Cura di sé e cura del mondo
L’odio e i veleni che l’Occidente ha sparso nel mondo, i suoi stessi “valori” – denaro, competizione -, gli ritornano indietro ingigantiti e lo mostrano per quello che realmente è: già contaminato da quella “barbarie” che ha contribuito a far crescere respingendola fuori di sé, fingendosi un’innocenza mai conosciuta. Per una specie di “contrappasso”, la parte del mondo che si è pensata dispensatrice di “progresso” e di civiltà, si trova oggi costretta a contare sul proprio territorio le piaghe che ha inflitto ad altri, con le sue industrie, le sue bombe, i suoi consumi illimitati. C’è una parte del mondo dove la morte ha nome, storia, leggenda, e un’altra, la più estesa, dove è solo numero. La malattia mortale della Terra unifica la famiglia umana, costringe popoli di cultura e condizioni diverse a ragionare su una sorte comune, ad affrontare per la prima volta un pericolo di sopravvivenza che alla lunga non risparmierà nessuno. Ma, insieme alla scoperta di parentele, escono vistose dal silenzio e dall’invisibilità anche le disuguaglianze, le responsabilità e, sia pure tra molte opposizioni, alternative di sviluppo e di convivenza. Fornire insistentemente numeri e previsioni può diventare allora un modo inconsapevole per adombrare l’ansia e l’infelicità legate inevitabilmente all’uso distruttivo dei beni che produciamo o che troviamo in natura.
Accanto alle altre “catastrofi” si assiste oggi anche al declino dell’antica dialettica che ha diviso e contrapposto natura e cultura, donna e uomo, individuo e società. Cadono barriere millenarie e consolidate costruzioni di senso: così, paradossalmente, sono le cose, alienate dai nostri “consumi forzati”, è la natura, ferita nel suo equilibrio, sono le donne, i bambini, i poveri, i malati, a dire il dolore e la distruttività nascosti dietro la facciata di un mondo che si è creduto “civile”.
Nell’articolo pubblicato sul Manifesto (22/23 gennaio 1989) l’anno della sua morte – Freud, Rilke e la caducità -, Elvio Fachinelli così concludeva:
“Questo è il rovesciamento radicale dell’antica e ben nota posizione in cui la natura, madre divina, era chiamata a salvarci. Ora siamo noi sollecitati a salvarla. In Rilke questo rovesciamento, ottenuto passando attraverso la più dolorosa identificazione con l’effimero, si fa vivo come compito particolare dell’arte e della poesia (dire la Terra, farla diventare invisibile), che è nello stesso tempo un atteggiamento etico religioso. Ma entrambi presuppongono qualcosa di più ampio e indistinto, l’accettazione piena di una figura che comprende in sé e salva le creature, prima che sia troppo tardi: «un cuore», per usare le parole del poeta, in cui scaturisca un «innumerabile esistere».
Forse sta qui una delle chiavi anche per noi, oggi. Forse non di un lutto abbiamo bisogno, come pensava Freud, né anticipato né post rem. Ma di questo accoglimento, di questa capacità di immedesimazione in cui noi, feriti, diventeremmo madre di creature ferite. È un passo difficile – al limite, impossibile: troppo tardi. Eppure esso ci viene da ogni parte e sempre più spesso «sollecitato». E in questo compito potrebbe trovarsi una gracile felicità: non un’«ascesa», un apice o culmine come si pensa di solito, ma piuttosto, come ci dice la Decima elegia, una «caduta», simile alla «pioggia che cade su terra scura a primavera».
L’articolo è stato pubblicato anche su Comune info