Da quando, tra gli anni ‘80 e ’90 il gruppo di ricercatori dell’Università di Parma ha scoperto i neuroni specchio in tutto il mondo scientifico si è diffuso un sempre maggiore interesse per le possibili implicazioni di questa scoperta. I neuroni specchio permettono infatti di spiegare fisiologicamente la nostra capacità di porci in relazione con gli altri. In allegato l’invitoQuesti due termini, lo avrete capito già dal titolo, sono “empatia” e “neuroni specchio”. Il primo dei due, che pertiene alla terminologia psicanalitica, in realtà non è affatto nuovo. Il nome deriva dal greco εμπαθεια che, tradotto un po’ liberamente, vuol dire “sentire il dolore altrui dentro di sé”.

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(dal blog di Paolo Maggi) —  Il termine “empatia”, che oggi dilaga in ogni campo della cultura veniva usato già nella Grecia classica per indicare il rapporto emozionale di partecipazione che legava cantore al suo pubblico. Ma il suo ritorno in auge in tempi più recenti è merito delle psicanalisi. Ed è stato utilizzato per la prima volta dagli scuole post-freudiane. Freud infatti riteneva che il medico dovesse mostrarsi emotivamente “neutrale” nei confronti del suo paziente, cioè freddo: non doveva raccogliere per alcun motivo le emozioni trasmesse dal paziente. Gli psicanalisti post-freudiani come Heinz Kohut invece, hanno completamente ribaltato questo concetto, valorizzando molto la capacità di percepire le emozioni trasmesse da un’altra persona. Essi ritenevano infatti che raccogliere le emozioni del paziente fosse uno strumento fondamentale per esplorare il suo animo.

Il concetto di empatia è oggi ampiamente utilizzato dalla medicina in generale, che si serve del processo empatico per favorire il flusso di comunicazione fra il medico ed il suo paziente. E’grazie all’empatia che io riesco ad entrare nella sua anima e, così facendo, riesco a vedere il mondo con i suoi occhi.

Personalmente tuttavia, quando penso all’empatia, penso ad una frase pronunciata dallo psicologo Gustave M. Gilbert che, durante il processo di Norimberga prestava assistenza ai criminali nazisti sotto processo. Quando gli chiesero se, a contatto con quegli uomini che avevano freddamente e lucidamente torturato e sterminato milioni di persone, si fosse fatto un’idea di cosa fosse il male assoluto, la sua risposta fu pressappoco questa: “credo che la natura del male assoluto sia costituita dalla mancanza di empatia”.

Questa mi sembra la migliore definizione che sia mai stata data del male generato dall’uomo. Spesso ci arrovelliamo nel tentativo di definire e di comprendere i meccanismi alla base del dolore che un uomo può infliggere a un suo simile. Forse la spiegazione è racchiusa tutta in quella semplice frase. Chi fa del male non è capace di “sentire” il dolore dell’altra persona. Specularmente, ciascuno di noi sa bene quanto sia difficile levare la mano per colpire un proprio simile se, anche per un attimo ci identifichiamo in lui. Diceva Otto van Bismark: “chi ha guardato negli occhi un soldato morente rifletterà prima di intraprendere una nuova guerra”: Certo questa frase non risuonò neppure un attimo nella mente di Hitler prima di scatenare una guerra genocida, né ha risuonato nella mente dei mille piccoli Hitler che hanno infestato il mondo nei successivi sessant’anni.

Ma è proprio qui il punto: guardare un uomo o una donna  negli occhi vuol dire rispecchiarsi in quello sguardo, riconoscerlo come il proprio. Vuol dire, in altre parole, guardare il mondo con gli occhi di un’altra persona, fosse anche il nostro o la nostra peggiore nemica.

Ci chiediamo a questo punto, esiste un meccanismo nella nostra mente che determina la capacità di specchiarci, di identificarci nell’altr* da noi? E questo meccanismo, se esiste, è già presente nel nostro codice genetico, o è un valore che acquisiamo attraverso la cultura, l’educazione, la religione? Direbbero gli anglosassoni: nature or nurture? La scoperta dei neuroni specchio ha gettato una luce nuova e del tutto inattesa su questa domanda.

I neuroni specchio sono cellule del nostro cervello che si attivano selettivamente, diciamo si “accendono” sia quando compiamo un’azione, sia quando la osserviamo mentre è compiuta da altri. I neuroni dell’osservatore “rispecchiano” quindi ciò che avviene nella mente del soggetto osservato, come se, a compiere l’azione, fosse l’osservatore stesso.

La scoperta dei neuroni specchio è tutta italiana. Negli anni ’80 e ’90 un gruppo di ricercatori dell’Università di Parma si stava dedicando allo studio di una zona della corteccia cerebrale, l’area cosiddetta premotoria. Gli studiosi avevano collocato degli elettrodi nella corteccia di un malcapitato macaco per studiare i movimenti della mano. Durante gli esperimenti registravano il comportamento del cervello della scimmia mentre le si porgeva del cibo. Sembra che, mentre uno sperimentatore colto da improvviso appetito, prendeva una banana dal cesto di frutta preparato per la scimmia, alcuni neuroni dell’animale che osservava la scena avevano reagito. Come poteva essere accaduto questo, se la scimmia era rimasta ferma? Fino ad allora si pensava che quei neuroni si attivassero soltanto se il bipede si muoveva! In un primo momento gli sperimentatori pensarono si trattasse di un guasto nella strumentazione, ma le reazioni si ripetevano ogni volta che il macaco vedeva l’uomo acchiappare il cibo.

Nel 1995 gli stessi scienziati dimostrarono per la prima volta l’esistenza nell’essere umano di un sistema simile a quello trovato nella scimmia. Naturalmente, in questo caso, anziché conficcare elettrodi nel cervello, utilizzarono altre tecniche come la risonanza magnetica funzionale, la stimolazione magnetica transcranica e l’elettroencefalografia. Ma il risultato fu il medesimo: anche la corteccia motoria dell’uomo viene attivata dall’osservazione di azioni altrui comportandosi come se il movimento fosse il proprio.

La scoperta del sistema-specchio ha aperto molte ipotesi teoriche. Questi neuroni sono probabilmente i mediatori della comprensione delle azioni di altre persone e quindi dell’apprendimento attraverso l’imitazione. Ma la capacità del nostro cervello di attivarsi quando percepisce le emozioni altrui rende ogni individuo in grado di agire in base a quella che gli scopritori chiamano “partecipazione empatica”. In parole più semplici, il sistema-specchio potrebbe essere alla base dell’empatia. Se questo è vero, avrebbe ragione Vilayanur S. Ramachandran quando afferma che “I neuroni specchio saranno per la psicologia quello che il DNA è stato per la biologia”.

Ma allora, se l’empatia è un meccanismo legato ai neuroni-specchio, qualcuno potrebbe pensare che, più neuroni-specchio abbiamo nel nostro cervello, più siamo empatici e, se non ci va affatto di essere gentili con il nostro prossimo, poco male in fondo: la colpa non è nostra, ma del destino cinico e baro che non ci ha rifornito a sufficienza di queste preziose cellule. Invece le cose non stanno affatto così. E a chiarirci le idee ci hanno pensato i dati provenienti dalla meditazione dei religiosi più osservati, spiati e studiati nella storia della scienza: i monaci buddisti. Questi uomini pii trascorrono molte ore della loro vita ad allenarsi in esercizi di compassione, in cui, annullando le loro personali pene, preoccupazioni e dolori, si concentrano solo ed esclusivamente sul dolore altrui. Empatia allo stato puro dunque. Vera e propria attività di potenziamento dei neuroni-specchio. Ebbene, studiando il comportamento della loro mente durante questi esercizi, con la risonanza magnetica funzionale, si è osservato come i monaci riescono a concentrare la propria attività in aree specifiche del cervello che risultano, negli anni, suscettibili di un vero e proprio “allenamento”. Dunque il pensiero empatico e, verosimilmente, l’attività dei nostri neuroni-specchio, è un’abilità che può essere allenata. Oppure può essere lasciata dormire. La nostra volontà ha questo potere.

E a proposito della compassione dei monaci buddisti, qualcuno ricorderà il paradosso del sant’uomo che, dopo essersi impegnato in intense meditazioni a sfondo altruistico, incontra un mendicante che gli chiede una ciotola di riso e, invece di sfamarlo, lo riempie di legnate. In realtà il paradosso è solo apparente e serve per sottolineare, soprattutto a vantaggio di noi occidentali, la netta differenza fra beneficienza e com-passione: la beneficienza è un atto magnanimo, certo non disprezzabile, ma che esalta la figura di colui che lo compie e, contemporaneamente traccia un solco invalicabile rispetto a chi lo riceve. La com-passione invece è un processo empatico, di identificazione : io mi specchio nel mio prossimo, mi identifico in lui e, dunque, condivido il dolore che sta provando.

Il sistema-specchio sembra dunque essere alla base dei meccanismi di socializzazione. Riconoscersi in un altro individuo vuol dire accettarlo nella propria vita. Questo ha un valore biologico immenso perché consente la creazione di gruppi omogenei di individui in grado di collaborare fra loro e di costituire un fonte unico contro le avversità. Senza il sistema-specchio probabilmente non esisterebbe la società, ma solo individui isolati, di pessimo carattere e in continua guerra fra loro.

Ma forse il valore del sistema-specchio è ancora più grande: potrebbe trattarsi di un sistema di apprendimento globale. E’facile intuire che i neuroni-specchio, riconoscendo i gesti altrui come propri, consentono l’apprendimento per imitazione. Ma potrebbero essere anche alla base della conoscenza di sé:

può sembrare strano, ma l’uomo non è in grado, da solo, di costruirsi un’immagine del proprio io: noi ci vediamo e ci riconosciamo attraverso l’immagine di noi che gli altri ci rinviano. Se un uomo vivesse tutta la sua esistenza in un’isola deserta, avrebbe spaventosi problemi di identità. Insomma, gli altri sono il nostro specchio. Apprendendo dagli altri, impariamo anche a conoscere noi stessi.