Di nuovo la donna oggetto del diritto, dimenticando la strada del riconoscimento
Nonostante la mobilitazione delle donne italiane, gli appelli, la volontà di partecipare alla costruzione di un futuro democratico di rispetto della dignità della donna e di affermazione della sua libertà di essere padrona
del proprio corpo, ancora una volta società e diritto camminano su strade separate.Nonostante lo scendere in campo anche di noi donne giuriste, nonostante il nostro appello alle Istituzioni “Per Un Impegno Concreto, Per Una Donna Soggetto Di Diritto E Non Oggetto Di Diritti, Per
L’Autoderminazione Femminile”, {{è ancora una volta rimasta inaudita la richiesta di promuovere politiche volte ad accogliere le raccomandazioni avanzate dal Comitato per l’applicazione della Convenzione per l’eliminazione delle discriminazioni contro le donne (Cedaw) e dalle Istituzioni europee}}, così come è rimasta inaudita la richiesta di preventiva concertazione, inevasa per via di un dibattito pressoché inesistente che ha visto lo scarso coinvolgimento dei centri antiviolenza e il totale disinteresse per la consultazione di associazioni di donne, giuriste, operatrici sociali che con il loro lavoro quotidiano cercano di contribuire costantemente all’autodeterminazione delle donne.
Mi riferisco in particolare al {{Disegno di legge 2169 sulle “Misure di sensibilizzazione e prevenzione, nonché repressione dei delitti contro la persona nell’ambito della famiglia, per l’orientamento sessuale,
l’identità di genere ed ogni altra causa di discriminazione”,}} che nel proprio impianto non soddisfa né
valorizza quanto richiesto a livello europeo ed internazionale per l’avanzamento dei diritti delle donne.
A fronte della necessità oggettiva di un intervento legislativo oculato, volto a consentire l’effettiva ed
immediata tutela delle donne vittime di reati contro la persona per motivi di genere, e ad incidere
profondamente sul tessuto sociale, culturale, ed istituzionale, per sradicare le prassi discriminatorie e
consentire il concreto avanzamento dei diritti delle donne, {{il Governo per l’ennesima volta ha scelto di
convenire ad una soluzione legislativa di stampo emergenzialistico, che non contempla tra le proprie priorità
né un intervento organico atto ad incidere concretamente sull’ineguale distribuzione di potere nelle relazioni
tra uomo e donna, né l’immediata ed efficace tutela della donna vittima di violenza}}, quanto più si preoccupa
invece di colpire duramente l’atto femminicida in sé, e non quell’ideologia dalla quale scaturisce, chiudendo
l’occhio su tante altre problematiche di tipo sociale che ostacolano l’effettiva parità tra sessi, ovvero la
fruizione da parte delle donne dei Diritti fondamentali della persona.
Ancora una volta, lo strumento legislativo è servito per decontestualizzare un problema strutturale di
riconoscimento della soggettività della donna e dei suoi diritti fondamentali nei vari ambiti sociali, (alla vita,
alla dignità, ad un’equa retribuzione, alla salute, alla pari considerazione in ambito familiare) per rileggerlo
{{in un’ottica antica, patriarcale, di tutela della donna non “in quanto tale”, ma in quanto moglie, madre,
vittima bisognosa di tutela, col fine ultimo, malcelato, di garantire l’integrità morale e la riconciliazione
dell’unità familiare}}, sovrapponendo in maniera confusionaria e di non facile decifrazione per l’interprete la
disciplina di soggetti diversi, componendo un patchwork nel quale purtroppo si perde il senso originario che
avrebbe dovuto motivare tale intervento.
Auspicando un ampio dibattito sul tema, faccio seguire un breve intervento per evidenziare {{le gravi carenze
del ddl 2169}} e sollecitarne tanto l’eliminazione delle disposizioni che manifestamente confliggono con i
principi di autodeterminazione e riconoscimento della dignità femminile, quanto l’integrazione nelle parti
individuate come carenti, integrazione che dovrebbe seguire ad un dibattito che coinvolga il maggior numero
di soggetti politici e sociali possibile.
{{In particolare si lamenta}}:
a) Il disinteresse verso il contenuto delle Raccomandazioni mosse al Governo dal Comitato per
l’applicazione della Cedaw, evadendo gli obblighi dello Stato membro in base alla Convenzione, in
particolare ostacolando la comprensione non solo dei cittadini ma anche delle Istituzioni sull’effettivo
significato e sulla portata del problema della discriminazione contro le donne, in particolare per via della
mancata traduzione e diffusione tra gli attori pubblici e privati dei Commenti Conclusivi del Comitato per
l’eliminazione delle discriminazioni contro le donne, alla quale avrebbe dovuto seguire adeguato dibattito;
b) la mancata individuazione dell’oggetto, ovvero la mancata introduzione di una definizione di
“discriminazione di genere” e “violenza di genere” sul modello offerto dall’art.1 Cedaw (Raccomandazione n. 19/2005,Comitato per l’Eliminazione delle Discriminazioni contro le Donne )
c) il mancato stanziamento di risorse e la mancata indicazione di fondi cui fare riferimento per promuovere
le misure in oggetto;
d) il totale disinteresse della normativa in oggetto verso le donne migranti, evidenziato dalla mancata
previsione dell’estensione a tutte le vittime di tratta del permesso di soggiorno per motivi di protezione
sociale, ma anche dalla mancata previsione della possibilità di accedere allo status di rifugiato per motivo di
persecuzione correlato al genere (ad.esempio infibulazione), misure anche queste sollecitate dalle
Raccomandazioni n. 31, 32, 35, 36 /2005 del Comitato per l’eliminazione delle discriminazioni contro le
donne, nonché dalla Risoluzione del Parlamento europeo n. 73 del 10/03/05;
e) il totale disinteresse della normativa in oggetto sullo stato di salute ed accesso alla sanità delle donne, in
particolar modo per quanto riguarda incentivi che garantiscano :
– il monitoraggio sul numero di parti cesarei,
– il monitoraggio sulla prevenzione del cancro,
– l’assistenza delle donne anziane,
– l’accesso alla sanità da parte delle donni migranti ed irregolari,
– le politiche di prevenzione della trasmissione dell’Aids.
Aspetti, questi sopra elencati, che non possono prescindere da un testo che ambisce a prevenire ed eliminare
ogni forma di discriminazione.
{{
Si segnala inoltre}}:
a) la mancata previsione, nell’ambito dei principi e strumenti nel sistema dell’istruzione e della formazione
di cui all’art. 2, di educational e professional training obbligatori nel corso di studio e sul posto di lavoro,
rivolti agli operatori, agli educatori ed ai professionisti che nell’esercizio del proprio lavoro si trovano a
dover affrontare casi di discriminazione/violenza di genere ;
b) la mancata previsione di un Codice di Condotta ed Autoregolamentazione dei Media per non diffondere
un’immagine stereotipata della donna, nell’ambito di cui all’art. 4,come auspicato dal Committee for
equality between women and men del Consiglio d’Europa;
c) la mancata previsione, nell’ambito delle Statistiche sulla violenza, di cui all’art. 5, di:
– studi volti a calcolare i “costi della violenza”, già posti in essere nella maggior parte dei Paesi Europei,
– statistiche atte a valutare l’efficacia deterrente delle misure di protezione della vittima,
d) la mancata previsione, nell’ambito del Sistema previdenziale di cui all’art. 6, del riconoscimento in toto
per le lavoratrici pubbliche e private anche precarie, nel caso in cui siano vittime dei reati di cui agli art. 572,
609 bis e 609 octies c.p., del diritto a: indennità di previdenza sociale, riduzione e riorganizzazione
dell’orario di lavoro, mobilità geografica, possibilità di sospensione del lavoro con conservazione del posto
di lavoro;
e) la mancata previsione, nell’ambito del Sistema previdenziale di cui all’art. 6, dell’esenzione totale dal
pagamento degli oneri sociali per le imprese che, durante i periodi di assenza delle lavoratrici vittime di
violenza, assumano, con contratto a tempo determinato, personale che le sostituisca;
f) l’incauta previsione nell’art. 8 di interventi ai fini di ricomposizione familiare, che se indubbiamente
possono considerarsi utili nel caso la vittima sia un minore vittima dei reati di cui all’articolo 8,
indubbiamente si tratta di una infausta trovata del legislatore, lesiva della dignità della donna, se riferita,
come è nell’articolo in oggetto alla lettera c), anche a donne che abbiano subito maltrattamenti in famiglia di
entità tale che per uscirne si siano affidate allo strumento penale. Lo stesso valga per la lettera g) per
l’inserimento in comunità di tipo familiare. Si auspica vivamente su questo punto un netto chiarimento del
legislatore, e si continua a non capire perché, a differenza di tutti gli altri paesi europei, si siano previsti
esclusivamente percorsi di accompagnamento psicologico e reinserimento sociale della vittima, e non li si
siano affiancati alla previsione, su adesione volontaria, a trattamenti personalizzati risocializzanti per
partners violenti, non solo nei casi in cui è percorsa la strada penale;
g) si ritiene che la presentazione a livello locale o da parte dei singoli centri antiviolenza di programmi di
protezione sociale e reinserimento della vittima di cui all’art. 9, potrebbe neutralizzare i diritti della vittima
di cui all’art.8. La possibilità di programmi differenziati localmente o da centro a centro potrebbe infatti
portare ad una eccessiva frammentazione delle procedure ed una scarsa conoscibilità delle stesse da parte
della vittima, che si vedrebbe disorientata, e potrebbe inoltre generare situazioni di tutela
disciminatoriamente diverse a seconda dei fondi, delle strutture e dei mezzi disponibili: il primo diritto della
vittima che è lo stato a dover assicurare è quello di ricevere immediata protezione sociale e ausilio
all’inserimento, altrimenti si disincentiva la denuncia e la fuoriuscita da situazioni di violenza
(Raccomandazione n. 23-31-32/2005, Comitato per l’eliminazione delle discriminazioni contro le donne),
che ad oggi non si è stati in grado di gestire coordinatamente e tempestivamente.
Il problema più generale che sta a monte è che la legge non prevede raccordo tra misure penali,
civilistiche e cautelari per neutralizzare il partner violento, né con la disciplina sull’affidamento dei figli, così
che la donna che vuole uscire tempestivamente da una situazione di violenza si ritrova sperduta tra mille
strade che potrebbe alternativamente percorrere e non si sente abbastanza tutelata da uscire allo scoperto,
questo a fronte del fallimento nel coordinamento tra le varie agenzie di protezione sociale ed il sistema
giudiziario. A tale fallimento è doveroso si faccia fronte a livello nazionale prevedendo una procedura di
assistenza integrata con cui la comunità si faccia carico di far uscire al più presto la vittima dalla situazione
di pericolo, attraverso il coordinamento tra pronto soccorso, operatori sociali, polizia, tribunali, ovvero il
cosiddetto co-operative multiagency approach, da anni funzionante in altri paesi europei, il quale ha il
vantaggio di non far ricadere sulla vittima l’onere dell’informazione e della ricerca di protezione e di
assistenza legale ma, proprio attraverso il coordinamento tra “agenzie”, riesce a fornire immediatamente alla
vittima protezione adeguata ed avvio delle procedure giudiziarie ritenute confacenti al caso, il che
ovviamente non sostituisce ma integra e rende più efficace il lavoro di “prima accoglienza” attualmente
svolto dai centri antiviolenza.
h) la mancata previsione, per i reati di cui al presente ddl, della possibilità di fare richiesta di sequestro
cautelare, onde garantire alla vittima di vedersi concretamente riconosciuto il risarcimento del danno al
termine del processo.
i) si ritiene una retrocessione rispetto alle politiche poste in esse fino ad oggi in materia, per il reato di atti
sessuali con minorenne, il reinserimento della valutazione delle condizioni psicofisiche della vittima quale
elemento per concedere l’attenuante, che potrebbe dare adito, come peraltro già successo, a soluzioni
giurisprudenziali discriminatorie, considerando sempre che si tratta di soggetto minore di quattordici anni o
infraquattordicenne il cui aggressore comunque abusa di una relazione di convivenza o affidamento in stretto
contatto con il minore;
j) si nota che la forma del giudizio immediato potrebbe in taluni casi risultare sfavorevole alla vittima per
via delle carenze investigative dalle quali è connotato e che, in corso di procedimento, potrebbero
riverberarsi in maniera negativa sulle necessità di difesa della vittima;
k) si auspica che la previsione di programmi di riabilitazione per il reo sia connotata da : adesione
volontaria, nessun beneficio penitenziario, programmi personalizzati di reinserimento sociale;
l) si auspica che venga riconosciuta espressamente la possibilità per i centri antiviolenza e le associazioni
femminili e di tutela dei diritti umani di costituirsi in giudizio come parte civile, riconoscendo
simbolicamente in tal modo che un atto di violenza non tocca solo la dignità della singola donna, ma è un
atto che viene sentito come lesivo dell’identità stessa femminile.
{{Ci si auspica quindi che a tali osservazioni faccia seguito ampio dibattito e che possa risultarne un intervento
organico di riforma atto a promuovere l’autodeterminazione della donna in tutti gli ambiti sociali ed a
garantirne in maniera concreta ed uguale per tutte la fuoriuscita immediata da situazioni di violenza ed il
reinserimento sociale}}.
Lascia un commento