DONNE E POTERE – IL CORAGGIO DI DIRE CHE IL RE E’ NUDO
Questo articolo fa parte di un dossier sul tema donne e potere pubblicato da Transform Italia e che include anche contributi di Rosa Rinaldi e Nicoletta Pirotta.
Quando Maria Elisabetta Alberti Casellati è stata eletta, prima donna nella storia della Repubblica, presidente del Senato, l’opinione pubblica si è divisa fra: “Ottima notizia, finalmente una donna” e “Pessima notizia, Casellati è tutto fuorché dalla parte delle donne”. Le due affermazioni sono solo apparentemente in contraddizione, perché rispondono in realtà a due domande diverse. Una è: basta essere una donna per fare politiche progressiste? La risposta è evidentemente no, e di esempi ne abbiamo talmente tanti che qualunque tentativo di sostenere ancora una simile tesi essenzialista si scontra con i semplici dati di fatto. E quando i dati smentiscono una ipotesi, è l’ipotesi che va accantonata, non certo i fatti.
Che alcune (ripeto: alcune, non tutte) donne in posizioni di potere mostrino una certa attenzione a questioni a cui molti (anche qui: molti, non tutti gli) uomini non pensano proprio, non ha a che fare con quel cromosoma X in più che ci differenzia dai maschi della nostra specie, ma esclusivamente con il fatto che con ogni probabilità quelle donne hanno vissuto – personalmente o per tramite della storia collettiva del genere a cui appartengono – delle esperienze di discriminazione che le hanno rese più avvertite nei confronti di certe questioni.
Durante il presidio al Campidoglio a sostegno della Casa internazionale delle donne di Roma, ho sentito lo slogan: “Togliete la Raggi, metteteci una donna”. Ecco, care compagne, facciamocene una ragione: Virginia Raggi non è meno donna perché fa politiche contro le donne. Parafrasando Eduardo Galeano, la “bestiola umana” è “fottuta non meno che sacra”, sia nella sua versione femminile che in quella maschile. Certo, quel che dispiace è che le donne al potere non sempre paiono essere consapevoli del fatto che, se esse sono lì a ricoprire quelle cariche, lo devono ai secoli di battaglie dei movimenti delle donne e dunque, fosse anche solo per onorare un debito di riconoscenza, ci si aspetterebbe che esse portassero avanti politiche almeno non in contrasto con i valori e gli obiettivi che quei movimenti hanno sempre portato avanti. Ma è solo un auspicio, un wishful thinking.
Quindi, no. Che una donna occupi una posizione di potere non è in sé una buona notizia per le donne. E però anche sì. Abbiamo forse dimenticato che ci sono state epoche in cui alle donne era vietato per legge ricoprire certe cariche e certi ruoli? Per fare un solo esempio, le donne hanno avuto accesso alla magistratura solo nel 1963. I nostri tanto amati padri costituenti (per fortuna in quel contesto le madri costituenti rappresentarono già un’eccezione) nel corso della discussione in assemblea ribadirono pregiudizi millenari secondo i quali le donne non erano adatte alla “difficile arte del giudicare” per la quale serve “equilibrio” che alle donne difetta “per ragioni fisiologiche”. Che avere la vagina non sia più una discriminante di legge per ricoprire incarichi di questo tipo, in una prospettiva storica, è innegabilmente un’ottima notizia. Pensiamo al diritto di voto, una delle più importanti battaglie del movimento delle donne del Novecento: che le donne possano votare è una indiscutibile buona notizia per le donne, a prescindere da cosa voteranno. Quello di essere giudicate per quello che facciamo (che può essere bello o brutto, progressista o conservatore, più o meno dalla parte delle donne) e non per quello che abbiamo fra le gambe è un diritto per il quale abbiamo combattuto a lungo.
Foglioline e dintorni
Poi c’è chi si ferma qui, e chi vuole andare oltre. C’è chi pensa che arraffare una posizione di potere chiuda la partita della parità e chi pensa che la partita sia soltanto iniziata. Ancora di più: c’è chi ritiene che la parità sia l’obiettivo e chi pensa che essa sia solo una tappa di mezzo – imprescindibile, però – per andare oltre e costruire un mondo più giusto e più equo per tutti. Noi vogliamo andare oltre e continuare a giocare la partita fino in fondo. Chiedendoci, per esempio, perché la consapevolezza di quella storia di discriminazione e della lotta per superarla non sia patrimonio comune di tutte le donne, e perché, anzi, per talune sia un fastidioso fardello. E qui si apre la sterminata prateria della crisi della politica, e della sinistra. Questo interrogativo, infatti, non è molto diverso da quello che si pone quando ci si chiede perché mai molti lavoratori votano per una coalizione che propone una delle misure più regressive e a vantaggio dei ricchi che si possa immaginare, la flat tax. È l’annosa questione di chi vota contro i propri interessi materiali e ha a che fare con il deserto di cultura politica che la sinistra ha lasciato avanzare negli ultimi trent’anni, tema cruciale che ovviamente non possiamo affrontare qui.
Tutti ricorderete le polemiche sorte attorno alla famigerata fotografia dei quattro capi, tutti rigorosamente maschi, di Leu e attorno alle “foglioline” che nel simbolo del loro partito avrebbero dovuto evocare la presenza femminile. Una presenza molto evanescente, bisogna dire, visto che appunto in quella foto di donne in carne e ossa non ce n’era nemmeno una e che se uno il nome del partito lo vuole scrivere o leggere per esteso – “Liberi/e e uguali” – questa presenza femminile non sa bene come e dove metterla. Tutto affidato alle foglioline. E dunque al vento. Ma attenzione: molto poco sarebbe cambiato nella sostanza se, accortisi in tempo della mancanza, anziché disegnare delle foglioline, avessero infilato una donna in quella foto. Perché la domanda che pone quella immagine è: qual è il processo sociale e politico in base al quale nel momento in cui in un movimento progressista, di sinistra, nel quale peraltro le donne sono state molto attive, si coagula il gruppo dirigente le donne “evaporano”? Quel che mi interessa, dunque, non è che quegli uomini facciano “un passo indietro” e si sforzino di trovare delle donne da mettere lì, che sarebbe pura cosmesi (per quanto talvolta anche un po’ di sano e ipocrita maquillage sarebbe apprezzabile). Al contrario, mi chiedo: perché siamo ancora oggi, nel 2018, e persino in ambienti di sinistra, nelle condizioni di doverci “sforzare” di trovare donne che ricoprano ruoli di guida? Perché non accade che i movimenti sociali e politici producano spontaneamente e per precipitato leadership femminili? E questa è una domanda che non ha a che fare con la buona o cattiva volontà dei nostri poveri quattro capi di Leu, ma è una ineludibile questione politica e, se vogliamo, anche sociologica. Non è dunque un problema di quote (che, en passant, possono essere in alcuni contesti degli strumenti utili per catalizzare e velocizzare processi sociali e politici, non certo la panacea di tutti i mali). Quel che ci vorrebbe è una grande inchiesta sulle donne e la politica, che cerchi di indagare scientificamente se è vero per esempio – ed è questa la mia sensazione – che c’è un riflusso delle donne nella vita privata e cosa accade lungo il percorso di impegno politico delle donne che possa spiegare il perché a un certo punto la loro presenza diventi sempre più rada. Una inchiesta che indaghi quali sono gli ostacoli a una loro reale partecipazione, ostacoli che possono ovviamente ben essere rappresentati anche da una politica (ma anche un sistema economico, mediatico ecc) costruita a immagine e somiglianza degli uomini.
Asimmetria di potere e il merito del #metoo
E qui veniamo all’ultimo punto della questione, che forse però è invece il primo. Ossia la strutturale e profondamente radicata asimmetria di potere che tuttora caratterizza, in pressoché tutti i settori, i rapporti fra uomini e donne. Una asimmetria che agisce come una sorta di zavorra che le donne sono costrette a portarsi appresso sempre, e che inevitabilmente le costringe a fare una fatica di gran lunga maggiore degli uomini per fare qualunque cosa. In altri termini, tolti gli ostacoli di legge (conquista imprescindibile, lo rimarchiamo), rimangono talmente tanti e grandi ostacoli culturali e sociali che le donne fanno comunque fatica a occupare quegli spazi che finalmente si sono aperti (anche se ovviamente lo fanno sempre di più e sempre meglio). Insomma, uomini e donne oggi (in Occidente, almeno) si trovano a scalare più o meno la stessa montagna, ma mentre gli uomini lo fanno con uno zainetto leggero e potendo quindi sfruttare al meglio le loro energie, le donne hanno uno zaino grosso e pesante, con il quale devono costantemente combattere. E non sempre ci sono delle colpe specifiche degli uomini, anzi. Il solo fatto di appartenere a una categoria privilegiata, senza alcuna colpa, senza alcun merito, pone persino chi non abbia nessuna intenzione di sfruttare quella posizione in una condizione di privilegio. Una condizione che non dipende dunque dalla buona volontà dei singoli, ma che è destinata a perpetuarsi finché sussistono le condizioni culturali, sociali e politiche che la rendono possibile. Ossia: le singole relazioni binarie non possono, neanche volendo, superare la condizione di asimmetria finché queste non siano superate a livello sociale e politico. Mutatis mutandis, negli Stati Uniti di epoca schiavista, il padrone bianco che non sfruttava lo schiavo nero, persino un ipotetico padrone bianco che avesse scelto di diventare schiavo del suo schiavo nero, sarebbe comunque rimasto il padrone. L’impegno politico per cambiare lo stato di cose esistenti non può dunque essere sostituito con la buona volontà, che serve solo a sistemare (precariamente) la propria coscienza.
È esattamente questa asimmetria di potere la cornice entro la quale va analizzato (e salutato con entusiasmo) il #metoo. Attorno a questo movimento – che non è un movimento politico organico con una precisa strategia, ma quello che a me piace chiamare un’onda sociale nella quale ciascuna si inserisce con la propria storia e la propria sensibilità – si sono coagulate una serie di accuse che spostano completamente il piano del discorso, riducendolo a un problema moralistico di “cosa è consentito e cosa no”. Senza giungere alle volgarità parafasciste e intimidatorie dei toni usati da alcune testate giornalistiche contro le donne che hanno denunciato molestie, sono tanti gli uomini che, in perfetta buona fede, temono che anche solo un complimento possa essere frainteso. Come se la singola relazione possa essere astratta dal contesto sociale e politico in cui essa si concretizza. “Un mondo in cui io possa indossare quel che voglia, dire quel che voglia ed esprimere i miei desideri senza dover temere per la mia sicurezza fisica e per la mia reputazione: questo sarebbe un mondo in cui la sessualità e il piacere femminile si possano davvero esprimere liberamente, e sarebbe il contrario di un mondo puritano”: sono parole di Natalie Portman durante la Women’s march dello scorso 20 gennaio, e rendono molto bene il punto. L’accusa di puritanesimo e sessuofobia, come si capisce, è un’arma di distrazione, che serve solo a distogliere lo sguardo dal punto centrale: che le donne si sono trovate per secoli ad accedere a uno spazio pubblico in cui gli uomini la fanno da padrone, e questo è un imprinting che ci portiamo appresso, a prescindere dalle intenzioni delle singole persone in carne e ossa. Il movimento #metoo ha avuto il grande merito storico di dire, banalmente, che il re è nudo (che è esattamente quello che fanno tutti i movimenti sociali e politici progressisti: svelare le condizioni di ingiustizia in cui le relazioni sociali si sono strutturate fino a quel momento). Ed è stato questo nuovo clima che ha consentito per esempio a molte ragazze di denunciare pubblicamente le molestie che hanno subito a Trento durante il recente raduno degli alpini. Dubito infatti che quest’anno siano accaduti episodi diversi da quel che accade sempre in queste occasioni. Quel che stavolta era diverso è che le donne hanno avuto la forza di dire pubblicamente: cari alpini, non ci stiamo più, noi così non ci divertiamo. Time’s up!
Tags#metoo Donne potere