Deviazioni dello sguardo per non farci contaminare dal dolore degli altri
Dalla Newsletter n. 32 di Articolo 3. Osservatorio delle discriminazioni di Mantova, riprendiamo due riflessioni di Maria Bacchi e Lucia Papaleo sulla solitudine e invisibilità che avvolge tante storie drammatiche che hanno come scenario la famiglia. -{{Il dolore degli altri}}
E’ impressionante il numero di sanguinosi fatti di cronaca che, con sempre maggiore frequenza, hanno come scenario la famiglia. {{Articolo3}} ha spesso sottoposto alla discussione di chi ci legge il tema della violenza domestica, della condizione delle donne che, in gran parte dei casi, ne sono vittima; di quella dei bambini e delle bambine che la subiscono, soccombono o ne portano i segni troppo a lungo; abbiamo tentato di riflettere sul conflitto – tra amore e rancore – che può esplodere tra genitori e figli, tra fratelli, tra uomini e donne che magari sono stati legati dal sentimento complesso che chiamiamo amore.
I conoscenti, i vicini di casa, spesso intervistati da giornali e televisioni, in genere parlano di storie normali, di persone normali che si rivelano, in modo del tutto inatteso, persecutori, omicidi, pedofili. Quanto silenzio e quanta solitudine avvolgono le vite degli individui perché storie tanto drammatiche maturino nell’invisibilità e nell’indifferenza, coperte spessissimo dalla {{rispettabilità della famiglia ‘normale’}}?
Viene da chiedersi: dove sono coloro che dovrebbero occuparsi, dal punto di vista istituzionale o professionale, della sofferenza e della solitudine, del disagio e della violenza? Dove siamo tutti noi che assistiamo, senza vedere, allo svolgersi di storie che a volte hanno la morte come epilogo estremo, ma che, più spesso, si trascinano negli anni, mute e invisibili e si trasmettono come un virus incurabile di generazione in generazione? Vedere e assumersi la responsabilità di ciò che vediamo è scomodo.
{{Lucia Papaleo}} tenta un’interessante riflessione personale sulla “microfisica” dell’esclusione e della discriminazione: esclusioni e discriminazioni che tutti noi quotidianamente operiamo. Piccoli gesti, impercettibili deviazioni dello sguardo che ci permettono di non farci contaminare dal dolore degli altri.
{{Maria Bacchi}}
-{{La discriminazione invisibile}}
Osservando ciò che mi sta intorno per notare il dettaglio stonato, ne trovo tanti anche dentro di me.
Mi viene in mente una storia, che non so se può chiamarsi storia visto che è realtà, esperienza presente. E così decido di partire da questa {{storia reale}} per osservare come agiscono già dentro di me inconfessate discriminazioni di cui mi scopro responsabile.
{{Quando si parla di discriminazioni non sempre è necessario focalizzare lo sguardo su razza o religione dell’oggetto osservato. }}Tutto può essere discriminato, separato, allontanato…
Le scelte quotidiane sono spesso discriminatorie; la ricerca della meritata quiete e il desiderio della semplificazione possono talvolta essere discriminatori: scegliere la via più facile lascia al loro destino tutti coloro che ingombrano le altre vie.
E in questo mio quotidiano mi capita di {{osservare una mamma}} che per il fatto di avere più di due figli scopre di essere poco cercata o invitata per quei momenti di svago tra amiche di cui tutte noi possiamo sperimentare il piacere ogni volta che accadono o ci vengono proposti. Ma con tre bambini non sarebbe tanto uno svago…
Osservo che questa madre è anche tagliata fuori dal mercato del lavoro perché offre bisogni, ma questo si sa… O, quanto meno, i bisogni sono la cosa più visibile della sua vita. In realtà offre molto di più, con tutte le cose che sa fare. È tagliata fuori dall’accesso ai consumi, anche quelli stupidi e superflui, dai quali invece ciascuno di noi si lascia volentieri tentare (e a volte cede), e anche lei sarebbe spinta a cedere. È impedita nella fruizione delle proposte culturali della città: il cinema, il teatro, il festival… come si fa con tre?
La reazione spontanea dell’uomo comune della strada (e della donna comune) è peggiore del disagio che lei prova: “Perché ne ha fatti tanti nella sua situazione?”. È {{il coltello che taglia via quel residuo di autostima grazie al quale lei pensava di potercela fare}}. Anche da sola. Anche se il compagno ha dovuto cacciarlo via per motivi gravi, per le violenze quotidiane che sembravano normalità, finché non ha capito che di violenze vere si trattava. È un coltello che la separa da noi ‘fortunate’.
Osservare da fuori è già in parte discriminare, {{separare da sé}}, pur essendo necessario a volte mettersi al di fuori per poter vedere, per poter aiutare a vedere la propria condizione, che non è l’unica condizione possibile, non è assegnata dal destino.
Questa storia è vera, accade vicino a noi, e non è solo una. Sono tante, ma il pudore delle protagoniste le tiene velate. Eppure alcuni di noi (gli altri) abbiamo occhi anche specialistici, professionali per vedere… mi viene il dubbio che “essere professionale” voglia dire assegnare la pratica a un percorso e metterla poi in una casella delle “evidenze”. Uso il linguaggio amministrativo perché è quello che le protagoniste di queste storie si sentono spesso rivolgere, è il linguaggio che io stessa a volte uso, forse per separare da me un’ “evidenza” insopportabile, se dovessi davvero entrarci. Metto a tacere i sensi di colpa con la sicurezza di aver evaso bene una pratica (sostantivo) avendo fatto il possibile. Ma nella vita pratica (aggettivo) ci sono tempi e azioni diverse. Cose che accadono anche mentre le nostre pratiche-sostantivo giacciono in attesa delle “integrazioni richieste”.
Osservo questa madre, questa donna, questa storia, con il profondo sconforto della mia autostima che vacilla a questo punto, il punto in cui scopro che anch’io scelgo strade facili lasciando gli altri alle loro personali salite. Mi sento stonata in un coro stonato.
{{Lucia Papaleo}}
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