Erasmus: venti anni ma non li dimostra
Il programma comunitario Erasmus è nato nel 1987, allo scopo di favorire la mobilità internazionale degli studenti universitari e dei docenti degli Stati membri dell’Unione europea, incoraggiandoli ad aprirsi al mondo e al diverso da sé e a “pensare europeo”.Nel 1987 furono 3000 gli studenti di un gruppo ristretto di istituti universitari “pilota” che poterono beneficiare di un periodo di soggiorno e studio in un paese europeo diverso da quello di appartenenza.
Oggi il programma coinvolge quasi il 90% degli istituti universitari e di istruzione superiore di tutta Europa e mobilita circa {{140.000 studenti l’anno.}}
Indagini commissionate dalle istituzioni europee rilevano che gli studenti che partecipano al programma dimostrano mediamente più disponibilità a trasferirsi all’estero anche per lavoro, e ottengono in media impieghi migliori e meglio retribuiti.
La mobilità riguarda anche {{docenti e ricercatori}}, e sempre secondo dati pubblicati dalla Commissione europea, sarebbero circa {{20.000 l’anno}} (che corrisponde a poco meno del 2% del corpo docente dell UE) i docenti che beneficiano degli scambi Erasmus. Un piccola curiosità: nella classifica dei “top 20″ istituti universitari di provenienza dei docenti in mobilità non c’è nemmeno un ateneo italiano. Lascio a voi trarne delle conclusioni.
Nel quinquennio 2007-2013 il programma Erasmus è stato inserito in un nuovo e più ampio programma di formazione continua ({{Lifelong Learning Programme}}), che si prefigge di coinvolgere in esperienze di mobilità trasfrontaliera, entro il 2012, più di 3 milioni di studenti appartenenti a 31 stati diversi (i 27 stati membri, la candidata Turchia, e i tre stati associati appartenenti allo “Spazio economico europeo” Islanda, Liechtenstein e Norvegia).
Oltre ad {{Erasmus}} fanno parte del Lifelong Learning Programme:
1. Il programma {{Comenius}}, che mira al coinvolgimento in attività educative congiunte 3 milioni di studenti dei cicli inferiori nei cinque anni del programma.
2. Il programma {{Leonardo da Vinci}}, che mira all’inserimento nel mondo del lavoro di 80.000 individui entro la fine del programma.
3. Il programma {{Grundtvig}}, che mira a favorire la mobilità di almeno 7.000 lavoratori che abbiano seguito corsi di formazione per adulti entro il 2013.
Questo nuovo programma europeo risponde all’esigenza di promuovere la cooperazione tra le università dei diversi stati partecipanti al fine di pervenire entro il 2010 alla creazione di uno Spazio europeo dell’istruzione superiore di 45 membri, in cui l’istruzione superiore sia organizzata secondo un modello comune: laurea di primo livello / master di secondo livello / dottorato di terzo livello.
Più mobilità e maggiore apertura del capitale umano europeo, dunque, al fine di liberarne il potenziale di creatività e innovazione di cui l’Europa ha assoluto bisogno per uscire dalla situazione di stallo in cui si trova (bassi tassi di crescita economica, perdita di competitività delle imprese europee, ecc.), e di dare concretezza alle parole d’ordine dell’agenda di Lisbona, che vorrebbero in Europa più e migliori posti di lavoro, più coesione sociale, più rispetto per gli altri.
Ogni azione volta a incrementare la mobilità internazionale degli studenti e dei docenti italiani andrebbe secondo me sostenuta con ogni mezzo, anche perché è {{mettendo a contatto le nuove generazioni con esperienze e modelli di organizzazione e di comportamento diversi da quelli predominanti nel nostro paese}} che possiamo sperare di veder {{evolvere taluni aspetti di arretratezza}} che tuttora permangono, anche per quanto riguarda l’organizzazione della società, ancora inadatta a una famiglia moderna, in cui entrambi i genitori lavorano a tempo pieno (basti pensare alla scuola dell’obbligo italiana, raramente a tempo pieno, per fare solo un esempio).
Sappiamo da rilevazioni e interviste fatte agli studenti che nella passata applicazione del programma Erasmus gli studenti italiani hanno manifestato critiche su alcuni aspetti specifici al nostro paese (problemi organizzativi, difficoltà a reperire informazioni, scarsità di borse di studio a disposizione, difficoltà a farsi riconoscere i crediti formativi ottenuti all’estero una volta rientrati nell’Università di origine, ecc.), che possono forse spiegare in parte perché vi siano pochi atenei italiani nella parte alta della classifica. Speriamo che tali difficoltà siano superate nel nuovo quinquennio di applicazione e che siano sempre più numerosi gli italiani e le italiane che vanno a vedere come le cose funzionano altrove.
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