Dalla resistenza alla Costituente, dall’impegno sindacale a quello parlamentare. Vittorio Foa un uomo attento ai cambiamenti, capace di dare valore alla politica e al Parlamento.
Quel che segue è un testo di occasione, preparato per un convegno dedicato a Vittorio Foa a dieci anni dalla sua uscita di scena. Il luogo previsto era Formia, sua ultima casa, dove vivono molti amici e compagni. L’argomento particolare è il suo rapporto con il lavoro; tema esagerato in sé, soprattutto tenuto conto di poco tempo e poco spazio (e scarsa abilità dell’autore di queste righe). La scelta è stata di restringere la riflessione ad alcuni interventi di Vittorio Foa in Parlamento – Costituente, Camera dei deputati, Senato della Repubblica– in tema di lavoro nel corso di quarant’anni.
Vittorio, “organizzatore sindacale”
Quella di “Organizzatore sindacale” era l’attività che Vittorio si attribuiva; non la politica, non l’attività di storico ed economista, non i libri e i saggi scritti, i partiti fondati e sfondati, la lotta e la resistenza, il carcere e il Parlamento, l’università. Era il lavoro sindacale che gli dava un senso e che riteneva o sperava che gli altri gli attribuissero, a cose fatte, per concludere il discorso.
Vittorio, con quel tanto di malizia bonaria presente sempre nelle sue parole, raccontava che quando gli era richiesto, indicava di solito come professione quella di organizzatore sindacale; aggiungeva di essere stato costretto, dai casi della vita e dalle debolezze conseguenti a fare anche dell’altro: il professore, il parlamentare, il politico, trovando vie traverse per avvicinarsi al compito che gli era stato affidato, o che aveva scelto per sé. Per esempio rappresentare i lavoratori e il loro sindacato nella società e perfino in Parlamento; insegnare all’università – ai futuri sindacalisti – cosa fossero il lavoro e il salario; scrivere saggi, editoriali, articoli su questo mondo a parte.
Rappresentare i lavoratori, contrattare e disputare con i padroni.
Per ricordare alcuni interventi in tema di lavoro pronunciati da Vittorio in Parlamento, partiremo dall’inizio. Foa è arrivato alla Costituente subito dopo la Resistenza, come esponente del Partito d’azione, prima di diventare sindacalista. Interventi di rilievo in quella sede hanno per tema il lavoro e il diritto di sciopero. Una volta affermatosi nel sindacato e tornato in Parlamento con i socialisti si occupa di sciopero alla Fiat di Torino e della contro serrata padronale; poi delle successive giornate di Piazza Statuto a Torino; difende insomma il lavoro e polemizza con i partiti che rappresentano il padronato. Dopo aver passato anni e legislature come sindacalista prestato al Parlamento, Foa è anche il primo sindacalista a rifiutare una rielezione, affermando così “l’unità” sindacale preminente in confronto alle controversie politiche parlamentari. Parte dei dirigenti sindacali sono d’accordo con Foa, o si comportano come se lo fossero, e danno va via le dimissioni dal Parlamento. I partiti temono di essere messi da parte e impongono forme più blande e non irreversibili di unità sindacale. Una decina di anni dopo Vittorio fa un’altra scelta che spiazza il mondo politico. Nelle elezioni per il Parlamento del 1976, egli si presenta con la “nuova Sinistra” (PdUP per il comunismo, Avanguardia operaia-Ao e Lotta Continua-Lc in un’unica lista) e fa la campagna elettorale come capolista a Torino e a Napoli. In rappresentanza dell’intera lista, appare alla televisione, allora culmine del dibattito elettorale, e dichiara che se sarà eletto, darà subito le dimissioni, lasciando il posto di parlamentare ai due che lo seguono nei consensi, nelle circoscrizioni di Torino e a Napoli. Cosa significhi “subito”, non è chiaro a tutti nello stesso modo: Lc e Ao intendono che Foa, appena eletto, debba rinunciare. Foa preferirebbe fare almeno un intervento, per spiegare la sua scelta. Prevale la prima posizione ed entrano al suo posto Silverio Corvisieri e Mimmo Pinto. Foa tornerà in Parlamento, al Senato, molto più tardi, come indipendente nelle liste del Pci.
I discorsi e gli interventi raccolti da un amico molto caro.
La presentazione del lavoro parlamentare di Vittorio Foa, in un unico volume edito dalla Camera dei Deputati, è opera di un suo grande amico, di professione economista, Andrea Ginzburg, secondo figlio di Leone e Natalia. Ginzburg introduce e cura con precisione scientifica e affetto filiale l’attività e gli interventi di Vittorio al Parlamento italiano. Si può intuire – e Andrea lo suggerisce – la scelta senza tentennamenti a favore dei lavoratori, dei più deboli, e l’intelligenza per cogliere sempre, un momento prima degli altri, una via di uscita in una discussione che in apparenza non ne ha.
Cinque interventi in Parlamento. Primo intervento, 8 maggio 1947.
Nel 1946 Foa è stato eletto alla Costituente con il Partito d’azione. Interviene l’8 maggio 1947 in tema di “Tutela del lavoro”. La discussione verte sui diritti e l’emendamento proposto riguarda il diritto dei lavoratori di ogni paese d’emigrare per ottenere un lavoro più dignitoso. Foa è sconfitto e a distanza di settanta anni il problema di equilibrare il diritto di chi lavora di superare le frontiere nazionali proprio come le merci e il capitale, è ancora davanti a noi, del tutto irrisolto.
Il primo intervento di Foa alla Costituente comincia dunque l’8 maggio del 1947 per proseguire il giorno seguente. E’ in discussione quello che diventerà l’articolo 35 della Costituzione e non solo quello. “La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni.|| Cura la formazione e l’elevazione professionale dei lavoratori.||Promuove e favorisce gli accordi e le organizzazioni internazionali intesi ad affermare e regolare i diritti del lavoro.||Riconosce la libertà di emigrazione, salvo gli obblighi stabiliti dalla legge nell’interesse generale, e tutela il lavoro italiano all’estero”. L’emendamento proposto da Foa insieme ad altri parlamentari (Vincenzo Mazzei-PRI, Leo Valiani- Autonomista, Roberto Tremelloni- PSLI) al secondo capoverso intende aggiungere, in Costituzione, alla frase “promozione di accordi internazionali”, “una esplicita menzione” alla libera circolazione dei lavoratori. Il punto è chiaro. Anche i lavoratori devono avere la libertà di movimento, attraverso le frontiere, proprio come i capitali e le merci. Quello che si sta configurando, nella volontà del paese-guida occidentale, gli Stati uniti, e un po’ dell’Inghilterra, è un modello dei rapporti internazionali. Vittorio ha studiato a lungo, a Regina Coeli, l’economia internazionale; ha imparato a riconoscere il sistema capitalistico delle grandi democrazie, quello che vincola il lavoro entro le frontiere date, consentendo, anzi spingendo alla libertà totale il movimento di merci e capitali, con la conseguenza “che i paesi in cui è più bassa la concentrazione industriale e più basso il rendimento del lavoro sarebbero gravemente danneggiati perché l’immobilizzazione del lavoro si tradurrebbe in un momento di rigidezza economica interna tale da esporre questi paesi passivamente al dominio di paesi i quali sono possessori di capitali o hanno un diverso ritmo di concentrazione industriale”. Per questo – continua Foa –mi pare essenziale che lo Stato italiano che si trova in questa sfavorevole situazione, esprima pubblicamente questo impegno e affronti il problema economico nella sua unità”. C’è un altro passo dell’intervento di Foa per chiedere il voto favorevole all’emendamento che merita di essere ricordato, per la sua modernità: “Non dobbiamo farci grandi illusioni perché… questa materia, internazionalmente, presenta prospettive poco favorevoli: da una parte assistiamo ai trasferimenti coattivi di intere popolazioni, e dall’altro al chiuso isolazionismo demografico e ai divieti di immigrazione. Credo però che noi non dobbiamo disperare … verrà il momento in cui le classi lavoratrici, …. prospetteranno questo problema del movimento internazionale dei lavoratori in una luce concreta che sia favorevole anche ai popoli poveri. Per queste ragioni prego l’assemblea di accettare questo emendamento”. Chiuso isolazionismo demografico di qua, movimento internazionale dei lavoratori di là: la Camera respinge, ma la partita è ancora aperta.
Nello stesso giorno, alla Costituente, prende forma un altro problema: non è sufficiente tutelare il lavoro effettivo, occorre sancire il diritto al lavoro. Questo diritto è tanto forte e condiviso dai Costituenti che il principio entra tra quelli fondamentali della Repubblica e costituisce ora l’articolo 4 della Carta. Sorgono problemi per gli estensori: che fare per rendere il diritto esistente, non solo conclamato? A fianco del diritto al lavoro concorre anche un obbligo al lavoro? Il testo dell’articolo 4 afferma : “La Repubblica riconosce a tutti cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto.||Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”. Vittorio propone di spiegare il significato del primo comma così “la Repubblica promuove una politica di occupazione”. Si apre una diatriba tra liberali e statalisti perché in sostanza si discute di pianificazione. A pianificare, insistono i primi, sono pur sempre i soliti, nazisti e bolscevichi. La decisione è così rimandata al giorno seguente e intanto si passa al secondo comma. Interviene ancora Foa. “Si è ritenuto nel progetto di stabilire una simmetria tra diritto al lavoro e dovere al lavoro”. …L’unico significato che mi è dato di trarne, almeno secondo le mie facoltà interpretative, è questo: che ogni cittadino ha il dovere di operare in conformità e secondo la propria scelta, cioè ha il dovere di fare i propri comodi”. Poi Foa smette di scherzare. “… E’ un’amara ironia perché noi sappiamo molto bene che nonostante tutta la retorica che si possa fare sul lavoro, la quasi totalità del lavoro manuale non si svolge in conformità della propria scelta, ma che i dati che si pongono al lavoratore sono dati obbligati. Ora, mi pare che questa formulazione abbia un significato ironico che non dovrebbe trovare posto nella Costituzione”. L’emendamento non ha effetto alcuno. L’articolo 4 è quello che sappiamo. Anche la questione del “Piano” è rimandata ad altri articoli e per l’intanto sconfitta.
Secondo intervento, 12 maggio 1947, sul diritto di sciopero.
La costituzione italiana, all’articolo 39 è determinata: “Il diritto di sciopero si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano”. Cosa significa prescrivere leggi che intervengono sulla Costituzione? Foa è contrario a porre vincoli e propone poi, senza fortuna, un emendamento per indirizzare quelle particolari leggi future. Nella discussione va ricordata la posizione di Guglielmo Giannini, uomo di teatro e fondatore dell’ “Uomo qualunque” che sosteneva l’abolizione del diritto di sciopero e – bontà sua – del parallelo diritto di serrata. “Se si vuole affermare il diritto di sciopero – ragiona Foa – dobbiamo preoccuparci che questo diritto non venga svuotato attraverso l’attività legislativa. In questa ipotesi, io mi domando se non sarebbe preferibile omettere del tutto la menzione di questo diritto nel testo costituzionale”. In caso contrario, “in quale modo, con quali limiti la legge potrà regolare, disciplinare il diritto di sciopero?” Foa ritiene che non si possa sovrapporre alcuna autorità, neppure quella dello Stato, “alla volontà e alla determinazione responsabile” dei lavoratori in sciopero. Nessun limite. “Neppure quello che riguarda i dipendenti degli enti pubblici o gli addetti dei servizi pubblici”. Forse non ha torto chi sostenga che anche i lavoratori nel loro insieme sarebbero danneggiati dallo sciopero dei servizi, ma – Foa è convinto di questo – “le organizzazioni sindacali sono le meglio qualificate a giudicare quando uno sciopero di dipendenti pubblici …. danneggi loro stessi nella posizione di consumatori, di utenti di pubblici servizi, di produttori e associati al processo produttivo”. In seguito Vittorio avrà occasione di riflettere sul cambiamento del rapporto tra scioperanti e utenti dei servizi pubblici.
Terzo intervento, molto dopo, alla Camera, 2 luglio 1962 contro una serrata della Fiat.
Il diritto di sciopero è manomesso se un’impresa, una delle più grandi, mostra di non riconoscerlo e agisce per contrastarlo; e non potendo impedirlo chiude i cancelli, per garantire di fronte al mondo il proprio intangibile potere.
C’è uno sciopero dei metalmeccanici, anche a Torino, dove la Fiat si sente chiamata in causa. Essa non può sopportare che qualcuno comandi a casa sua, nella sua città. Così, per dimostrare il suo intangibile potere di comando a casa propria e dunque per invalidare lo sciopero chiude gli stabilimenti. Siamo alla serrata, sempre minacciata, per dimostrare che le leggi, la Costituzione in questo caso, si fermano fuori dai cancelli. Non potendo agire diversamente, rivendicare altrimenti il suo potere, i cancelli li chiude e basta. I sindacati – dentro e fuori del Parlamento – reagiscono con durezza, raddoppiano lo sciopero e chiedono al prefetto d’intervenire. C’è dunque uno scontro tra poteri: il potere indiscusso a Torino di Vittorio Valletta capo della fabbrica e della Fiat, opposto al potere dello Stato e della legge. Pochi giorni dopo c’è il seguito.
Quarto intervento, pochi giorni dopo, 12 luglio 1962, sui “Casi di Piazza Statuto”.
La sede torinese della Uil è assediata da lavoratori indignati per l’accordo separato che tale sindacato ha firmato con la Fiat, rompendo il patto di unità d’azione. La sinistra è divisa. I lavoratori possono attaccare il sindacato? Foa risponde a nome di tutti. Sono passati 10 giorni dalla serrata Fiat. La vertenza dei metalmeccanici e in particolare della Fiat porta a uno sciopero generale della categoria. La Fiat però si sente diversa. Aristocratica com’è, non ha niente a che fare con la meccanica nuova, poco signorile, dei padroncini e delle “fabbricheeette” appartenenti talvolta agli operai diventati industriali e padroni, sull’onda del boom. Sceglie quindi Fiat di chiudere un contratto separato con il sindacato, quella parte del sindacato che ci sta, tanto per mostrare la propria indifferenza ai destini degli altri padroni, del resto della categoria. (Anche ai nostri giorni FCA, erede di Fiat, ha lasciato la Confindustria per risolvere in modo autonomo i problemi sindacali, ma non solo quelli. I tempi sono cambiati, ma il modo di operare, no). Cgil e Cisl non firmano, nel luglio 1962. Firma invece la Uil, in una con il sindacato giallo, aziendale, Sida. In breve i lavoratori si passano la voce, assediano la sede Uil, in Piazza dello Statuto a Torino, per protestare contro la decisione presa, il tradimento sindacale e il contratto separato che ne è seguito. Interviene la forza pubblica. Vittorio alla Camera afferma che il prefetto ha chiamato i reparti speciali che avevano operato in passato ed erano famosi per questo, contro i braccianti: il battaglione Padova, notissimo oramai in Italia per la sua presenza massiccia in tutte le manifestazioni dure, operaie o contadine. Sembra che i lavoratori in Piazza non s’interessino più tanto della Uil, in ginocchio davanti al padrone, quanto della polizia prepotente . Seguono lunghi scontri i piazza Statuto che proseguono oltre il sabato, anche la domenica. Vi sono contusi, feriti, e arresti. La vulgata, fatta propria da una parte della sinistra e talvolta condivisa dai sindacalisti in Parlamento è che spesso non si tratti di lavoratori veri, molto offesi dal sindacato traditore, ma di una massa di sbandati, forse perfino infiltrati dai fascisti o da malavitosi. La questione è diversa, i protagonisti sono altri, ma passeranno quindici anni prima che Dario Lanzardo, sociologo e storico, non intervisterà molti dei presenti e offrirà ampi squarci di verità. La questione è diversa: è la classe operaia che è cambiata, perfino i Quaderni Rossi che hanno guidato la corrente di sinistra tra gli operai, fino allo sciopero, ormai non hanno più la conoscenza completa di quello che avviene. Ancora una volta si è determinato il superamento della linea prevalente del sindacato operaio (e del partito corrispondente) da parte dei lavoratori. In questo caso a Torino vi sono ormai migliaia di operai nuovi, venuti per lo più dal Sud. Sono giovani, non sono docili e non stanno agli ordini, soprattutto a quelli che non capiscono. Goffredo Fofi ha provato a descriverli, ma non gli hanno dato retta. Vittorio nomina appena nel suo intervento i possibili “facinorosi” ma spiega tutto sotto forma dello scontro tra padronato Fiat e operai, con l’indebito intervento dello Stato armato, schierato a favore dei padroni. Foa parla a nome di tutti i sindacalisti deputati, tra i quali Agostino Novella, segretario generale della Cgil e Luciano Lama.
Quinto intervento, 1988. Lo sciopero dei servizi pubblici è uguale a quello di fabbrica?
Sono passati quarant’anni dalla discussione alla Costituente sul diritto di sciopero. Una parte della politica vorrebbe limitarlo, a partire da quello nei servizi, pubblici o privati che siano. Vittorio Foa, arrivato al Senato nella lista della Sinistra indipendente, collegata al Pci-Pds, prende la parola il 12 luglio 1988 sulla “Disciplina del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali”. E’ l’unico intervento registrato nel volume curato da Andrea Ginzburg nel corso della X legislatura, l’ultimo discorso di Vittorio in Parlamento. Foa apre con un colpo a effetto. Vi ricordate? – chiede ai senatori. “Qualche anno fa la neve caduta sulla città di Roma bloccò tutti i servizi pubblici. Naturalmente fu proclamata l’emergenza neve; la neve fu spalata o si sciolse e i servizi ripresero nelle condizioni miserevoli in cui si trovavano prima”. Come dire: fino a che punto i servizi pubblici essenziali lo sono davvero? Foa è rimasto molto colpito dalla ricerca di una sua giovane amica, ricercatrice, Tatiana Pipan che ha dedicato molta attenzione allo sciopero avvenuto nel 1984 al “centro meccanografico di Latina, che ha bloccato tutti gli stipendi e le pensioni statali del Sud d’Italia. Si trattava di 21 scioperanti che hanno bloccato due milioni e mezzo di stipendi e di pensioni”. Foa nota due aspetti estranei rispetto agli scioperi che conosce e difende. Il primo è che “la controparte (dello sciopero), il Governo, era avvantaggiata dallo sciopero, perché lucrava gli interessi sensibilissimi nascenti dal blocco di una simile massa di pensioni e stipendi; ma ciò non toglie che lo sciopero sia stato proclamato con la volontà precisa di ottenere un determinato danno, al fine di realizzare un determinato mutamento nell’opinione pubblica. Per molto tempo ho pensato, così come credo il senatore Lama – continua Foa – (che) “il danneggiamento degli utenti fosse un sottoprodotto dello sciopero. Se si doveva scioperare, al di là dei modi, i valori della solidarietà erano preminenti”. Per spiegarsi meglio, Foa introduce una rievocazione del tempo che fu. 1946, sciopero dei tram a Torino. Gli operai – moltissimi – che vanno in fabbrica col tram sono in difficoltà. La Fiat mette a disposizione dei camion, ma gli operai vanno al lavoro a piedi, “per solidarietà con i tranvieri”. Rispetto ai casi di allora “è andata molto avanti l’autonomia negoziale del sindacato per quello che riguarda i rapporti di lavoro”. C’è poi “la crescita fortissima nell’opinione pubblica della rivendicazione di diritti nuovi, cioè il passaggio graduale da bisogno a diritto”. D’altra parte occorre riflettere che “lo sciopero è diventato nei servizi, almeno in parte, un’altra cosa: lo scioperante infatti non si propone più tanto di danneggiare la sua controparte, il datore di lavoro (se questa controparte infatti è pubblica si immagina facilmente come questa controparte sia abbastanza indifferente al danneggiamento) ma si propone di esercitare un’azione di manifestazione pubblica e rumorosa. Il meccanismo dello sciopero dei servizi sta diventando gradatamente quello della cattura di un ostaggio, di ostaggi di massa, per affermare clamorosamente i propri diritti”.
Una notazione di Andrea Ginzburg (nella prefazione agli atti pubblicati dalla Camera) è molto importante per chiudere il suo resoconto sulla partecipazione di Vittorio Foa, nostro compagno, nostro maestro, alla vita del Parlamento italiano. Scrive Andrea: “L’attenzione di Foa, illustrata da questo intervento al Senato, per i conflitti interni al mondo del lavoro nasce dalla rottura del tabù dell’esistenza di un’unica principale contraddizione che annulla tutte le altre, quella fra capitale e lavoro. Questa nuova prospettiva consente di scorgere non in sostituzione ma accanto alle relazioni e ai conflitti verticali le relazioni e i conflitti orizzontali, cioè interni alle classi, ai generi, alle zone geografiche del centro e della periferia, e financo i conflitti entro se stessi. Una rottura culturale iniziata con la critica della centralità operaia si spinge quindi molto oltre, fino a investire l’idea stessa di centralità, intesa come gerarchia, come assenza di riconoscimento delle diversità, come processo di assoggettamento che può assumere la forma sollo apparentemente alternativa dell’assimilazione e dell’annientamento”. Ginzburg conclude il suo commento citando il Foa de Il cavallo e la torre: “Il centralismo è sempre una spirale; si è geocentrici nell’universo, antropocentrici nel rapporto con la natura, egocentrici nei rapporti con le persone”.