Discriminare significa anche perdere un po’ di se stessi
{Il biografo non può andare al di là della propria comprensione, al di là della propria autobiografia}
({{Edward Glover}}, psicoanalista inglese)
Tutto quello che accade dentro e fuori di me posso capirlo soltanto attraverso la mia comprensione. Ogni cosa che vedo, che ascolto, che conosco, ogni cosa o persona che voglio descrivere, posso farlo soltanto attraverso la mia comprensione, la mia autobiografia, quindi attraverso la mia esperienza vissuta (il passato), il mio desiderio (il futuro), la mia limitatezza (il presente).
{Il biografo non può andare al di là della propria comprensione, al di là della propria autobiografia}
({{Edward Glover}}, psicoanalista inglese)
Tutto quello che accade dentro e fuori di me posso capirlo soltanto attraverso la mia comprensione. Ogni cosa che vedo, che ascolto, che conosco, ogni cosa o persona che voglio descrivere, posso farlo soltanto attraverso la mia comprensione, la mia autobiografia, quindi attraverso la mia esperienza vissuta (il passato), il mio desiderio (il futuro), la mia limitatezza (il presente).
La {{rabbia che provo per l’ingiustizia}}, per esempio, è un sentimento che ha a che fare con qualcosa di mio, posso condividerlo con gli altri soltanto se qualcosa ci ha accomunato nel campo dell’esperienza, della biografia, nel campo del passato, del presente o del futuro: qualcosa che un giorno ci è accaduta allo stesso modo, e l’abbiamo provata, nel corpo, prima ancora che nella testa. Forse è per questo che possiamo{{ ‘sentire’ l’Altro}}, le sue emozioni, il suo dolore…
Mio figlio qualche giorno fa mi ha rivelato che il suo primo tentativo di “ragionamento logico” (così ha detto!) è avvenuto alla materna: “Mi ero fatto male la mattina a scuola e quando tu sei venuta a prendermi te l’ho detto. Mi chiedevo se tu potevi sentire il dolore che sentivo io mettendo la tua mano sul mio braccio. Non ero sicuro, ma ti ho preso la mano e l’ho messa sul braccio e tu hai detto – forse per assecondarmi – Ahi! Che male…”. Ho risposto che non avevo detto così per assecondarlo ma perché davvero sentivo e sento il suo male, ancora oggi se ha mal di testa sento il suo mal di testa, ho il suo mal di testa. Se è un dolore che conosco, lo sento davvero su di me.
Lo so che non è una magia, lo studiano anche le neuroscienze questo meccanismo, hanno scoperto{{ i “neuroni-specchio”}} e ci sembra una grande forza poter sentire ciò che sente l’Altro, ma io ne sento anche il limite. Dell’Altro io posso sentire soltanto ciò che io conosco, non posso andare al di là della mia comprensione, della mia autobiografia.
L’empatia è dunque anche un limite alla conoscenza. È quella che ci fa dire: “Anch’io ho provato questa sensazione, questa gioia, questo dolore… per questo ti capisco” Ma il ‘come’ l’Altro prova queste cose, come è nuovo il suo dolore per lui, non potrò mai capirlo davvero. Possiamo solo fidarci e pensare che {{la sua libertà di essere altro-da-noi}} non ci permette di capire tutto. E questo è anche ciò che desidero per me: tenere per me quel pizzico di nuovo, di sconosciuto agli altri, dove neanche il più esperto degli analisti può entrare, un posto dove io sono solo io. Un posto che gli altri hanno l’obbligo di rispettare sulla fiducia, e di proteggerlo, come io devo proteggere – e come tutti gli uomini devono proteggere – questo angolino irriducibile, che a volte può anche farci paura.
Un angolino che ci permette di sfuggire alla banalità che l’uomo è soltanto gregario di un gruppo o di un altro, che il suo essere è definito da questa appartenenza.
Dire: è bianco, è nero, è gay, etero, pazzo, savio, sono modi per vedere solo ciò che lega un essere umano a questa o quella categoria. Se è vero che non posso andare al di là della mia comprensione, al di là della mia autobiografia, saprò di lui soltanto ciò che so di me e dunque saprò di me solo, scoprirò in lui, in lei, tutte queste parti di me.
Sarà per questo che discriminiamo? che separiamo? per allontanare da noi quelle parti che non ci piacciono, ma irrimediabilmente vediamo specchiate nell’Altro, allora le allontaniamo da noi insieme al “portatore”, come polvere dai mobili. Ma è un metodo che non funziona: {{la polvere è dentro di noi}}.
Mi conforta però immaginare che tutto quello che abbiamo compreso della diversità dell’Altro, lo abbiamo compreso con la nostra comprensione, cioè con la nostra vita, e che quindi se lo abbiamo allontanato, da qualche parte sia rimasto il rimorso per ciò che abbiamo perso di noi.
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