Donne in guerra, variazioni sul tema
Sono nata in Italia negli anni ’50, quindi in un dopoguerra che già assaporava il gusto dolce/amaro del Boom economico e l’illusione di una emancipazione per tutti, comprese le donne. Della guerra ho saputo tardi, la gente si vergognava di parlarne, ancora più tardi delle donne in guerra, non solo crocerossine … Degli stupri di massa e della fragilità del ruolo delle donne dopo aver visto il film “La ciociara” e “Roma città aperta” … Questa la mia l’introduzione ad una bella lettera inviatami domenica 3 luglio 2022 da Ugo Fanti – “Presidente della Sezione Anpi di Roma Aurelio-Cavalleggeri “Galliano Tabarini” dal titolo: Memoria di guerra: “iamfu”, ovvero le “donne di conforto” e non perdo occasione di segnalare anche un libro sull’argomento – Guerra alle donne. Partigiane, vittime di stupro, «amanti del nemico» 1940-45 di Michela Ponzani (ed Einaudi 2012 – La memoria taciuta delle donne: storie di rivolta contro la cultura della guerra.)
Carissime, Carissimi,
quando si parla della Seconda guerra mondiale il pensiero – anche per noi italiani – corre subito ai tedeschi e alle atrocità compiute dal loro esercito, nonché dalle SS e dalle diverse polizie, Gestapo e SD, con il supporto incondizionato dei più disparati gruppi collaborazionisti: da noi i fascisti della RSI. E certo non consola – alla fine di quella guerra – il Processo di Norimberga (meglio i Processi, ché furono più di uno) che accusò e condannò una parte del gruppo dirigente politico e militare nazista.
Si dirà: – come è stato in effetti detto e scritto: “i processi li fanno i vincitori”. Vero. Ma quello fu un Atto di Giustizia (e la scrivo con la maiuscola) inevitabile e giusto che portò anche alla nascita del Diritto Internazionale dei Diritti Umani, ovvero della pratica concreta della Giustizia Universale, che a tutt’oggi resiste, nonostante sia stata più volte messa in mora (o peggio ignorata scientemente) dall’agire, sempre concreto, (o se preferire dall’inazione) della parte cosiddetta civile del mondo. Vedere – da ultimo – la recentissima vicenda fella “cessione” alla Turchia dei Curdi rifugiati in Svezia e Finlandia, in cambio del SI turco all’entrata di questi due Paesi nella Nato. Ma – come direbbe lo scrittore Carlo Lucarelli ”questa, è un’altra storia”.
Quella di cui, invece, oggi scrivo riguarda un teatro di guerra (sempre la Seconda mondiale) quasi mai esplorato seriamente dal punto di vista della conoscenza, e quasi mai attraverso i film di guerra in cui i vincitori erano gli alleati e i “birilli” della situazione erano i giapponesi (dispregiativo “nippos”) sempre rappresentati come “utili idioti” o peggio appunto come ”brilli”, di un bowling immaginario in cui la palla era sempre saldamente in mano agli alleati. (*) In quegli anni il Giappone era una potenza Imperiale importante che, con la guerra, si impadronì praticamente di tutta l’Asia e vi impose il suo regime dittatoriale e sanguinario, con l’obiettivo imperialista dell’unificazione di tutti i popoli dell’Asia sotto la bandiera del “Sol Levante”. All’interno di questo obiettivo sta intera anche la storia di cui appresso leggerete. Storia poco nota della quale, ancora oggi si registrano strascichi importanti e dolorosi. Tra due nazioni: il Giappone e la Corea del Sud.
Mi riferisco alla storia delle cosiddette “comfort women”, o “donne di conforto”. La locuzione italiana, al pari di quella inglese, è una traduzione del termine giapponese ianfu. Ianfu è un eufemismo che sta per shōfu che significa “prostituta/e”. Le donne di conforto furono, infatti, costrette a far parte di gruppi creati dalle forze militari dell’Impero Giapponese, composti da donne e ragazze schiavizzate per fungere da prostitute. Alcuni Storici giapponesi hanno sostenuto che questi gruppi fossero formati da donne su base volontaria. I documenti relativi, ad esempio, alla Corea del Sud affermano che quella delle “donne di conforto” non fosse una forza volontaria (certezza che vale anche per le donne delle altre nazionalità fatte schiave dai giapponesi) e dal 1989 diverse donne si sono fatte avanti, testimoniando che i soldati giapponesi le avevano rapite.
La stima del numero di donne coinvolte varia, da un minimo di 20.000, cifra complessiva citata dagli accademici giapponesi, ad un massimo di 410.000, cifra citata, invece, dagli studiosi cinesi. Il numero esatto, tuttavia, è ancora oggi argomento di ricerca e dibattito. Ciò di cui si è certi è che queste donne provenissero dalla Corea, dalla Cina, dal Giappone e dalle Filippine. Si sa anche che nei “Centri di Conforto” si sfruttassero donne provenienti anche dalla Thailandia, dal Vietnam, dalla Malesia, da Taiwan, dall’Indonesia e da altri territori occupati dalle truppe nipponiche. Uno Studio olandese ha, ad esempio, segnalato che tra le “donne di conforto” si trovavano anche 300 donne olandesi, rapite dai giapponesi nelle Indie Orientali Olandesi. I “Centri di Conforto” si trovavano in Giappone, in Cina, nelle Filippine, in Indonesia, nella Malesia Britannica, in Thailandia, in Birmania, in Nuova Guinea, a Hong Kong, a Macao e nell’Indocina Francese. Secondo varie testimonianze, le giovani donne dei Paesi sotto il controllo imperiale giapponese venivano prelevate dalle loro case e, in molti casi, ingannate con promesse di lavoro in fabbriche o nell’ambiente della ristorazione. Una volta reclutate, venivano incarcerate nei “Centri di Conforto” e deportate in Paesi a loro stranieri.
Per molti anni dopo la fine della guerra i giapponesi – compreso l’Imperatore Hiro Hito, che per volontà degli americani, tra i quali figurava il Generale Douglas MacArthur, Comandante in Capo delle truppe USA di stanza in Giappone, non era stato incluso nella lista dei criminali di guerra processarti e condannati nel Processo di Tokyo (1946-1948) – non hanno voluto sentir parlare di risarcimenti economici alle “donne di conforto” sopravvissute (soprattutto coreane) né tantomeno di assunzione di responsabilità politica per quanto avevano provocato; un sistematico sfruttamento sessuale di massa con stupri, torture e uccisioni (e decine e decine di suicidi tra le sopravvissute); senza contare la costrizione imposta a molte delle donne di cambiare addirittura il loro nome, trasformandolo in un nome giapponese: un vero e proprio annichilimento della personalità. (**) Il Giappone riteneva di aver risolto la questione “in modo definitivo e irreversibile” con un Accordo bilaterale sottoscritto nel 2015 con la Corea del Sud che aveva originato un Fondo per i risarcimenti di soli 9 milioni di dollari, ma non aveva riconosciuto le violazioni dei diritti umani commesse dal suo esercito e non si era assunto nessuna responsabilità di tipo legale. Così, nel 2016 alcune delle sopravvissute hanno sporto denuncia al tribunale distrettuale centrale di Seul, capitale della Corea del Sud, e hanno chiesto un risarcimento.
Il governo giapponese aveva rivendicato l’immunità che spetta agli Stati, ma di fronte ai crimini di guerra e ai crimini contro l’umanità questa immunità non è stata riconosciuta: dopo decenni, il risarcimento, nel gennaio del 2021, è quindi arrivato, per le pochissime superstiti e per i loro eredi. Nella motivazione della Sentenza si legge che è dovuto loro per “l’estremo dolore fisico e mentale che hanno dovuto subire” per tutta la vita. Certo, può sembrare poca cosa rispetto alle enormi sofferenze patite da quelle donne, ma non lo è quando diventa – come i Processi di Norimberga e Tokyo – simbolica di una vittoria postuma che non è di tipo militare o vendicativo, ma solamente la riaffermazione del fatto che non è possibile restare impuniti, anche a distanza di anni, dopo avere commesso crimini contro l’umanità. Forse è troppo sperare che questa lezione valga anche per l’oggi di guerra che stiamo vivendo, ma la speranza – come si sa e si dice – è sempre l’ultima a morire.
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(*) Tra i tanti film di guerra che hanno per protagonisti gli americani e i giapponesi, solo per due mi sento di consigliare caldamente la visione. Si tratta di “Flags of Our Fathers” e di “Lettere da Iwo Jma”, entrambi del 2006 ed entrambi con la regia di Clint Eastwood. Li trovate in cofanetto e se reggerete ad alcune scene dure, potrete avere un’idea “quasi dal vivo” della crudeltà della guerra.
(**) Durante il cosiddetto “Processo di Tokyo”, (in realtà i Processi furono anche qui più di uno) condotto dal Tribunale Penale Internazionale per l’Estremo Oriente, secondo dati di fonte nipponica, 5.700 giapponesi furono accusati di crimini di guerra di diversa specie. Di Questi 984 sono stati condannati a morte, 475 all’ergastolo, 2.944 a diversi anni di reclusione, 1.019 furono assolti e 279 non furono mai processati.