Diario da Kabul, dopo la liberazione di Daniele
Dal sito www.articolo21.info/ riproponiamo ampi stralci dell’articolo di Laura Quagliolo, Donne in Nero Milano, sulla drammatica situazione delle donne nella capitale afghana.“Siamo sull’orlo di un precipizio e dietro di noi c’è un leone: se facciamo un passo avanti cadiamo nel baratro, se ne facciamo uno indietro verremo sbranati dal leone”. Questa è la metafora usata dal dottor Mateen, portavoce del partito democratico afghano Hambastagi (Solidarietà), che abbiamo incontrato qualche giorno fa a Kabul, per spiegarci, insieme a Sahar di RAWA (Revolutionary Association of the Women of Afghanistan), qual è la situazione nella quale versa oggi il suo paese.
_ {{Hambstagi}} è un partito laico e antifondamentalista formatosi dopo il 2002; {{non riceve alcun appoggio o finanziamento dall’esterno}}, tanto che ha dovuto {{sospendere le pubblicazioni del foglio quindicinale}} “Rozgaran” e chiudere le sue sedi per mancanza di fondi. _ Hanno solo 2 deputate in un parlamento eletto a suon di brogli e minacce e formato per il 6% da trafficanti di droga, per il 4% da talebani considerati “moderati”, per il 72% da signori della guerra, per il 3% da religiosi conservatori e per il restante 15% da un’opposizione democratica e non implicata in crimini di guerra. Un caso emblematico che illustra il clima interno al parlamento afghano è quello di {{Malalai Joya}}, deputata indipendente eletta a Farah, che dal suo scranno parlamentare continua a denunciare i criminali di guerra e a chiedere giustizia e che per questa ragione il 7 maggio 2006 ha subito un’aggressione fisica nella stessa aula parlamentare e ha ricevuto diverse minacce di morte. […]
Anche {{la recente legge per la riconciliazione nazionale}}, votata quasi all’unanimità, è un’ulteriore dimostrazione della volontà del parlamento. Karzai, pochi giorni fa ha approvato questa legge vergognosa ubbidendo nuovamente ai voleri degli USA e della coalizione, che insistono per una riconciliazione nazionale e una pace di cartapesta, che non assicurerà né pace né giustizia alle migliaia di vittime di trent’anni di guerre, violenze e fondamentalismo. Se gli stati europei volessero davvero aiutare la popolazione afghana, ci dice Mateen, non dovrebbero più sostenere questi criminali e dovrebbero smarcarsi dalle politiche statunitensi. L’uscita delle truppe straniere non è una soluzione, al momento, perché segnerebbe l’inizio di una nuova cruenta guerra civile, da cui il paese non riuscirebbe più a risollevarsi e le deboli forze democratiche che si sono esposte verrebbero spazzate via.
{{La situazione della sicurezza è molto peggiorata}} e l’insorgenza talebana non è la sola causa: l’insicurezza deriva in gran parte dalla politica USA, che sostiene e finanzia i sempre più potenti signori della guerra e della droga, cercando mediazioni tra questi e i talebani per metterli tutti d’accordo, ma anche dalla corruzione dilagante nelle istituzioni e dalla sempre più precaria situazione economica della popolazione.
{{L’insorgenza talebana riceve aiuto dai servizi segreti pachistani}} (ISI) e trae finanziamenti anche dal commercio di oppio; inoltre pare che riceva armi anche dal nord del paese, controllato dai signori della guerra dell’Alleanza del Nord, con complici, come sempre, gli USA. Alcuni insorgenti arrestati al sud sono stati trovati in possesso di tessere dei PRT (Provincial Reconstruction Team, Team di ricostruzione provinciale allestiti dalle forze ISAF).
Chiediamo a Mateen che cosa pensa dell’{{idea, da parte degli stati europei, di acquistare eroina per le nostre industrie farmaceutiche}}: ci risponde che questa sarebbe un’ulteriore grave minaccia per la popolazione afghana. La produzione e il mercato dell’oppio sono in mano ai signori della guerra che grazie a questo progetto verrebbero ulteriormente legittimati. C’è da aggiungere che in Afghanistan, oggi, i dati ufficiali parlano di un milione di persone tossicodipendenti; tra questi 60.000 sono bambini; l’oppio dovrebbe essere riconvertito prima che continui a causare morti.
{{Per risolvere il problema della droga}}, Rawa suggerisce che i governi europei facciano pressioni politiche sul governo afghano e sui signori della guerra affinché rispettino la costituzione afgana che vieta la produzione e il commercio di droghe; chiedono inoltre di contribuire alla ricostruzione della canalizzazione distrutta da 30 anni di guerre perché senza acqua l’oppio diventa un’alternativa perché, pare, ha bisogno di poca acqua per crescere; e chiedono inoltre di incentivare altre colture fornendo sementi diverse ai contadini.
{{Quanto alla conferenza di pace}} che il nostro governo vorrebbe proporre, sia i membri di Hambastagi sia le donne di Rawa ci domandano: tra chi si dovrebbe fare la pace? Chi saranno i protagonisti di questa conferenza? E sottolineano ancora una volta che per l’Afghanistan non ci sarà pace senza giustizia. Hambastagi, Rawa e tutti i democratici con cui abbiamo parlato in questi giorni propongono invece l’istituzione di una conferenza per promuovere i processi internazionali contro i criminali. Se i partiti fondamentalisti sigleranno un accordo tra loro, la popolazione afghana dovrà far fronte a un altro disastro. L’incontro con Hambastagi è avvenuto durante la delegazione annuale organizzata dal CISDA (Coordinamento a Sostegno delle Donne Afghane) a cui ha partecipato anche l’europarlamentare Vittorio Agnoletto.
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Il viaggio è stato, come sempre, ricchissimo di incontri}}: oltre ai portavoce di Hambastagi e alle [donne di Rawa->http://pz.rawa.org/it/index.htm] abbiamo incontrato le donne di [Humanitarian Assistance for the Women and Children of Afghanistan->http://www.hawca.org/] (Hawca), il deputato democratico Ramazan Bashardost, il gruppo di giovani dell’[Afghan Youth Initiative Group->http://www.ayig.org.af/] e siamo stati nella provincia di Nanghahar, dove l’ingegner Basir, anche lui candidato di Hambastagi alle elezioni politiche e capo della minoranza etnica dei pashahi, sta realizzando dei progetti interessantissimi veramente volti al miglioramento delle condizioni di vita della popolazione. Abbiamo anche visitato l’eccezionale ospedale di Emergency, il centro ortopedico della Croce Rossa Internazionale gestito da Alberto Cairo, l’ospedale gestito dalla cooperazione italiana, il carcere femminile transitorio. […]
I nostri pochi giorni di permanenza ci confermano che {{le condizioni di vita della popolazione dal 2001 a oggi non sono quasi per nulla migliorate}}, tranne che per i signori della guerra e della droga e per chi ha trovato lavoro con le ONG straniere. Il cambiamento è rappresentato, nella sola Kabul, da un {{fiorentissimo business del mattone}}, che ha portato in città centri commerciali, alberghi di lusso e ville per ricchi locali (i soliti signori della guerra e trafficanti di oppio) e occidentali, lasciando la popolazione ancora priva di elettricità, di acqua pulita, di lavoro, di scuole e case dignitose.
{{Tutto questo viene denunciato con forza dalle donne di Rawa}}, che continuano a ripeterci che la prima e sola condizione per un cambiamento è la fine dell’impunità per i criminali di guerra, tutti seduti nei posti chiave dell’amministrazione del paese, e una ricostruzione che renda autonoma la popolazione. {{Sono allarmate}}, le donne di Rawa, {{per la legge sull’impunità}} votata alla metà di febbraio a grande maggioranza dal parlamento afgano e firmata da Karzai con qualche piccolo emendamento che non garantisce alle vittime degli abusi e delle violenze di 30 anni di conflitti e guerre civili di vedere seduti in un tribunale al banco degli imputati i loro torturatori. A sostegno della legge, agli inizi di marzo, tutti i partiti fondamentalisti (facenti capo a Sayyaf, Dostum, Rabbani ecc.) hanno organizzato a Kabul una dimostrazione di 20.000 persone (qualcuno ci ha detto che i dimostranti avevano ricevuto un compenso per partecipare alla manifestazione), al grido di “morte ai diritti umani” e “morte a Malalai Joya”.
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Le vittime}}
Grazie a Rawa abbiamo incontrato alcune vittime delle guerre passate.
N., per esempio, è vedova da 25 anni, suo marito è stato ucciso dai fondamentalisti del partito Jamiat-e-Islami (che fa capo a Rabbani, ora deputato in Parlamento) perché serviva da semplice militare nell’esercito afghano al tempo del regime filosovietico ed era stato costretto, come tanti altri, ad allungare il periodo di leva. A quel tempo il suo figlio più grande aveva 4 anni e lei aveva già altri 4 figli, 2 maschi e 2 femmine.
_ Le è toccato crescere da sola i suoi figli da vedova, impresa difficilissima in Afghanistan. Dopo la fine dell’invasione sovietica, i partiti fondamentalisti andati al potere hanno scatenato una cruentissima guerra civile e sempre suo figlio più grande (allora quattordicenne), che a quel tempo lavorava in un’officina meccanica, è stato rapito e torturato da un comandante hazara del partito Hezb-e-Wadat chiamato “Shafi il pazzo”, che controllava l’area in cui vivevano. N. ha cercato suo figlio per due mesi, vendendo tutto ciò che aveva e indebitandosi con parenti e vicini di casa per poterlo riscattare. Quando l’ha trovato suo figlio le ha raccontato che torturavano i prigionieri conficcando loro dei chiodi in testa. E ancora, sotto il regime talebano, lo stesso ragazzo è stato rapito e torturato con la falsa accusa di aver rubato un’automobile.
N., che al tempo dell’assassino del marito aveva solo 24 anni, ci ha raccontato di non essere la sola ad aver sofferto questi soprusi, che migliaia di donne come lei hanno subito la stessa sorte e che non accetterà alcuna riconciliazione o perdono per gli assassini. Vuole che Karzai e il suo governo vadano davanti a un tribunale ed è pronta, insieme a tante altre come lei, ad andare a testimoniare. Sa però di avere bisogno di protezione per lei e per la sua famiglia, perché teme altre ritorsioni e violenze.
_ Incontriamo anche Rahima, un’anziana insegnante di origini borghesi, la cui figlia, anche lei un’insegnante appena sposata, è stata uccisa nel 2001 insieme al marito da una bomba americana. Per questa tragedia non ha ricevuto né scuse né alcun risarcimento dai comandi americani, e sa di non poter avanzare alcuna pretesa. Ma la sua storia non finisce qui: ai tempi della guerra civile tra fazioni fondamentaliste (1992-96) lei e la sua famiglia vivevano in un’area controllata dal comandante uzbeko Dostum (ministro della difesa del governo ad interim e ora consigliere per la difesa di Karzai); a quel tempo nessuno poteva uscire di casa senza essere bersagliato dai razzi sparati dalle milizie di Massoud, avversario di Dostum, e tutti gli abitanti del quartiere vivevano nelle cantine umide delle loro case, mangiando pane raffermo, impossibilitati perfino a seppellire i civili che rimanevano uccisi durante i bombardamenti. Anche lei chiede giustizia, e spera che un giorno verrà aperta una scuola che porta il nome di sua figlia.
{{8 marzo alla sede di Hawca}}
Passiamo l’8 marzo presso la sede di Hawca che, tra le tante attività, gestisce da tre anni un rifugio per donne maltrattate. Sono donne che sono riuscite a sfuggire al loro destino di schiave, torturate dai mariti e dalle famiglie e che Hawca cerca di aiutare a formarsi una nuova vita accogliendole in una casa segreta, dando loro assistenza legale e una formazione professionale.
_ Queste donne hanno chiesto di poter celebrare l’8 marzo con una festa di cui essere protagoniste con le loro poesie e con un uno spettacolo teatrale. A., che avrà 18 anni sì e no, tra le lacrime, ci racconta la sua storia: è rimasta orfana quando aveva 10 anni e i suoi parenti l’hanno venduta come schiava e quinta moglie a un vecchio trafficante di oppio. Sia lei sia il suo bambino venivano obbligati ad assumere eroina. Dopo 5 anni di botte e violenze è riuscita a scappare e da pochi giorni Hawca è riuscita a farle riabbracciare suo figlio; A. ora sta tentanto, con lui, di riuscire a ricostruirsi un futuro diverso.
{{Con le amiche di Rawa}}
Le nostre amiche di Rawa hanno celebrato la festa della donna il 9 marzo, in un albergo alla periferia di Kabul. È stata, come sempre, una cerimonia commovente. Duemila donne e uomini si sono riuniti per sentirsi uniti e forti, hanno condiviso le loro preoccupazioni per il futuro, hanno deciso che, insieme, continueranno a battersi per vedere la democrazia e la laicità nel loro paese, hanno cantato canzoni, recitato poesie, riso per una satira che vedeva come protagonisti i principali signori della guerra, salutato noi sostenitori stranieri (oltre alla delegazione italiana c’erano una delegazione spagnola e una statunitense), con grande calore. […]
{{Il carcere femminile}}
Grazie a un amico afghano riusciamo a visitare anche il carcere transitorio femminile di Kabul. […]
_ Dopo una conversazione con il direttore veniamo portate a visitare le celle e parlare con le donne detenute. Ci sono 6 celle 2 metri per 3 e in ciascuna ci sono 5 brande e ben poco altro spazio per muoversi. In una cella troviamo 4 donne (di cui una incinta all’ottavo mese) e 5 bambini, di cui uno affetto da morbillo. Forse non tutte ci raccontano la verità, ma la maggior parte di queste donne raccontano di essere state accusate ingiustamente di crimini da mariti, datori di lavoro, parenti.
_ Non hanno soldi per pagarsi un avvocato, la maggior parte sono analfabete, e non sanno quale sarà la sorte che le aspetta. In Afghanistan, la parola di un uomo, di fronte alla giustizia, vale il doppio di quella di un uomo. […]
[L’articolo integrale è disponibile sul sito di Articolo 21->http://www.articolo21.info/editoriale.php?id=2264]
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