Europa: una lunga storia a favore dei diritti delle donne
Relazione introduttiva al convegno organizzato da Noi Rete Donne (Roma, 16 novembre 2011) su “Il potere delle Donne, nell’impresa, nella pubblica amministrazione, nell’economia. Gli orientamenti del Parlamento europeo”.
La scelta delle organizzatrici di [questo incontro->https://www.womenews.net/spip3/ecrire/?exec=articles&id_article=9502] di concentrare l’attenzione sulle Risoluzione del Parlamento europeo (PE) rispetto alle aree menzionate nel titolo è {{singolare ma interessante}}. E’ singolare perche’ ben piu’ rilevanti e di grande impatto sono stati e sono le direttive vincolanti per gli stati membri in materia di parità e i vari programmi politici per le pari opportunità approvati negli ultimi anni dalla Commissione che coprono anche le aree tematiche di questo incontro. E’ tuttavia una scelta interessante sotto vari aspetti, in quanto {{le Risoluzioni non vincolanti del PE}} hanno avuto e possono avere {{rilevanza politica }} soprattutto se sono fatte proprie dagli attori interessati a livello nazionale e, dunque, in questo caso innanzi tutto dalle organizzazioni delle donne. E’ interessante anche in quanto, mai come nell’attuale crisi dell’Unione europea (UE), sono apparsi evidenti i difetti del suo assetto istituzionale e il suo deficit democratico rispetto al quale il PE potrebbe svolgere importanti funzioni correttive a incominciare dalla riforma della legge elettorale e delle modalità di nomina del presidente della Commissione.
Il Parlamento Europeo ha{{ una lunga e importante storia di iniziative a favore della parità e dei diritti delle donne}} che, ad onta delle sue passate ridotte competenze e grazie soprattutto alla sua {{Commissione}} {{Women’s Rights and Equal Opportunities}}, hanno avuto il loro peso nell’affermarsi delle politiche dell’UE. Tanto più importanti le potenzialità politiche del PE oggi, dato che le nuove ampliate competenze iscritte nel Trattato di Lisbona ne fanno un co-legislatore a tutti gli effetti.
Se le politiche dell’UE di promozione delle pari opportunità hanno una storia lunga che parte dal {{Trattato di Roma (1957) e dagli anni ’70}} è, però, {{nella seconda metà degli anni ’90}} che esse assumono centralità, a partire dal {{Trattato di Amsterdam }} che stabilisce il principio dell’integrazione della prospettiva di genere in tutte le politiche comunitarie (artt. 2, 3(2)) e la legittimità delle azioni positive e di vere e proprie quote come mezzo per facilitare l’attività professionale e evitare o compensare svantaggi nelle carriere da parte del sesso sottorappresentato. Ed è in questo stesso periodo che esse assumono{{ centralità all’interno della Strategia europea per l’occupazione (SEO),}} nel quadro dall’ambizioso progetto dell’{{agenda di Lisbona (2000)}} e all’interno della programmazione dei {{Fondi Strutturali 2000-2006}}.
Come è noto infatti alla SEO viene affidato il compito di aumentare i livelli occupazionali nei paesi dell’Unione Europea, riformando mercati del lavoro e modelli sociali e traghettando le società europee verso gli obiettivi occupazionali fissati per il 2010, corrispondenti al 70% della popolazione e al 60% delle donne in età lavorativa (15-64). Conseguentemente nelle {{prime linee guida della SEO,}} decise da governi membri e Commissione europea, la promozione delle pari opportunità tra uomini e donne era prevista come uno dei quattro pilastri basilari su cui fondare i programmi nazionali per le politiche occupazionali. Nelle riformulazioni delle{{ linee guida della SEO }} {{successive al 2003}} si assiste, però, ad una progressiva perdita di rilevanza della dimensione di genere e delle pari di opportunità che permane anche nelle politiche disegnate nella corrente strategia “Europa 2020”, in cui pure si fissa per il 2020 un obiettivo di tasso occupazionale al 75% uguale per uomini e donne in età lavorativa – obiettivo questo tanto ambizioso da far dubitare sulla sua raggiungibilità, in considerazione del non raggiungimento dell’obiettivo che era stato fissato per il 2010 e soprattutto dell’attuale crisi occupazionale.
{{A partire dagli anni ’90}}, anche sotto la spinta propulsiva del PE, la Commissione Europea ha messo in opera tutta una serie di programmi specifici per la parità e la promozione dei diritti delle donne incentivando la costituzione di specifiche reti europee di donne come, ad esempio, la Rete donne e scienza per la promozione delle donne nella ricerca scientifica fino al raggiungimento di una quota minima del 40% di donne ai livelli decisionali dei programmi di ricerca (su questo aspetto anche il PE ha approvato una Risoluzione nel febbraio 2000).
Non sempre bene integrati nel processo disegnato nell’Agenda di Lisbona, questi programmi specifici per la parità delle donne lanciati dalla Commissione e dal Consiglio sono iniziative politiche e soft law che lasciano grande discrezionalità di implementazione ai vari governi. Si va {{dalla Women’s Charter all’European Pact for Gender Equality}}, adottato nel 2006 e rinnovato nel 2011, fino all’attuale {{Strategy for equality between women and men 2010-2015}} che la Commissione ha adottato in continuità con la {{Roadmap }} per l’uguaglianza tra donne e uomini 2006-2010 ribadendone le priorità: la lotta contro la violenza di genere, la promozione dell’uguaglianza nelle azioni esterne dell’UE, la parità retributiva e l’ indipendenza economica nonché l’uguaglianza nel decision-making.
A partire dal {{Programma d’Azione approvato a Pechino}} la promozione della partecipazione equilibrata di uomini e donne nei processi decisionali economici sociali e politici e’ stato oggetto di innumerevoli iniziative delle istituzioni europee, {{dalla Raccomandazione del Consiglio del 1996 alle numerosissime risoluzioni del PE}} che, seguendo a quella del 1994, arrivano fino alle piu’ recenti. Interessante ricordare qui che già nel 2000 la Risoluzione del {{PE on women in decision-making}} raccomandava di promuovere l’equilibrio di genere nel decision making nel settore pubblico come nel privato, nella pubblica amministrazione come in tutti i livelli dell’economia, fissando dove possibile un obiettivo di una presenza nei livelli decisionali del 40% di donne. In queste risoluzioni del PE ritornano idee e indirizzi comuni che ne rappresentano la trama portante e si possono sintetizzare come di seguito.
-La presenza paritaria delle donne nel {{decision –making }} non è solo una condizione necessaria per porre fine alle discriminazioni e alle disuguaglianze di genere, non è solo una questione di equità e giustizia , ma è anche un fattore di efficienza economica e di migliore funzionamento della società e una condizione indispensabile per la democrazia. L’idea centrale è quella di una {{balanced economy/equilibrata nella presenza di uomini e donne nel mercato del lavoro e nell’occupazione come nelle posizioni di decision making in tutti i settori economici e sociali – ricerca, istruzione, sanità, pubblica amministrazione ecc}}.
_ L’idea di fondo è quella di un {{efficiente utilizzo delle risorse umane e del potenziale delle donne indispensabile per la crescita economica dell’Europa,}} in particolare come economia sostenibile basata sulla conoscenza. Se si vuole rilanciare la languente crescita economica dell’Europa si tratta di {{puntare su settori ad alto valore aggiunto e alta professionalità }} e, dunque, sul raggiungimento dell’obiettivo di una spesa per la ricerca del 3% del PIL degli stati membri e di un conseguente aumento del numero di ricercatori di circa 700.000 unità, obiettivi, questi, irraggiungibili senza la piena mobilitazione delle risorse umane e professionali delle donne che rappresentano in Europa il 60% dei laureati e piu’ del 45% dei Phd, ma solo il 30% sul totale dei ricercatori e il 18 % dei ricercatori senior. La piena utilizzazione del potenziale produttivo della risorsa “donne” è quindi una chiave centrale per la ripresa della competitività dell’economia europea e la modernizzazione del sistema sociale europeo.
-{{La nozione di quote per il sesso sottorappresentato}},secondo l’art.141 TCE e le interpretazioni della CGE, è quella di {{misura temporanea adottata volontariamente o obbligatoriamente per via legislativa}}. Le discriminazioni positive devono rispettare i criteri della parità dei meriti tra concorrenti uomini e donne, della temporaneità relativa al conseguimento dell’obiettivo del riequilibrio della presenza del sesso sottorappresentato e del non automatismo tramite la previsione di deroghe che permettano la valutazione di situazioni personali giuridicamente rilevanti dei candidati del sesso sovrarappresentanto ( ad esempio, handicap del candidato). Si raccomanda pure che misure di custodia dei bambini, orari flessibili o congedi parentali non dovrebbero essere considerati come forme di azioni positive a favore delle donne bensì come misure disponibili a vantaggio di entrambi i sessi.
-Dovrebbe essere applicata {{una strategia duale }} che in aggiunta alle azioni positive e alle quote applichi la strategia di lungo respiro di gender mainstreaming che comporta a tutti i livelli programmi politici di trasformazione della società.
-{{Le azioni positive e le quote sono solo uno degli strumenti per combattere le disuguaglianze di genere}}, di per sé assolutamente insufficiente se non accompagnato, in tutti i campi, da politiche promozionali e di rimozione degli ostacoli di fatto che le donne incontrano nella piena partecipazione a tutti i livelli di decision making e nella piena realizzazione delle potenzialità professionali: ad esempio, misure di formazione specifica per le donne per facilitarne l’accesso a posti di responsabilità; altre forme di sostegno come misure di mentoring e organizzazione di reti specifiche; organizzazione del lavoro e dei relativi tempi in modo flessibile per massimizzare il contributo delle donne; promozione della responsabilità sociale delle imprese anche nel predisporre adeguati servizi di cura per bambini anziani e altre persone dipendenti; misure di sensibilizzazione all’importanza delle pari opportunità uomo-donna in ministeri, PA, enti pubblici, imprese, organizzazioni datoriali, sindacati; politiche sindacali per promuovere una crescente rappresentanza delle donne anche a livello di impresa; misure per cambiare la cultura tradizionale di impresa e di organizzazione del lavoro; misure per orientare le giovani donne verso gli studi scientifici e tecnologici; promozione tramite la scuola, la famiglia e i media di modi nuovi modi di pensare i ruoli sociali di uomini e donne e valorizzazione delle leadership femminili ecc.
Fin dal ‘96 il PE s’e’ specificamente occupato dell’attuazione delle {{pari opportunità per gli uomini e le donne nella funzione pubblica}}. Questa sua Risoluzione del 15 novembre 1996,considerando che le donne, pur rappresentando una proporzione elevata dei dipendenti della funzione pubblica e, in taluni Stati membri, oltre la metà del personale, erano fortemente sottorappresentate nelle funzioni decisionali e considerando che il settore pubblico ha la potenzialità di svolgere un ruolo catalizzatore e di modello per lo sviluppo delle pari opportunità anche nel settore privato, sollecita gli Stati membri a istituire piani annuali per le pari opportunità, ad applicare sanzioni a enti pubblici e ministeri che non li attuino, a fissare obiettivi quantificati per il numero di donne da nominare a incarichi decisionali entro una determinata scadenza in ogni settore e a introdurre sistemi di quote basati su una percentuale minima per ogni sesso. Invita inoltre gli Stati a stabilire misure di incoraggiamento della pari rappresentanza nei comitati di selezione, promozione e assunzione, a promuovere la rivalutazione dei profili professionali eliminando forme di discriminazione indiretta anche nei livelli retributivi e a incentivare la valorizzazione del merito, piu’ che dell’anzianità, nelle promozioni e carriere nella pubblica amministrazione. Invita infine la Commissione Europea a presentare un progetto di direttiva che obblighi gli Stati membri ad adottare leggi sulla parità nella funzione pubblica nel senso indicato dalla Risoluzione stessa – direttiva che però fino ad oggi non ha mai visto la luce. In Italia il Decreto legislativo 196/2000 all’art.7.5 ha previsto Piani di azioni positive del tipo disegnato in questa Risoluzione, anche se questi piani sono stati raramente applicati nella pratica.
Secondo {{uno studio pubblicato dalla Commissione nel 2010}} ai primi due livelli dirigenziali nella pubblica amministrazione nei paesi europei il rapporto uomini/donne è di 2 a 1 ed anche negli uffici della stessa Commissione europea gli uomini costituiscono l’ 81% dei primi due livelli dirigenziali. Tuttavia la presenza nel 2009 del 31,7% di donne nei primi due livelli dirigenziali della Funzione Pubblica (media dell’UE27) rappresenta un notevole progresso ed un aumento di quasi 7 punti percentuali rispetto alla media del 24,8% dell’UE27 del 2003. Questo aumento andrebbe analizzato in quanto avvenuto contemporaneamente ai drastici tagli alla spesa per la funzione pubblica avvenuti in tutti i paesi dell’UE e sollecita il sospetto che anche ai livelli dirigenziali l’avanzata delle donne si accompagni ad una riduzione delle retribuzioni in aggiunta ai tagli occupazionali e retributivi avvenuti ai livelli professionali più bassi.
{{Rispetto alla leadership delle donne nell’economia }} il PE ha nel luglio 2011 approvato una specifica Risoluzione (European Parliament resolution on women and business leadership ). Vari fattori hanno contribuito all’approvazione di questa Risoluzione. La crisi economica innescata dal settore finanziario è apparsa come un’opportunità favorevole per indirizzare i riflettori sulla dimensione monosessuata /maschile del decision-making in questo settore e sottoporre a critica aspetti della sua cultura maschilista. Non solo è emersa con forza l’impossibilità per il personale ai massimi livelli di direzione nel settore finanziario di conciliare le responsabilità professionali con quelle familiari, ma si è anche sottolineato sulla base di una ricerca comparativa tra banche francesi –su un campione, a dire il vero, troppo minuscolo per essere veramente rappresentativo – che il rendimento delle banche con una buona presenza femminile a livelli dirigenziali era migliore di quelle più maschiliste nel loro top management. Interviste alle poche dirigenti di banca nella city di Londra ,ad esempio, hanno riscontrato che la metà di loro non ha figli, mentre nell’altra metà circa ¼ dispone di un partner che svolge il ruolo di care giver primario. La cultura maschilista, piu’ predisposta al rischio rispetto ad un piu’ oculato management femminile, sarebbe secondo alcune ricerche un fattore in piu’ a favore di una maggiore presenza delle donne nel decisionmaking delle banche, che potrebbe ridurre o evitare i rischi di fallimento. Il condizionale è d’obbligo rispetto a questo tema, in quanto non c’e’ ovviamente evidenza empirica e si può segnalare che Lehman Brothers aveva al suo interno una non insignificante politica di genere e di pari opportunità. Altro fattore che ha contribuito a spingere il PE ad approvare la Risoluzione è certamente{{ l’esperienza norvegese}} che, grazie soprattutto alla obbligatorietà stabilita per legge di quote che vedano un minimo del 40% di donne nei consigli d’amministrazione delle imprese con piu’ di 500 dipendenti , ha oggi persino superato l’obiettivo minimale.
Anche altri stati hanno approvato, prima ancora della Risoluzione del PE, sistemi di quote di questo tipo. {{In Spagna la ley del Igualdad del 2007}} ha introdotto l’obbligo per le imprese con piu’ di 250 dipendenti di raggiungere il 40% di donne nei CDA entro 2015, mentre anche {{la Francia e l’Olanda}} e si sono avviate a stabilire quote vincolanti e {{la legge di recente approvata in Italia}} stabilisce che i CDA delle aziende quotate in borsa dovranno esser composti per 1/5 di donne a partire dal 2012 per salire al 30% nel 2015. In Germania invece si è finora adottato un sistema di quote volontarie nei CDA (si veda ad esempio Deutsche Telecom e Siemens).
Nonostante le iniziative in vari stati membri e nonostante da più parti si ribadisca come un buon equilibrio di genere ai livelli dirigenziali sia positivo per la competitività delle imprese,{{ i progressi in questo senso sono stati estremamente lenti,}} sicché si calcola che siano {{necessari 50 anni prima che i CDA delle imprese europee quotate vedano una percentuale minima del 40% di ciascun genere}}. Nel 2009 nelle maggiori imprese europee quotate in borsa gli uomini rappresentano l’89% dei membri dei CDA, nonostante il numero di donne laureate in business, management e legge nella media dei paesi membri superi quello degli uomini. Anche negli organismi dirigenziali delle organizzazioni datoriali le donne risultano essere una minoranza del 12% nella media UE27, come del resto anche nelle direzioni sindacali (meno del 23%).
Da qui muove la Risoluzione del PE che {{richiede che gli stati membri prendano misure per assicurare la soglia critica del 30% di presenza femminile nei Consigli d’Amministrazione per il 2015 e del 40% entro il 2020.}} Inoltre il PE richiede che, qualora le misure adottate dagli stati membri risultino inadeguate, la Commissione si impegni a proporre una legislazione in materia che preveda quote volontarie e/o obbligatorie per raggiungere gli obiettivi suddetti.
Ma {{la crisi in corso non è stata solo un’opportunità per evidenziare i difetti e i limiti della cultura maschilista nel management finanziario e delle imprese}} ché , purtroppo, è stata soprattutto una congiuntura che ha aggravato disoccupazione inattività precarietà e povertà, in maggior misura tra le donne che tra gli uomini. Da qui muovono una serie di Risoluzioni del PE che si occupano di questi aspetti.
Le Risoluzioni adottate dal PE muovono nella direzione di {{raccomandare un’applicazione equilibrata di flessibilità e sicurezza,}} deplorando l’approccio riduttivo del Consiglio, della Commissione e degli Stati sbilanciato a favore della promozione della flessibilità, tanto più alla luce del rischio che, in risposta alla recessione, si sostituiscano lavori regolari con occupazioni precarie.
Nella {{Risoluzione del 19 Ottobre 2010}} sulle lavoratrici precarie il PE sottolinea la “natura di genere” dei lavori precari e l’impatto diverso su donne e uomini della flessicurezza che sta rischiando di rafforzare i ruoli di genere a causa della sovrarappresentazione delle donne nel part-time, specie involontario, e in altri lavori atipici. Mentre raccomanda lo sviluppo dei servizi di cura in modo che il lavoro part-time possa essere una scelta e non una costrizione e sottolinea la necessità di garantire alle lavoratrici precarie una retribuzione decente, il PE chiede alla Commissione e agli Stati di adottare delle misure legislative che introducano standard minimi vincolanti di protezione sociale per tutti i lavoratori e le lavoratrici indipendentemente dalle condizioni di impiego e, in particolare, garantiscano congedi e indennità di maternità a tutte le lavoratrici a prescindere dal tipo di contratto. Chiede inoltre alla Commissione e agli Stati di adottare {{una legislazione che regolamenti lo status giuridico e sociale dei lavoratori stagionali (a maggioranza donne) }} garantendo loro la copertura previdenziale e chiede in particolare agli Stati di adottare misure per porre fine ai contratti a zero-hour che sono comuni nei lavori tipicamente occupati dalle donne.
{{Sul lavoro domestico e di cura}} – la quintessenza del lavoro precario femminile – il PE, ponendosi nel solco delle istanze da tempo emerse a livello internazionale per la professionalizzazione e la protezione sociale di questo tipo di lavoro, ha approvato {{nel maggio 2011 una Risoluzione}} che invita gli Stati membri alla rapida ratifica e implementazione della Convenzione dell’OIL sulla materia. La Risoluzione chiede agli Stati membri di assicurare che questo tipo di lavori precari siano trasformati il più possibile in lavori decenti e ben pagati e di sviluppare una campagna per la graduale trasformazione delle lavoratrici precarie in regolari, garantendo tutti i diritti che spettano nei lavori standard e protezione contro gli abusi e le molestie. La Convenzione adottata dall’OIL nel giugno 2011 prevede la regolamentazione del lavoro domestico e fa riferimento ad un modello di contratto che specifichi orario modalità e quantità di lavoro e affronti la questione del vitto e dell’alloggio di chi vive presso il datore di lavoro allo scopo di cercare di arginare la pratica del pagamento in natura. La Risoluzione del PE non affronta, però, direttamente l’annoso problema della protezione della sicurezza e della salute delle lavoratrici domestiche su cui pure in passato il PE era intervenuto chiedendo alla Commissione di avanzare delle proposte, in quanto la legislazione comunitaria sulla sicurezza e la salute sul lavoro esclude esattamente i lavori domestici dal suo campo d’applicazione (direttiva quadro 89/391/CEE).
Nell’ottobre 2010, partendo dal constatazione che alcuni Stati membri come l’Italia la Grecia e l’Ungheria non garantiscono nessun tipo di reddito minimo e hanno completamente ignorato la Raccomandazione (92/441/CEE) del Consiglio che fin dal 1992 ne raccomandava l’introduzione, il PE ha approvato {{una Risoluzione sul ruolo del reddito minimo nella lotta contro la povertà e la promozione di una società inclusiva}}. La Risoluzione, prendendo le mosse anche dalla constatazione dell’inadeguatezza di alcuni sistemi nazionali di reddito minimo e richiamando l’art.34.3 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE che riconosce il diritto all’assistenza sociale e abitativa, afferma che il reddito minimo garantito è da intendersi come diritto fondamentale della persona ad una vita dignitosa, come riconosciuto anche nella Raccomandazione del Consiglio del 1992. Mentre ribadisce la necessità di integrare la prospettiva di genere in tutte le politiche di inclusione sociale, il PE raccomanda l’introduzione di regimi di reddito minimo adeguati non solo all’assistenza, ma anche a garantire le condizioni dell’effettiva partecipazione alla vita culturale, politica e sociale dello spazio comunitario. A questo scopo chiede alla Commissione di adottare una legge quadro europea per la previsione di un reddito minimo garantito e di elaborare un piano d’azione per accompagnarne l’attuazione negli Stati membri. Queste richieste del PE sono, tuttavia, {{destinate a cadere nel vuoto}} in quanto la Commissione ha negato qualsiasi intenzione di prendere in considerazione l’introduzione di una direttiva quadro sul reddito minimo o un piano d’azione specifico, data la mancanza di sostegno a queste iniziative da parte della maggioranza dei governi membri che, in nome della sussidiarietà, difendono l’esclusiva competenza nazionale sulla materia.
Nella Risoluzione dell’8 Marzo 2011 specificamente dedicata a gli {{aspetti della povertà femminile nell’Unione Europea i}}l PE è , però, tornato a chiedere al Consiglio e alla Commissione di prendere in considerazione il ruolo del reddito minimo nella lotta contro la povertà. Dato che la crisi ha aggravato la povertà femminile, il PE chiede agli Stati membri di evitare che i piani di ripresa economica si concentrino principalmente sui posti di lavoro a prevalenza maschile e di intervenire rispetto alla sovrarappresentazione delle donne nell’occupazione precaria, che è all’origine dell’accresciuta presenza femminile tra i lavoratori poveri. Il PE invita poi la Commissione e gli Stati membri a garantire un’adeguata copertura sociale per le donne e gli uomini che si occupano della cura di persone dipendenti, nonché la piena retribuzione durante il congedo di maternità obbligatorio, come previsto nella sua proposta di revisione della direttiva del 1992 che, però, il Consiglio non ha approvato. Invita, infine, la Commissione e gli Stati membri a prendere le misure necessarie per la riduzione del divario retributivo di genere che è oggi al 18% e ribadisce la richiesta, già invano avanzata nel 2008, che la Commissione presenti una proposta di direttiva di revisione della normativa esistente sulla parità retributiva. La Risoluzione del PE del 2008, che chiedeva alla Commissione di proporre una nuova direttiva sulla parità retributiva adeguata alle evoluzioni giuridiche e sociali avvenute nei 40 anni che ci separano dalla direttiva del 1975, contiene raccomandazioni dettagliate alla Commissione rispetto ai molti aspetti che convergono a causare il gap retributivo e alle misure politiche di contrasto (classificazione delle professioni e valutazione dei lavori, trasparenza degli elementi delle retribuzioni, ruolo del dialogo sociale e degli organismi di parità, rafforzamento dell’apparato sanzionatorio rispetto alle discriminazioni).
Queste proposte del PE non hanno avuto {{alcun seguito nella legislazione vincolante }} né hanno dato luogo a proposte legislative della Commissione, mentre siamo in attesa di vedere se ci sarà effettivamente una proposta di direttiva vincolante nel 2012 sulle quote nei consigli d’amministrazione.
{{Brevi considerazioni conclusive e critiche }}
Deve essere innanzi tutto chiaro che questa relazione non disegna un profilo generale rispetto alle politiche di parità dell’UE, in quanto vi si tratta solo di alcune Risoluzione del PE in alcune aree e non certo dell’insieme delle politiche europee di parità, né delle ben più efficaci direttive in materia, né dei ben più rilevanti programmi politici della Commissione, né delle politiche di importanza cruciale in materia di pari opportunità nella SEO. Come profilo d’insieme si può solo accennare al fatto che le politiche di parità dell’UE hanno positivamente e fortemente contribuito a mettere a fuoco negli stati membri e presso le relative opinioni pubbliche l’importanza delle politiche per promuovere i diritti delle donne e l’uguaglianza di genere come fattore essenziale all’efficienza economica e ad un migliore e moderno funzionamento della società, oltre che come pilastro della democrazia e principio di giustizia. Né si può accennare in questo contesto alle molte ragioni di criticità di queste politiche, non ultimo il fatto che le politiche di pari opportunità hanno mirato a sviluppare l’occupazione femminile a scapito spesso della qualità dei lavori e dei diritti e che le politiche di flessicurezza, disegnate dalla Commissione Europea, oltre ad essere sbilanciate più verso la flessibilità che verso la sicurezza, hanno lasciato in ombra la prospettiva di genere, come ricordato anche in una Risoluzione del PE.
Deve essere inoltre sottolineato che{{ le Risoluzioni del PE non sono vincolanti per gli stati membri}} e che, come s’e’ visto in più di un’occasione, le loro richieste alla Commissione di avanzare proposte di legislazione vincolante sono cadute nel vuoto. Anche nelle politiche di pari opportunità da tempo si è assistito a un declino della legislazione vincolante che invece in passato aveva rappresentato un efficace e progressivo intervento da parte dell’UE. Le Risoluzioni del PE hanno tuttavia valore politico e possono svolgere un ruolo importante in quanto contributo potenzialmente trainante delle altre istituzioni europee e in quanto al potenziale impatto sui parlamenti nazionali, nonché come riferimento nel dibattito pubblico per eventuali mobilitazioni delle reti della società civile, dei cittadini e delle cittadine europei. Esse possono essere anche utilizzate come testi-base per avanzare proposte di leggi d’iniziativa popolare alla Commissione Europea mediante la raccolta di un milione di firme, possibilità questa di cui disporranno i cittadini e le cittadine europei a partire dal 2012.
Deve essere ancora ricordato che, come emerso nell’infinito dibattito che ha ovunque accompagnato la vexata questio delle quote, queste ultime non possono certo essere in sé stesse una garanzia di una diversa qualità politica o di management o di governance, qualità che dipende ovviamente anche da altri fattori oltre che dalla differenza di genere.
{{Last but not least}}, la presenza equilibrata dei generi e, dunque, delle donne come CEO e come membri dei Consigli d’Amministrazione di banche e imprese quotate in borsa o nei livelli decisionali delle organizzazioni datoriali, rappresenta sicuramente una giusta valorizzazione e una migliore utilizzazione delle risorse umane e professionali delle donne e un aspetto di più estesa democrazia. Veicolando un’immagine vincente e un ruolo autorevole delle donne essa può avere un impatto positivo anche sulle donne appartenenti ad altri ambienti professionali e sociali non altrettanto privilegiati, cosi’ come ha una potenzialità benefica anche per le lavoratrici che potranno in alcuni casi essere sostenute e valorizzate da parte di dirigenti dello stesso genere.
Ma {{cosa succede}} se le donne nei CDA delle imprese o dirigenti delle organizzazioni datoriali chiedono politiche di maggiore facilità di licenziamento per uomini e donne, di erosione dei diritti del lavoro, o di svuotamento del contratto nazionale che lascia la grande parte delle lavoratrici delle piccole imprese in una maggiore debolezza negoziale? Che cosa succede se il maggior numero di donne nei CDA impone politiche che danneggiano le loro stesse lavoratrici dipendenti?
Che cosa succede se le donne dirigenti di banche s’avventurano in speculazioni a danno dei loro clienti uomini e donne?
Nella situazione attuale non mi pare che si possa più eludere all’interno dei movimenti delle donne{{ la questione delle differenze di interessi e dei conflitti sociali}} che, oggi molto piu’ che in passato, attraversano le donne.
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