalmente dedito alla dama con la quale aveva intrecciato la relazione amorosa, col tacito consenso del marito (della dama stessa). Non si trattava quindi di un banale damerino, meramente premuroso: era un paggio gentile, dalle costanti attenzioni, una figura molto significativa nel triangolo amoroso che vigeva al tempo. L’unica condizione posta era che non venisse stravolta la sostanza di tale forma di triangolo amoroso: non doveva insinuarsi fra la dama ed il cavalier servente un sentimento forte e vero, capace così di affondare l’insignificanza del precedente legame matrimoniale. All’inizio Byron vi si adeguò ma quando la passione per la contessina ravennate si trasformò in un più forte e coinvolgente sentimento, anche per evidenti affinità di interessi di entrambi, le carte vennero per così dire sparigliate. Teresa Guiccioli chiese la separazione dall’anziano marito e la separazione fu concessa a condizione che la contessina rientrasse nella casa paterna.

George Gordon Byron è stato un uomo tormentato, conteso e sfuggente, si portava intimamente una tempesta interiore e un’insoddisfazione foriera di inquietudine. Forse diventa facile supporre mascheri meglio di altri la persona dentro l’arcinoto personaggio perché la sua esistenza, pur breve, appare già di per sé un paradosso: lo dichiara lui in primis nel 1812 affermando di essersi svegliatogià celebre proprio il giorno successivo alla pubblicazione dei primi due canti di Childe Harold’s Pilgrimage. Il soggiorno di Byron in Ravenna è anche in grado di dirci molto dell’anima ravennate, che Byron interpreta a suo modo: la vive negli eccessi e nei respingimenti, se ne allontana davanti alle costrizioni, ne diventa partecipe promuovendo attenzione per le lotte politiche.

Nel carteggio con John Murray risponde in modo aperto ed enigmatico al tempo stesso alla sua richiesta di un libro sui costumi degli italiani: può darsi che io ne sappia più della maggior parte degli inglesi perché ho vissuto in mezzo a loro e in alcune zone del paese dove mai degli inglesi avevano vissuto prima. Parlo soprattutto della Romagna e in particolare di Ravenna ma per molte ragioni non me la sento di pubblicare qualcosa su questo argomento. Ho vissuto in casa loro, nell’intimità delle loro famiglie, a volte semplicemente come amico di casa, a volte come amico del cuore della dama, e in nessun caso mi sento autorizzato a scriverci sopra un libro. La loro morale non è la nostra, la loro vita non è la nostra, i modi di pensare, di vivere sono così radicalmente diversi che io non saprei proprio come illustrare un popolo che è insieme sobrio e scialacquatore, serio nell’indole ma buffone quando si diverte, capace di impressioni e di passioni improvvise ed insieme durevoli, cosa che non si trova in nessun altro paese e che per il momento non ha una società come si può vedere dalle loro commedie.

Eppure, come ebbe poi a sottolineare la stessa Yourcenar (…) non c’è altra città dove si risenta maggiormente dello iato tra interno e esterno, tra la vita pubblica e la segreta vita solitaria (https://altritaliani.net/un-libro-una-citta-ravenna-e-marguerite-Yourcenar/). La città di Ravenna diventerà, fra conflitti ed amori, comunque un luogo del cuore e della mente nella personalità di Byron, prima della morte avvenuta nell’aprile 1824 in Grecia. Forte la passione politica che lo porta ad aderire alla carboneria, favorita dall’amicizia con Ruggero, padre di Teresa e con Pietro Gamba, entrambi cospiratori. Byron entrò nella setta carbonara dei cacciatori americani, partecipando con la consueta generosità alle riunioni segrete. Alimentava così non solo la leggenda di amante appassionato, ma anche quella di uno spirito libertario, che oltre a sostenere le cause locali sacrificherà in nome e per conto della libertà gli immensi vantaggi della propria condizione, fortuna e genio .Non verrà mai meno durante il periodo ravennate neanche al legame stretto con la sorella naturale, soprannominata Gus, frutto della precedente unione del padre Jack, anime le loro rapitesi vicendevolmente, in qualche modo complementari l’una all’altra .Augusta fu, con Teresa Guiccioli, la donna che seppe meglio trasmettere la semplicità di un calore familiare di cui lo scrittore necessitava .

D’altro canto quella forma di instabilità ed irrequietezza, tratti salienti della personalità del poeta, lo portavano sempre altrove, lo spingevano alla ricerca di luoghi nuovi ed incontri non consueti, ma erano,anche, la molla più potente che lo portava a scrivere nella forma frequente della autorappresentazione. La città di Ravenna viene spesso associata alla vita del poeta, soprattutto in questo 2024 che segna il bicentenario della morte del nobile inglese, tanto che l’immagine ravennate nella quale si omologa facilmente Byron pare anche troppo scontata e sembra esaltare piuttosto la temperie di un tempo(troppo?) passato che pare quasi insistere nel volersi intrecciare col proprio passato prossimo.

Il miglior narratore di un luogo è sempre il viaggiatore che, a differenza del turista, riesce a ricambiare quella sorta di dialogo muto, ma eloquente al tempo stesso, che si instaura fra gli occhi che guardano e le cose quando sono viste.

Poche città in Italia offrono più oggetti di interesse per un antiquario, un filosofo, un poeta di quanto faccia Ravenna, ma la sua posizione geografica, che la colloca al di fuori delle vie più battute, fa che sia evitata dalla massa generale di stranieri che percorrono altre parti di questa bellissima terra. L’inglese più di qualsiasi altro popolo porta con sé l’abitudine del proprio paese: sembra che non viaggi tanto allo scopo di studiare i modi degli altri ma piuttosto per difendere e mostrare i propri.

Letterato, poeta, ma soprattutto uomo d’azione, attento a quello spirito di scontento ed insubordinazione – che covava sotto le ceneri e talvolta s’infiammava in improvvisi incendi – Byron partecipava alla lotta politica facendo proprio il senso di ribellione e il bisogno di giustizia di coloro che gli erano accanto. Il Byron letterato non si discosta dal Byron politico, si interfaccia con la vita che è lotta, combatte e partecipa da sodale.

Negli ultimi anni, in particolare nel periodo della visita di cui sto scrivendo, tutto il distretto e la Romagna in generale sono state la parte d’Italia più inquieta e ribelle. Libertà giustizia e fraternità (…) si esplicitano in una anomala quantità di crimini e di insicurezza per cui hanno molto attecchito.

Esiste poi ed in qualche modo Byron lo sottolinea un contrasto fra la città della vita e la città dei ricordi, dei monumenti del passato, tra la città che si percorre, in cui si vivono i pochi o molti giorni del viaggio e in cui gli abitanti vivono la loro esistenza umana, e la città nascosta, quella per la quale si è compiuto il viaggio, quella letteraria. Di questa antinomia sono piene le pagine di scrittori e poeti che hanno dedicato le loro opere a Ravenna. Impossibile non ricordare Gabriele D’Annunzio che scrisse ben due liriche su Ravenna, incastonandola nella memorabile serie delle città del silenzio. Il passato che abita Ravenna viene da lontano, da un mondo col quale non c’è più contatto (…) Ravenna sussurra l’intima essenza della solitudine di un mondo talmente desolato che solo il sole la nebbia e il vento sembrano essere di casa. Tutti i vantaggi della modernità non hanno comunque tolto gran parte di quella profonda poesia che toccò il cuore di Dante e di Byron, ma per Byron forse quei fantasmi non erano parte della malinconia del ricordo della città nascosta, erano parte della città viva. Davvero il poeta inglese rappresenta il nuovo atteggiamento di chi guarda il mondo da ed entro Ravenna. Trova in Dante forte consonanza, comunanza di sentire e di destini. Come Dante Byron aveva dovuto lasciare la patria anche se per lui, esacerbato dalle critiche per la sua condotta di vita, si era trattato di una scelta volontaria. Ma l’Italia continuerà a piacergli e Ravenna rimanere luogo del cuore.

Con tutti i suoi peccati devo dire/che l’Italia mi piace che mi piace/ vedere il sole splendere ogni giorno/ e le viti non piantate su un muro/ma abbarbicate ai tralicci fondi/d’opera dove la gente accorre/quando una danza chiude il primo atto/tra vigne rosseggianti come in Francia (Keats Shelley Byron I ragazzi che amavano il vento A cura di Roberto Mussapi, Feltrinelli, Milano, 1996).

N.d.R. Liberamente tradotto in “Passo’ la vita espiando non solo colpe ma anche virtù”. L’autrice rivolge un sentito ringraziamento alla casa Editrice Solfanelli per la cortesia e disponibilità dimostrata. Altrettanto sentito ringraziamento è rivolto al personale della Biblioteca Oriani di Ravenna per la gentilezza e premura nella messa a disposizione di testi molto rari durante la ricerca.