Considerare il lavoro, nelle sue dimensioni produttive e di riproduzione sociale, un bene comune
“Durante una trasmissione Rai molto seguita, l’attuale Presidente del
Consiglio (al cui governo, purtroppo, non credo esistano per il momento
alternative praticabili) tiene a precisare che considera la ricchezza un
valore fondato sul merito.Dunque , aggiungo io, chi è ricco merita e chi è povero, al contrario, non
merita nulla.
Però, aggiunge il Presidente, proprio per questa ragione chi è ricco
dovrebbe “filantropicamente” (dice proprio così!) donare un po’ della
propria ricchezza alla società, per “aiutare” chi ricca/o non è.
_ Alla faccia, aggiungo sempre io, dei diritti individuali e collettivi,
così faticosamente ottenuti.
Per un attimo ho pensato di essere tornata nella seconda metà del 1800, ma
poi constatato che non c’è il fermento sociale di allora (la Comune di
Parigi, la nascita di sindacati, partiti, società operaie e di mutuo
soccorso, i movimenti femminili….) sono ripiombata nella drammaticità
dell’oggi.
Sempre sul tema qualche sera fa un noto conduttore televisivo ha sostenuto
con leggiadria che il problema non è quanto si guadagna ma se si lavora
con responsabilità e senso del dovere.
_ Il punto di vista è a dir poco bizzarro perché mi si deve spiegare come
mai, a parità di responsabilità e senso del dovere c’è chi percepisce
salari intorno ai mille euro e chi guadagna centinaia di migliaia o
addirittura milioni di euro.
Riflettendoci sopra sono arrivata a due conclusioni.
La prima è che forse vedo troppa televisione. Mi converrà leggere di più ed
arrabbiarmi di meno.
La seconda è che dentro la crisi economica, fatta finalmente piazza
pulita di bunga bunga brianzoli e di celoduristi padani, vengono
riproposte, in termini antichi, differenze di classe e di genere che
sembravano, se non superate, quantomeno contenute da uno dei principi
fondativi della nostra carta costituzionale, quello di eguaglianza.
_ Per tutto ciò credo che prima di trovarci in un futuro che sa di passato
remoto dovremmo, senza indugio, immaginare un diverso modello di società.
Cioè dovremmo, paradossolmente, fare di questa crisi economica e sociale
un’occasione per ripensare e risignificare principi quali l’eguaglianza,
la laicità, l’autodeterminazione.
Considerare il lavoro, nelle sue dimensioni produttive e di riproduzione
sociale, un bene comune al quale garantire qualità e sicurezza; riconoscere
ambiente e natura come beni comuni in sé, non assogettabili ad alcun
profitto; promuovere relazioni sociali ed interpersonali fondati su una
solida comunanza ed empatia; pensare al vivente non umano in termini
rispettosi e non utilitaristici, sarebbe una bella base di partenza.
Mi piace, dunque, immaginare che le tante e i tanti di noi che ancora
ci credono sappiano divenire “partigiane/i dei beni comuni”, per
modificare gli attuali rapporti di potere e rompere le compatibilità
date.
_ In fondo lo dice anche uno spot pubblicitario : “Immagina. Puoi.”
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