Risulta, quindi, essenziale confliggere per acquisire un giusto riequilibrio dei ruoli fra i generi o rischiamo di essere tutti travolti dalla marea montante della speculazione globale che cancella esistenze e spazi democratici. E’ necessario riannodare connessioni e trovare modalità nuove che consentano solidarietà nuove, di classe e fra i sessi.Quando ho ricevuto da Nicoletta Pirrotta l’invito a partecipare a questo incontro, la data vicina del 25 aprile mi ha fatto pensare a un titolo che desse conto del {{tradimento della resistenza e della Costituzione}} (che ne rappresenta, come è stato detto, il programma politico) da parte di chi la definisce apertamente un ferro vecchio e anche di chi fa mostra di pubbliche devozioni, ma partecipa a semiprivate cancellazioni dei principi fondanti attraverso Commissioni varie (come la passata Bicamerale).

Penso all’{{articolo 1 della Costituzione}} che definisce l’Italia {una Repubblica democratica fondata sul “lavoro}” e a tutti gli articoli sui “{rapporti economici}” (principalmente {{da 35 a 41}}) che sono ampiamente contraddetti, a partire dal 1997 (entrata in vigore del cosiddetto [pacchetto Treu->http://digilander.libero.it/csg/web/Lavoro_treu.htm] sul lavoro).
_ Da allora la Repubblica italiana appare piuttosto fondata sul profitto di una minoranza a scapito del benessere di una maggioranza di cittadini.

Il dato emerge anche da avvenimenti recenti, in particolare dalla presentazione del piano A (con minaccia di piano B) da parte della {{FIAT}} per la cosiddetta “fabbrica Italia”.
_ Si richiede, stando alle notizie di stampa, maggiore flessibilità di tutta la forza lavoro per la saturazione degli impianti, contemporaneo contenimento del costo del lavoro, aumento dei turni notturni e di sabato, revisione (al ribasso) degli accordi sindacali, utilizzo degli ammortizzatori sociali, senza precisare quanti saranno gli esuberi, posto che gli investimenti sono previsti solo per gli stabilimenti di Mirafiori, Cassino, Pomigliano d’Arco, Pratola Serra, Melfi, Termoli.
_ Sulla complessiva situazione del gruppo manca qualsiasi certezza, ma è nota la chiusura dello stabilimento di Termini Imerese e la conseguente estromissione della mano d’opera occupata. Migliaia di esuberi sono prevedibili.

A Mirafiori, un operaio del montaggio commenta: “Cinesi, giapponesi, tedeschi, non è importante. Veniamo tutti spremuti. Non vuoi essere spremuto? E allora non ti faccio lavorare. Hai paura e alla fine ti adegui. Finirà così. I sindacati fanno un po’ di melina, ma poi firmano”. _ Daniele: “In un anno siamo passati dagli straordinari alla cassa integrazione (guadagni)” e Luisa: “Ho 31 anni. Arriverò alla pensione, forse, distrutta” (La Repubblica 20 aprile 2010).

{{Le dinamiche globali sottese a entrambi i piani della FIAT }} – intensificazione dello sfruttamento in alternativa alla delocalizzazione – mostrano un {{percorso che ridefinisce al peggio il modello sociale complessivo e mina le fondamenta della democrazia costituzionale}}.
Nell’epoca dell’{{orrore {economico}}} (titolo di un saggio di V. Forrester Ponte alle Grazie 1997) soggetti detti polifunzionali vivono esistenze etero dirette, volti a scopi non autodeterminati, preda dell’altrui dominio.

{{La precarietà esistenziale porta a scene di disperazione}}: occupazione dei luoghi di lavoro, dei tetti delle fabbriche, delle gru, delle aule municipali, delle stazioni ferroviarie o aeroporti, persino di isole come l’Asinara, tutto per dare visibilità a situazioni di lavoro negato e di mancanza dei mezzi di sussistenza, silenziati nella inconsapevolezza dell’opinione pubblica.

Lettere a quotidiani (Liberazione, 29 dicembre 2009) riferiscono ”Sono un lavoratore terminale”, licenziato dopo ben dieci anni di contratti a termine; sporadiche notizie di stampa danno conto persino di suicidi di alcuni fra i lavoratori terminali (casi Telecom).

{{L’analisi più diffusa del contesto sottolinea la mancanza di una valida resistenza collettiva organizzata dai sindacati,}} la loro attuale scarsa rilevanza nel porre un freno agli esiti più nefasti della crisi a carico dei lavoratori, la rappresentazione fugace in luogo di una rappresentanza efficace che sembra ormai svanita (Ilvo Diamanti, la Repubblica, 17 gennaio 2010).

{{Dati Eurostat evidenziano che la crisi colpisce più le donne che gli uomini}}, che un’italiana su due non lavora – con punte elevate oltre il 60% nel Meridione – {{al contrario degli USA ove tre disoccupati su quattro sono uomini}} e, nei prossimi mesi, oltre la metà della forza lavoro sarà composta da donne.

Contemporaneamente, {{settori della Confindustria considerano l’impiego femminile}}, soprattutto in industrie medio-grandi, come {{fattore salvifico}} e sembrano appoggiare incondizionatamente le scelte imprenditoriali di {{predisporre servizi di sostegno alle mansioni domestiche delle dipendenti}} (asili nido, lavanderie, catering), per utilizzare al meglio in azienda i loro apporti di sapere e la duttilità professionale .

Ciò procede in perfetta consonanza con molteplici casi in cui la scelta femminile è stata quella di coltivare contemporaneamente carriera e lavori di cura famigliare, usando il part time conciliativo, valorizzando nel rapporto di lavoro la conoscenza femminile degli aspetti relazionali e organizzativi in contesti differenziati.

{{Il “biocapitalismo”}}, nell’afferrare le vite di esseri umani considerati subalterni, manifesta interesse particolare per l’ampio spettro di vite femminili colonizzate dal lavoro non pagato. Vite precarizzate dal pensiero unico patriarcale/capitalista assai prima dell’avvento del precariato diffuso, esito perverso ma prevedibile del soggetto unico maschile.

Secondo me, {{la precarietà del lavoro e della vita di molte donne}} (oggi propagatasi agli uomini) trova le sue origini, tra l’altro, nelle {{ristrutturazioni capitaliste degli anni Ottanta}}: l’intreccio capitalismo-patriarcato fornisce una lente per analizzare l’esistente, se si tiene in considerazione il rapporto fra conflitto di classe e conflitto di sesso.
_ Qualche esempio su cui riflettere viene da alcuni casi che mi sono capitati nella pratica di avvocata lavorista, iniziata negli anni Settanta del secolo scorso. A mio parere, essi illustrano nella concretezza delle vite coinvolte, una deriva politica e sociale sulla quale è opportuno riflettere per immaginare un diverso futuro, renderlo pensabile e forse possibile.

La storia delle {{scelte imprenditoriali }} della grande industria degli ultimi decenni, le modalità delle azioni (più o meno) a contrasto messe in atto dalle organizzazioni dei lavoratori, sono per molti versi esempi illuminanti degli esiti che derivano dalla divisione sessuale del lavoro che {{vede riservata agli uomini la produzione di merci retribuita e alle donne la riproduzione sociale gratuita}}.

Nel corso del {{1987, la FIAT sospese in Cassa Integrazione Guadagni fissa a zero ore}} seimila dei sedicimila dipendenti dell’Alfa Romeo, stabilimento di Arese, che aveva acquisito dall’IRI per un prezzo simbolico nell’anno precedente.
_ Si formò un Comitato di cassintegrati che, con azioni sindacali e vertenze giudiziarie, tentarono di resistere al provvedimento, fortemente penalizzante sotto il profilo economico e professionale (venivano contemporaneamente prodotti nuovi modelli di auto). {{Poche lavoratrici cassintegrate fecero parte di quel Comitato}} e contrastarono la sospensione, {{ritenendo più conveniente percepire il salario decurtato e permanere in una situazione che facilitava il lavoro domestico di cura}}.

L’esito delle cause di impugnativa delle sospensioni fu generalmente favorevole ai lavoratori, poiché il Giudice del lavoro ritenne i provvedimenti della FIAT non sufficientemente motivati da difficoltà oggettive e reintegrò gli estromessi nel posto di lavoro. La FIAT pensò allora di utilizzare un escamotage che rendesse difficile la concreta attuazione dell’ordine di giustizia, trasferendo i reintegrati nel suo stabilimento di Desio (Autobianchi), più distante e con più intense turnazioni.

Fu necessaria una seconda causa per annullare il trasferimento non concordato, quindi illegittimo, secondo lo Statuto dei Lavoratori. Ebbene, {{delle poche lavoratrici riammesse al lavoro in seguito alla prima causa}}, quasi nessuna fece resistenza, {{quasi tutte concordarono con la dirigenza aziendale una nuova sospensione in CIG}}.
_ Molte dipendenti dell’Alfa di Arese {{passarono negli anni successivi di sospensione in sospensione}}, poi furono licenziate in mobilità.

Recentemente, nel corso di un convegno tenutosi a Firenze, sono stata avvicinata da alcune delle mie antiche clienti e ho saputo che, per l’esiguità della loro pensione, esse hanno dovuto abbandonare le loro residenze a Milano e Arese (dove il costo della vita non è per loro sostenibile) e hanno affittato alloggi collettivi nelle vicinanze di Prato, dove le spese per la sopravvivenza sono più contenute.

{{L’adesione al comando capitalistico, connesso a quello dell’ordine patriarcale }} (quest’ultimo introiettato) ha segnato in modo pesantemente negativo le loro esistenze perché le ha sradicate, in età anziana, dal loro contesto sociale e famigliare, le ha rese precarie in una situazione formalmente garantita.

Altro episodio, sempre alla {{FIAT}}. Nella primavera del 1989, nello stabilimento di {{Pomigliano d’Arco}}, la società, autorizzata da un accordo sindacale, aveva stipulato {{350 contratti di formazione-lavoro}} (tipo di contratto allora applicabile ai giovani fino a 29 anni di età, assumibili per scelta nominativa, mentre vigeva l’assunzione numerica per anzianità di iscrizione alle liste del collocamento pubblico) {{esclusivamente con uomini, escludendo le donne}} che pure rappresentavano il 60% circa dei disoccupati iscritti al collocamento.
_ La palese discriminazione aveva indotto circa {{trecento donne a costituire un coordinamento di disoccupate e a presentare congiuntamente trecento domande di assunzione}}. Non avendo ottenuto nulla, {{neppure un intervento sindacale a sostegno}}, circa cento di esse si erano organizzate autonomamente e, assistite da alcuni legali, avevano fatto ricorso al giudice chiedendo l’applicazione della legge di parità tra uomini e donne in materia di lavoro.
_ Il primo articolo della [legge (903/1977->http://www.uniroma2.it/cgil/ccnl/legge1977903.htm]) vietava infatti la discriminazione fondata sul sesso nell’accesso al lavoro. Il Giudice aveva accolto le richieste, annullati i contratti stipulati in violazione di legge e ordinato alla FIAT di convocare per colloqui pre assuntivi le lavoratrici ricorrenti, ingiustamente escluse.

{{La gestione sindacale della vittoria}} giudiziaria delle interessate è stata la seguente: i 350 contratti di formazione lavoro furono convertiti in contratti a termine: {{di essi 336 avevano titolari uomini e solo 14 titolari donne}}. Le donne del coordinamento, sostenute da alcune rappresentanti sindacali, dichiararono l’accordo inaccettabile poiché smentiva la pretesa e la mobilitazione delle donne, chiesero una rinegoziazione in termini più aderenti alla decisione di giustizia.
_ La maggior parte del movimento sindacale, al contrario, oppose l’argomento che {{la pretesa delle donne aveva scatenato una “guerra fra poveri”}} e che solo quell’accordo poteva evitare che, per ordine del giudice, 350 neoassunti venissero licenziati e dovessero pagare – incolpevoli – l’esito della politica discriminatoria della FIAT.

{{L’argomento era evidentemente pretestuoso}}, poiché non teneva conto dell’ingiustizia a monte che aveva originato l’assunzione – al di fuori di criteri oggettivi – di quei 350 operai, tuttavia veniva in parte recepito, determinando la {{spaccatura del coordinamento e la fine della pretesa femminile di partecipazione a quella realtà produttiva}} secondo uno schema di legalità e di giustizia.
_ Il caso aveva mostrato la {{mancanza di effettività per le donne di un ordine di diritti costruito sul soggetto lavoratore neutro/maschile}} e ciò malgrado si fossero date la forza di confliggere per affermare rivendicazioni proprie.

{{Episodi analoghi si svolsero agli inizi degli anni Novanta}} presso lo stabilimento FIAT di Melfi, ove fu ancora una volta discriminata la mano d’opera femminile.
_ Nelle parole di Lucia, giovane disoccupata di Potenza “Ho sperato fino all’ultimo di poter lavorare in Fiat, ma ho dovuto mollare. Quando le ragioni della produzione schiacciano la mia stessa vita, allora fuggo. E come me tante sono già fuggite e ancora fuggiranno. La FIAT comincia a diventare un sogno solo maschile”.

La fabbrica era governata dal sistema produttivo detto “just in time” o della “qualità totale”, un’organizzazione del lavoro a turni articolati su ventiquattro ore giornaliere e su sei giorni settimanali. Il sindacato aveva già concesso una deroga anticipata al divieto legale, allora vigente, di prestazione notturna delle donne, rendendo tale prestazione di fatto obbligatoria per tutti, in base, questa volta, alla “logica delle pari opportunità”.
_ Le condizioni di lavoro preventivate dalla FIAT allontanavano le donne, erano per loro insostenibili; {{l’accordo, in nome della parità, di fatto le discriminava}}.

Casi non molto dissimili si verificarono nel settore terziario, a prevalente occupazione femminile, in particolare nell’ambito della ristrutturazione del gruppo La Rinascente di Milano, attuata per fasi successive durante l’ultima decade del secolo scorso. Anch’essi appaiono significativi di una {{tendenza alla precarizzazione dell’emancipazione femminile, anche in contesti apparentemente garantiti}}.

Autorizzata da una serie di accordi sindacali, la capogruppo {{La Rinascente }} aveva operato spostamenti di lavoratrici da una società controllata ad un’altra, con diverse modalità.
_ Un caso aveva coinvolto le dipendenti di un magazzino Upim che, per la ristrutturazione, era stato in parte adibito a supermercato alimentare (SMA). Alcune commesse furono spostate da Upim a SMA in base ad una scelta esclusivamente padronale, non contrastata dal sindacato. L’ipotesi di accordo, fondata sulla cessione del contratto di lavoro delle dipendenti Upim a SMA, fu vivacemente {{contestata dalle lavoratrici}}, in primo luogo perché comportava una modificazione di orari fortemente penalizzante rispetto ai loro tradizionali compiti di cura famigliare, inoltre perché le mansioni previste si erano già dimostrate usuranti e dequalificate.

Il dato particolare della vicenda fu che {{le interessate decisero di partecipare direttamente ad una gestione conflittuale della contrattazione}}, eleggendo alcune {{delegate di assemblea da affiancare ai rappresentanti sindacali }} aziendali e ai funzionari delle organizzazioni provinciali.
_ A causa degli ostacoli formalmente opposti dalla direzione aziendale, {{non fu concessa alle lavoratrici che la richiedevano la possibilità di essere parte della trattativa}} e intrecciare direttamente la propria capacità contrattuale con quella del sindacato.
_ Tant’è che l’{{accordo stipulato fra azienda e sindacato, considerato penalizzante dalle dirette interessate}}, fu poi impugnato avanti al giudice da molte di loro e a{{nnullato perché ritenuto lesivo dei loro diritti indisponibili}}, con la conseguenza della loro reintegrazione nelle precedenti mansioni presso il reparto Upim di provenienza.
_ Questa volta la sentenza fu eseguita integralmente: modifiche contrattuali peggiorative non furono consentite.

L’esperienza positiva ha però riguardato le addette di un singolo magazzino del gruppo La Rinascente, senza possibilità di generalizzazione ad altre realtà simili del complesso aziendale, per la contrarietà del sindacato rispetto all’annullamento dell’accordo stipulato.
_ Ne è conseguito un indebolimento della resistenza rispetto a successive radicali ristrutturazioni nel gruppo -implicanti una perdita di occupazione- e un offuscamento della capacità sindacale.

Si possono svolgere diverse considerazioni, analizzando i casi occorsi nei diversi settori dell’industria e del commercio, nonché i relativi accordi sindacali.
_ {{Nelle vicende del gruppo FIAT}}, quando si è data la resistenza di alcune lavoratrici fuori o contro l’organizzazione sindacale, si è visto chiaramente che, in quelle situazioni, {{il conflitto più
forte era quello che si manifestava all’interno del mondo del lavoro, fra donne e uomini}}.

Poiché le imprese, con la complicità di lavoratori e sindacalisti, sceglievano di assumere o mantenere al lavoro solo maschi, chiaramente in funzione dei propri interessi di classe (coincidenti in questi casi con quelli di sesso maschile), in violazione della legge di parità, che faceva parte del diritto del lavoro, diritto allora strutturato sul principio del favore per la classe lavoratrice.

{{L’alleanza maschile fra imprenditori}} e lavoratori diventava particolarmente evidente nei casi di {{successo giudiziario delle lavoratrici}}, salutati da lavoratori e sindacalisti non come una vittoria della classe, ma {{come vittoria di una parte della classe sull’altra}}, quindi come una sconfitta di classe, capovolgendone il senso in funzione ideologica per sostenere il proprio sesso.

Questo significava, allora, che {{i lavoratori e i sindacalisti avevano attivato un conflitto di sesso all’interno della classe lavoratrice}}, giungendo al punto di scegliere di depotenziarsi come classe (se si intende, come io intendo, la classe costituita dagli uomini e dalle donne che hanno una certa collocazione nei rapporti di produzione) piuttosto che accettare anche solo la legge di parità fra i sessi.

Gli esiti di quelle vicende mi dicono che {{le lavoratrici perdendo nel conflitto di sesso hanno perso anche nel conflitto di classe}}.

{{I lavoratori hanno vinto nel conflitto di sesso e hanno perso nel conflitto di classe}} (gli imprenditori hanno assunto o mantenuto in attività chi volevano loro).

{{
La parte padronale ha vinto in entrambi i conflitti.}}

Il sindacato si è fatto portatore esclusivamente degli interessi di sesso, al punto di mettersi dall’altra parte nel conflitto di classe, dato che in quei casi gli interessi delle donne e quelli della classe convergevano, mentre quelli degli uomini spezzavano l’unità della classe lavoratrice, quindi la negavano, minandola nella sua resistenza e compiuta esistenza.

Riconoscere il nodo irrisolto del conflitto di sesso significa che, dato tale conflitto, il conflitto di classe va ripensato per meglio attrezzarsi.
_ Sembrano significative, a questo proposito, le osservazioni contenute in un saggio-inchiesta del 2009 edito dalla CGIL Liguria (Cereseto, Frisone, Varlese“[Non è un gioco da ragazze->http://www.ediesseonline.it/catalogo/storia-e-memoria/non-e-un-gioco-da-ragazze]”) sulle esperienze di alcuni coordinamenti femminili sindacali operanti negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso.

{{Nel settore metalmeccanico,}} le delegate dei Consigli di Fabbrica, votate da una maggioranza di lavoratrici e “sostenute nelle loro azioni da una partecipazione vivace e costante” incontrano la resistenza del sindacato ufficiale che ostacola le loro proposte.
_ Dichiarano: “Quelli che pensavano: diamogli corda, così abbiamo più iscritte. Quelli che dicevano: Ma siete matte, non vi daremo mai spazio” E anche: “Ma voi fate queste rivendicazioni qui in fabbrica, ma…è fuori, non qui in fabbrica che dovete combattere, perché vi discriminano prima fuori”.
_ Le donne avevano consapevolezza della trappola “…era solo un modo per tacitarci…..la cosa che noi abbiamo capito è che non c’era un “dentro” e un “fuori”, che era una cosa complessiva” (ivi pag.233, 234).

La consapevolezza da sola, per necessaria che sia, evidentemente non basta: occorre trovare una leva per smuovere le coscienze e immaginare azioni efficaci a livello sempre più ampio.
_ Riflettendo, in prima battuta si può dire che {{si mina l’unità e l’autonomia della classe se si pensa di identificare il suo interesse complessivo con quello del lavoratore}}, soggetto maschile da privilegiarsi nell’ambito della cosiddetta “guerra fra poveri”, offuscando la resistenza collettiva ai piani imprenditoriali.

{{I casi del settore terziario}} (La Rinascente/ Upim/SMA) mostrano aspetti più articolati delle modalità con cui le donne stavano nel rapporto di lavoro.
_ In primo luogo, il contrasto al trasferimento da un’azienda a un’altra era dovuto per molte di loro non tanto alla dequalificazione (pure evidente) rispetto alla professionalità acquisita, ma all’{{ostacolo rispetto ai tradizionali compiti famigliari che esse privilegiavano}}.
_ Ciò autorizza la riflessione che {{anche nelle situazioni di emancipazione garantita}}, a livello sociale le donne sembrano detenere più che non diritti individuali, {{diritti condizionati dalla loro
appartenenza famigliare}}, prestandovi una complice adesione che sembra collocarsi su una linea che nega l’autodeterminazione.

Tuttavia, l’aspetto bifronte della situazione sta nel fatto che proprio questa specificità comportamentale ha dato origine al conflitto che ha operato un risveglio della coscienza di sesso e di classe, ha dato luogo alla {{pretesa (inaudita a quel tempo e, probabilmente, ancora oggi) di affiancare ai rappresentanti del sindacato altre rappresentanti}}, donne scelte per una consonanza di intenti su un obiettivo e per la capacità di sostenere un punto di vista discusso e condiviso.

Il tentativo, sebbene frustrato per il suo isolamento, ha mostrato che {{alcune lavoratrici erano propense ad una modalità diversa e relazionale del rapporto di rappresentanza}}: mandato e verifica costantemente esercitati in progress, un movimento pendolare fra il luogo del conflitto e il luogo di donne che ha autorizzato la presenza nel conflitto, ciò che significa assunzione di responsabilità, capacità di rendersi reciprocamente conto e di trovare le opportune mediazioni fra aspettative e possibilità concrete di praticarle.

In altre parole, si era capito che si rendeva necessaria una contrattazione fra donne (lavoratrici, sindacaliste, delegate) per definire gli obiettivi, gli strumenti e per adeguarli alle situazioni che continuamente si modificano, alla luce del sapere e della forza acquisiti.
_ Non è sufficiente la contrattazione iniziale, perché appena raggiunto l’obiettivo (ad esempio, la sentenza) il patto si esaurisce e per procedere occorre stabilire nuove regole condivise.
_ Nell’occasione menzionata, la modalità della relazione fra alcune donne ha consentito di tentare una trattativa efficace per le rappresentate, che hanno conseguito il loro obiettivo, aderente ad interessi di sesso e di classe contrapposti a quelli padronali. Essa però non ha conosciuto diffusione e articolazione adeguate a causa dal monopolio maschile della rappresentanza sindacale.

Da quell’esperienza è scaturita una riflessione che ha portato all’{{[ipotesi dell’agente contrattuale femminile->http://www.mclink.it/n/dwpress/dww12/art7.htm]}}, sostenuta anche da una proposta di legge sulla rappresentanza nei luoghi di lavoro, formulata dall’associazione milanese Osservatorio sul Lavoro delle Donne e molto discussa fra le sindacaliste della CGIL e della CISL negli anni 1998/99, allorchè era all’esame del Parlamento il Testo Unificato di leggi sulle Rappresentanze Sindacali, ora dato per disperso nei meandri istituzionali.

Quella {{proposta era intesa a porre un limite all’esclusività maschile nella rappresentanza}}, prevedendo liste elettorali per le rappresentanze sindacali aziendali a doppia composizione (femminile e maschile), con una {{presenza di sesso negli organismi elettivi proporzionata alla percentuale di presenze}} nella base elettorale di lavoratrici e lavoratori.
_ Prevedeva inoltre la possibilità di elaborazione di piattaforme contrattuali da parte delle interessate e la verifica attraverso referendum aziendali di ogni ipotesi di accordo e contratto collettivo, l’obbligo di
informazioni dettagliate nei casi di ristrutturazioni e di cessioni di rami aziendali da parte degli imprenditori.

L’idea che sosteneva la proposta era quella di {{favorire l’intreccio di esperienze di esperienze diversificate di donne e uomini}}, usandole come strumento per potenziare le loro ragioni.
_ Non è andata così e oggi il destino femminile di mano d’opera ultraflessibile di riserva, ha coinvolto la grande maggioranza degli esseri umani messi al lavoro.

La polverizzazione dei luoghi di lavoro e la divisione fra lavoratori è ora fortemente sostenuta da una legislazione che nega l’architrave del “favor lavoratoris”, di matrice costituzionale e la sostituisce con il favore alle imprese, originata dal prepotere economico finanziario.
_ La situazione renderebbe auspicabile attivare conflitti, intesi nei giusti termini di ribellione ai soprusi peggiori che, però, trovano una sponda spesso insuperabile nella legislazione incentivante la “flessibilità” e nella competizione globale sul mercato dei lavori.

In particolare, {{per le donne viene messa in campo una mistificazione che appanna ulteriormente la loro capacità reattiva}}.
_ Lo svantaggio della divisione sessuale (o sessista) del lavoro dovuto principalmente alla missione riproduttiva e ai connessi compiti di cura, è da alcune/i presentato come vantaggioso promotore di una doppia scelta felice, famigliare e lavorativa, attraverso il magico ritrovato del part time conciliativo.

Non casualmente questo ritrovato è anche inserito in {{un disegno confindustriale lungimirante che utilizza la flessibilità femminile }} -acquisita attraverso uno speciale sapere relazionale e organizzativo della quotidianità- {{e l’apporto gratuito di competenze, nell’ambito della prestazione mercantile divenuta prolungamento di quella famigliare, gratuita per antonomasia}}.

Del sapere femminile si arriva a dire: “un lavoro imprenditivo e creativo” che “non si vede nel PIL, non si vede nella busta paga, non si vede negli indicatori di benessere delle nazioni e degli individui”
_ L’assenza di compenso per questi apporti innovativi e preziosi, lungi dal determinare conflitto aperto, viene constatata pacificamente; si sottolinea, anzi, che esiste una “parola magica per rimuovere il conflitto: conciliazione tra i due lavori (produttivo e riproduttivo) per entrambi i sessi”.

Il vantato favore femminile per questo tipo di contratto, che dovrebbe contagiare anche gli uomini, prescinde totalmente da qualsiasi criterio materialistico di lettura della realtà: da quale posizione sociale e da quale reddito si parla, con quali ipotizzabili conseguenze sul benessere ovvero sulla povertà femminile e minorile nei casi di rottura della compagine famigliare (separazioni e divorzi), con quali riflessi sull’entità delle pensioni.

_ {{La conciliazione si presenta come una sorta di rifugio individuale}} che mette al riparo dal duro compito di resistere alle ingiustizie imprenditoriali e {{nega la dimensione collettiva della problematica lavorativa}}, agganciandola apparentemente al dato biologico dell’essere donna: {{nessun conflitto, né di sesso né di classe}}.

Sfuma nell’inesistenza la dimensione dei diritti da far valere individualmente o collettivamente. {{Il doppio scacco di classe e di sesso è introiettato come normale ingiustizia}} che resta priva di reazioni oppositive.

La cornice dell’esistente non è messa in dubbio, è vista come dato intangibile della realtà entro cui ritagliarsi spazi e tentare modificazioni di modesta portata, ammesso che se ne abbia la possibilità. {{Non è tenuto in considerazione il danno sociale ed economico che consegue }} alla dispersione su campi inappropriati dell’energia femminile, lo spreco di risorse valide tanto inefficacemente incanalate, l’impoverimento complessivo della società.

{{Si manifesta un problema di giustizia sociale e di tenuta democratica}}.
_ I casi riferiti alludono al fatto che non esiste una giustizia sociale unica, valida indifferentemente per donne e uomini.
_ Ad esempio, si è verificato che gli uomini hanno praticato la scelta che prevedeva per loro la priorità nella attribuzione della risorsa lavoro e per le donne, in tempi di scarsità, nessun riconoscimento diretto.

Le situazioni descritte avrebbero richiesto un {{doppio sguardo critico sul nodo produzione/riproduzione}}, ma i rappresentanti incaricati della contrattazione con le parti padronali non possedevano tale competenza, non erano neppure in grado di comprenderne l’importanza e attivare competenze femminili, bloccati dalla contraddizione implicita nel conflitto di sesso.

A ben vedere, quel blocco ne ha prodotti altri, si è allargato a macchia d’olio, ha bloccato il conflitto di classe, ha reso irrilevanti le classi subalterne nel loro complesso, uomini e donne invischiati nella stessa rete.
_ Allora, che fare?

Per tentare di rimontare la sconfitta non si può, a mio parere, rimanere incordati ad un ordine unico maschile da cui tutte le regole promanano.
_ Occorre fare come in montagna, quando si smarrisce il sentiero, si torna sui propri passi e si cerca ancora, più attentamente.
_ {{E’ necessario immaginare una strategia che metta al centro la ricerca di un sentimento di collettività}}, che freni l’individualismo, quello acquisitivo e quello difensivo, che attenui la competizione fra soggetti alla ricerca di soluzioni personali o famigliari in un tessuto sociale disgregato.
_ Sembra essenziale ripartire dalla base, sfruttando anche iniziali esperienze positive, imparando gradualmente come procedere nella giusta direzione.

Le esperienze del passato consigliano di {{mettere al centro i soggetti reali, i bisogni e i desideri diversamente incarnati in donne e uomini}}; mostrano che negare soggettività plurime significa incapsulare, togliere autonomia, abituare alla eterodeterminazione, cancellare resistenza e contrasto contro gli eccessi del potere, le prevaricazioni dei soggetti sovraordinati, rendere vittorioso, perché incontrastato, il capitalismo di rapina che ruba dignità e vita a tutti gli esseri umani comunque sessuati.

Penso che {{solo quando lo spazio pubblico può essere occupato da soggetti molteplici}} che praticano modalità idonee a far sentire la propria voce e a far pesare i propri desideri, attraverso mediazioni contrattate fra loro, solo allora può essere ipotizzato un sostanziarsi reale della democrazia.

{{Una pratica di democrazia, secondo me, inizia con l’eliminazione della illibertà materiale ed emotiva delle donne nel privato}}, il che significa {{superare l’idea di una cittadinanza di seconda classe che le spinge verso scelte adattative}}, conformi ai modelli tradizionalmente imposti, vissuti come espressione dei propri desideri.

Questa è una delle concorrenti modalità (e non la meno rilevante) per attuare una democrazia aperta al dialogo, un confronto incessante e un conflitto per la modificazione, nel legame sociale che riconosce a sé e all’altra, agli altri, pari responsabilità per la vita collettiva.

Questa modalità potrà concorrere a produrre una ridefinizione dell’entrare in politica, {{a partire dal fatto che per molte donne il privato cessi di essere la sfera della privazione}}.
_ Se le donne cessano di servire (in via quasi esclusiva) le necessità del privato, l’assoluta libertà maschile rispetto ai vincoli materiali viene meno, con ricadute positive sulla regola costitutiva e organizzativa della politica.

Le fila del ragionamento sono strettamente collegate: la fine della irresponsabilità maschile rispetto al privato può concorrere a determinare la fine del monopolio maschile rispetto alla cosa pubblica.

Concludendo, il misfatto della divisione sessuale del lavoro, sistema di segregazione dalla sfera pubblica di molte donne, sta non solo nella sottrazione di elementi di valore alla società, sta anche nell’appiattimento sul sistema dato, nella obliterazione della conflittualità sociale.
_ Ad esempio, nell’immaginario sociale patriarcale e nella materialità esistenziale le donne hanno una funzione di ammortizzatore, creano connessioni nel tessuto sociale che non sono di immediato ordine economico, ma che producono effetti economici, non contabilizzati perché ritenuti non calcolabili in termini monetari.

Un’osservazione interessante evidenzia che {{le istituzioni internazionali hanno saputo strumentalizzare a proprio vantaggio alcune parole d’ordine dei movimenti femministi}}, utilizzando anche la sapienza delle donne nel lavoro di cura per risparmiare l’invio di operatori sanitari in molti Paesi del Sud del mondo.

E’ risultato chiaro, infatti, che {{il lavoro semigratuito delle donne, in epoche di carestia o disastri naturali}}, ha concorso grandemente a tenere in vita intere comunità e tutto ciò è servito a tagliare programmi e welfare pubblico.

{{Il ragionamento delle agenzie internazionali è stato che era possibile tagliare la spesa sociale perché le donne non sarebbero venute meno al loro ruolo di cura}}, fungendo da ammortizzatore economicamente, socialmente, emotivamente. (così Paola Melchiori “[I rapporti tra uomini e donne in una prospettiva transculturale->http://www.universitadelledonne.it/uomini%20e%20donne.htm]”).

Risulta, quindi, {{essenziale confliggere per acquisire un giusto riequilibrio dei ruoli fra i generi}} o rischiamo di essere tutti travolti dalla marea montante della speculazione globale che cancella esistenze e spazi democratici.
_ E’ necessario riannodare connessioni e trovare modalità nuove che consentano solidarietà nuove, di classe e fra i sessi.