Quattordici anni dall’ultimo libro di poesie, Soprav(v)ento per le edizioni Gazebo di Firenze, e undici dalla riedizione per Tre lune di Mantova di L’ombra ripresa, il racconto che segue le correnti della memoria e restituisce storie di vita, per arrivare a Incauta solitudine, raccolta delle poesie scritte dal 1999 al 2009, appena uscita da Passigli.Quattro le stazioni di viaggio per chi si avvia a questa lettura: {Notizie dal silenzio, Preghieratea, Allo scoperto, Manomissioni}.
_ Un Introibo annuncia la nuova “invasione” delle parole e lascia subito il posto alla poesia che, nella prima sezione propone, con la modalità e l’efficacia del frammento, lo scenario del presente su cui si immette – mentore Umberto Bellintani compagno “nell’ira dei giusti impietosi” – il fermento della parola che sale, silenziosa e ancora confusa, dal luogo misterioso in cui ha sperimentato accumuli di immagini, vie e fatiche del dire.
_ E’ un’approssimazione alla poesia che verrà dopo, da {Preghieratea} in poi. Un’approssimazione alla grazia. “{Grazia che è Kharis, e carità il suo fascino, kharisma la sua forza soccorritrice, dono che non chiede contraccambio. La grazia è la forza incoativa del canto, il suo annuncio è la voce che non so se segni o renda più assoluto il silenzio. Qualcosa si avvicina che non lascia traccia: ha forse le ali iridescenti di Psiche. L’Inno rintraccia questo segno che non lascia traccia nell’aria, ha sentito aprirsi una mano alla carezza; e forse apre il palmo della propria mano, della mano che cessa di stringere il proprio avere, porgendola al suo destino creaturale}”.
_ Così diceva Piero Bigongiari. (In L’anno di poesia, Jaca Book 1987).

Si entra poco a poco, nella “traccia breve di appartenenza”, nel racconto e, se è vera la lezione di Czeslaw Milosz secondo cui il poeta “non deve cedere alla tentazione del sogno, che ci trascina nel vago, nello sfumato e nel disincanto” (Saluto a Jeanne Hersch, in Tempo e Musica, Baldini Castoldi Dalai 2009, p. 60), qui c’è una inconfutabile prova di lontananza da ogni suggestione onirica. Tutto è vero, vivido, reale, a partire da quel titolo che addita al lettore una solitudine che Elia, in appunti sparsi, chiama “senza qualità”.

Proprio l’evocazione di Musil aiuta ad entrare nel senso di quella solitudine che rifugge definizioni e sfaccettature perché è consapevole della natura dei fatti che accadono, delle imprese che si compiono intorno e ne sa smontare le ovvietà. Il titolo stesso poi scivola altrove, con l’aggettivo “incauta” che rimanda all’assenza di tutele, a un consapevole abbandono a ciò che capita, a un lasciarsi andare, senza prendere precauzioni, tanto la vita è di continuo intercettata dalla casualità e la solitudine non protegge dal caso.

Anche ragione e memoria, evocate dalla prima pagina, seguono le orme, spesso appena visibili, impresse nella complessità della vicenda individuale e collettiva. Non siamo davanti ad una virtuale esposizione di storie o sentimenti o pensieri, ma entriamo in una serie variegata di superfici semantiche, in un intrigo di componenti culturali. Non sono solo letterarie, anche se tante sono le spie di un sapere letterario, dal machiavelliano “ingaglioffa”, alla madreperla “mezza grigia e mezza nera in un campo senza aratri” che strappa Pascoli dalle sue seriose meditazioni, alla “natural burella” di Dante, prefigurazione di un utero materno in cui, alla fine, c’è ansia di tornare e poi “l’allegria di naufragio” quando un evento del corpo, che punge e ferisce la carne, sottrae di forza alla impossibilità della fatica quotidiana e salva paradossalmente un pezzo di vita e altro ancora.

Proprio la varietà dei temi e lo sguardo accorto sulle cose, tutte, personali e politiche, morali e sociali, restituisce, attraverso la contiguità, talora volutamente stridente, del linguaggio con l’ironia, la desolazione e l’impennata lirica, la pietà propria dell’arte che, mentre si sofferma sull’enigma dell’esistenza, trascende il tempo, diventa presente che non passa, nunc stans, o, come dice Hersch, “miniatura d’eternità”.


_ E là, sotto una piccola chele indolore, ho sentito
_ il gradiente e il saliente e
_ il cunicolo per la tana del sole
_ e della sua notte
_ dove si smangiano le parole
_ e anche si ritrovano sperse deserte assetate
_ senza labbra per bere
_ un filo di voce per dire
_ che soltanto paiono morte

e se non nasce la talla
_ daccapo
_ rinverdisce la radice a una carezza

non è morta, la fanciulla dorme p. 75

E chiama dio, grandio, diossanto, signoriddio, con la stessa foga, la stessa tenacia con cui lo chiama Yossl Rakover nel racconto di Zvi Kolitz:
_ “…concedimi Dio, di chiederti ragione…voglio sapere da Te…Ti voglio chiedere…Ti voglio dire… Ti chiedo…Ti avverto…”,

diossanto se accadesse
_ smetterei di pregarti in segreto
_ …
_ mi inchiodi al pensiero di te…
_ diossanto quanto ci ha messo…
_ …
_ da quanto dura questo tuo silenzio astioso…

La parola non fa alcuna concessione alla dolcezza, ma costruisce immagini di intensa forza evocativa:

_ che ancora mi vivo e mi vedo e mi sento
_ in un passo di danza p. 40
_ …
_ ancora batte il tempo e sroda le mani
_ scioglie le dita e una dopo l’altra snocciola falangi
_ falangette e ine ultime e piccoline,
_ … p. 48

Le stesse falangi delle “due dita da succhiare fino alla consunzione” dell’Ombra ripresa e la musica che accompagna danza e canto: aria sulle tre corde, cantabile, cabaletta, cantino, facendo del suono, della musica che “attualizza e riconcilia le contraddizioni inconciliabili del tempo vissuto”, secondo la definizione di Jeanne Hersch (Tempo e musica), il dispiegamento di una vita autonoma a cui il tempo si adegua in modo originale.
_ Era già accaduto, e là come motivo dominante e continuo, in Buffa sonagliera del 1978 e qualche anno prima Cristina Campo aveva sottolineato, a proposito della poesia di William Carlos Williams, la vicinanza tra composizione musicale e composizione poetica, “così sottilmente fluente dall’uno all’altro dei suoi movimenti… musica che ti scorre accanto sulle acque” (C. Campo, Gli imperdonabili, Adelphi, p. 178), facendone un archetipo della bellezza poetica, una sorta di necessità al linguaggio della poesia.

La poesia di Elia è infatti la prova di un dolore sfigurato, scavato fino all’estremo, sulla soglia del deserto, eppure sostenuto in virtù di una musica, non esterna, non di ritmo o di suono, ma di “movimento” appunto, quello che prende avvio dalle viscere e, con “spezzatura” -la facoltà impavida che consente di restare, anche nel dolore, nello scempio, nel desiderio di buio- ricrea la calibrata commistione di coraggio, bellezza e sottrazione:

…una fatica stare col santo
_ per acclamazione e nascondere faccia al vento
_ dell’osanna

Quand’è che si muore abbastanza da non vedere
_ questo mercato nel tempio p. 63

E un attimo prima:

_ c’è quello che c’è
_ quello che c’è basta e avanza
_ … p. 59

E’ la consapevolezza dell’ombra che accompagna la vita, per sempre.
“Si tocca con le mani, la putina, e le sembra che l’ombra si sottragga a ogni presa, rannicchiata in chissà quale punto della sua pelle; l’ombra la tiene prigioniera e non l’abbandonerà mai più.
Mai più.” (L’ombra ripresa, p. 144)
_ La coscienza non abbandonata, non distratta dall’incantamento di un diavolo come era capitato allo Schlemihl di von Chamisso, ritrova le parole.

Ora vai e raccontale tu
_ le tue parole

_ quelle cavate dal gorgo

canteranno p. 105

L’ombra dà senso al pensiero, “dice il vero chi dice ombra”, come suggerisce Paul Celan nell’esergo a Manomissioni, la sezione che è preceduta da una breve prosa in cui Elia ritorna sull’innocenza delle parole, innocenza di spessore, colore e ombra, che è quella di “ciascuno di noi, dal momento che siamo le parole che abbiamo” (p. 71)


_ sottile sconfina
_ la linea d’ombra (Introibo)

che può far paura e indurre a chiedere aiuto:

_ ma se mi prendi sono morta
_ la mia ombra
_ l’ombra mama mi insegue
_ segue me sotto la neve
_ mama portami via o mi prende per sempre- p. 108

o far pesare la sua lontananza:

_ lontana per l’infinita distanza
_ che mi separa dalla mia ombra
_ senza rimedio p. 109

L’unica salvezza, l’unica possibilità di surrogare la lontananza è nel desiderio, non tanto quello ironico e trasognato di Cervantiana, quanto quello più drammatico e doloroso del ritorno nel grembo materno:

e riprendere i tornanti del tuo utero
_ indurito
_ rappreso all’infelicità di tutti
_ per scampare alla pena
_ d’esser viva in questa assenza p.111

La madre, nelle tre poesie che chiudono la raccolta, con tutto il carico della sua forza reale e simbolica, come un’impronta dell’origine, di quella impossibilità di decidere che presiede la nascita, è essa stessa ombra, lato oscuro non illuminato della relazione primaria. Riconduce all’origine, al mistero, a quel diventare due con lo strappo e la violenza della doglia, al riconoscersi donna e prenderne il nome.

[Elia Malagò->http://www.festivaletteratura.it/archivio/schedaautore.php?autid=991], {Incauta solitudine}, Passigli 2010