“Fare pace”: i “perché” di un incontro
Nell’incontro “Fare pace”, svoltosi a Mantova a cura delle “Donne degli Horti” e del Gruppo7-donne di pace, è stata raccolta una serie di “perché?”, riflessioni che hanno accompagnato la partecipazione di alcune delle presenti.
PERCHE’?
Come vivere la cittadinanza dopo la pensione (meglio: come sentirsi ancora cittadine e non solo pensionate?) Per me e Annamaria il lavoro è stato spesso un lavoro “politico”, inteso anzitutto come un mezzo al servizio della comunità, lavoro attraverso il quale abbiamo condiviso pratiche e metodi che ci hanno fatto diventare sempre più consapevoli della necessità dell’ascolto e del dialogo.
Ma oggi, in questa nuova fase della nostra vita? Per quale comunità, con chi e con quali parole parliamo?
Gli incontri promossi dal Gruppo7-Donne per la pace a partire dalla sollecitazione-richiesta di Floriana Lipparini, oltre alla consuetudine e alla vicinanza stretta con alcune di voi, ci sono sembrati un’occasione irrinunciabile per ripensare al mondo che ci circonda con sguardi e pratiche condivise e per provare a ridare un significato contemporaneo e “politico” al nostro essere cittadine – non più “in produzione”-, e tuttavia ancora attive e produttive. E per questo noi oggi siamo qui.
Nicoletta Azzi, Annamaria Mortari
Tutto è cambiato dall’adesione all’appello di Lipparini. Dall’inizio dell’anno (circa) mi sento schiacciata tra terrorismo e drammi dell’immigrazione.
Resi inutilizzabili gli strumenti della non violenza, ho silenzio dentro di me, vorrei stare in ascolto di chi fa qualcosa, di come si sente. Credo che l’ascolto dia occasione a chi parla di costruire il senso di quello che sta facendo, di mettere ordine, di distillarne sapienza; è anche un modo di dare riconoscimento e autorevolezza, reciprocamente fra chi dice e chi ascolta.
Mi sento anche una nuova responsabilità -insomma, non nuovissima- , di essere nonna per la pace: cosa faccio e lascio a mia nipote?
A suo tempo avevo selezionato dall’intervista di Monti ad Anna Bravo, questo passo: ve lo propongo per dire che cerco esempi per la vita ordinaria, tenendo presente che sento di aver consumato, forse fino all’esaurimento, nella mia vita lavorativa e familiare, qualità -piccole virtù?- come la pazienza, la generosità gratuita, la bontà, l’accudimento, eccetera eccetera.
Il terrorismo impone una totale o parziale clandestinità, non concepisce il negoziato, propaganda il culto della morte, compresa la propria, ricrea il nemico assoluto con cui non si deve scambiare parola. Dunque sfida gli strumenti elettivi della nonviolenza – l’esempio, l’educazione, la potenza simbolica dell’inermità, la costruzione della fiducia reciproca, che richiedono tutti una prossimità fisica e mentale fra i contendenti.
Avere nel proprio DNA e nella propria genealogia anche esempi come quelli che ho cercato di raccogliere nel libro aiuterebbe a riportare molto di più i principi alla vita ordinaria. A mutuarli in forme di resistenza al male, coerenti ai tempi e alle dinamiche che stiamo vivendo.[“gli asini”,n.19]
Fernanda Goffetti
Nel 1975, prima, e alla fine degli anni ottanta, poi, il femminismo ha impresso svolte radicali alla mia vita, soprattutto per quanto riguardava i temi della pace e della guerra e il mio approccio a storia e storiografia –temi tra loro meno distanti di quanto possa apparire-. Molte delle donne che in quegli anni hanno condiviso parti importanti del mio percorso sono qui, e questo è già un valore.
Quando l’estate scorsa si è fatto, anche in Italia, irrespirabile il clima di guerra -anche solo per gli echi che arrivavano dal Medioriente e dall’Africa- ho sognato un luogo di donne ( ma forse non solo) in cui riprendere il ragionamento sulla pace che aveva caratterizzato il lavoro del Gruppo 7-Donne per la pace ( campo di pace fra ragazze palestinesi, israeliane e italiane nel ’92 e convegno internazionale sulla guerra nella ex Jugoslavia con le donne in nero e i maggiori esponenti dei movimenti antinazionalisti, nel ’96. Sogno una rialfabetizzazione, una riflessione seria sul linguaggio che usiamo, sulle pratiche ancora possibili in tema di pace e diritti. A me sembra ( ma non so se usare il condizionale “sembrerebbe”) fondamentale ricostruire una rete che comprenda, oltre a noi, le donne, ma anche gli uomini, che vivono tra noi e vengono da luoghi lontani, oggi segnati dal conflitto, porci all’ascolto, elaborare insieme “nuove parole e nuovi metodi”, qui, in un paese che si affaccia sul Mediterraneo, il mare che più amo e al quale oggi non riesco più a pensare come un luogo di acqua e di gioia, ma come il teatro di un dolore che non riesco fino in fondo a comprendere. Mi sento assediata da quella che Primo Levi ha chiamato, in una conversazione con Anna Bravo, “la totale inspiegabilità del male”.
Maria Bacchi
A vent’anni sono diventata femminista per sottrazione al compito primario previsto per le donne dell’ambiente in cui sono nata, di dedizione gratuita e a tempo pieno alla cura della famiglia e dei maschi in particolare. Tuttavia, a distanza di quarant’anni vedo che il mio percorso di vita e’ stato, ed e’, caratterizzato da una lenta e continua sommatoria di lavori di cura; la professione che ho scelto, la famiglia allargata, la cura cura dei genitori fino ad includere, negli ultimi anni, un impegno di volontariato intorno a un gruppo di profughi di guerra africani. Sono venuta meno, nella pratica, alle convinzioni di allora? L’ invisibile inchiostro materno ha preso colore o non e’ possibile ancora, storicamente, essere femministe fino in fondo? Cosa significa essere femministe oggi?
Il mio pensare-sentire di oggi, credo condiviso con la maggior parte delle donne del gruppo, e’ che le pratiche ” virtuose” di ogni giorno, di cui parleremo in questo e nei prossimi incontri, costituiscono una pratica politica fondante, non solo di uno sguardo diverso della donna NEL mondo, ma di uno sguardo diverso della donna DEL mondo. Un mondo dove il principio dell’interesse e della cura per il Vivente (A.Prete), in tutte le sue forme, possa realizzarsi come visione politica alternativa a quella di interessi di potere e dominio sull’altro con gli strumenti di violenza e devastazione che la storia ci racconta e che, insopportabilmente, ci tocca ogni giorno vedere e sentire.
Il solito sogno? Mi interessa pensarci con voi e imparare dalle vostre esperienze.
Anna Pachera
PERCHE’ RIUNIONI FRA DONNE?
Interrompere un silenzio troppo lungo per ricreare, ancora una volta, contatti, incontri, confronti.
Conoscere come si pongono le donne del mio tempo in rapporto a quanto sta accadendo nella nostra Città ma anche nel mondo.
Cosa pensano e cosa dicono rispetto alla necessità della convivenza che il nostro tempo ci impone? Quale consapevolezza si può attuare, per allontanare pericolose demonizzazioni?
E’ possibile produrre una adeguata regolamentazione che consenta una pacifica convivenza?
Esiste un sapere delle donne ed è possibile mostrarlo?
Come si esprime la loro passione politica rispetto i temi di economia, di pace e conflitti o di salvaguardia della bellezza?
QUESTE DOMANDE FORSE SONO STATE LA MOLLA CHE MI HA PORTATA A RICERCARE LE AMICHE CHE AVEVANO UNA STORIA NELLA MIA VITA E NELLA MIA MEMORIA, CON LE QUALI SAPEVO O SPERAVO DI POTER INIZIARE ANCORA UN PERCORSO DI CONOSCENZA ASSIEME.
(aggiungo un’ultima riflessione, forse provocatoria, o forse utile per meglio rispondere al quesito circa la nostra presenza nelle riunioni di questi mesi)
POCHI GIORNI FA, MI E’ CAPITATO DI ASSISTERE AD UNA ACCALORATA DISCUSSIONE NELLA LIBRERIA DELE DONNE DI MILANO, SUL TEMA: “ESIGENZA DI RICONOSCERE E DI RICEVERE AUTOREVOLEZZA FRA DONNE”
Mara Baraldi
Il compito a casa è di interrogarmi su cosa mi aspetto da questo prossimo incontro, sul perché ho aderito – se pur passivamente – all’idea di “Fare pace”? Intanto perché la preparazione ci obbliga ad incontrarci, ci affiata di più, discutiamo e io sto volentieri con voi… Ma seriamente:
Mai, come in questi ultimi tempi mi è parso di ‘toccare’ quanto possa essere violento il mondo in cui vivo: che mi eccede, ma mi sta intorno, mi incombe alle spalle, mi soffia sul collo: un mondo di sopraffazione. E allora “Che fare”, diceva una vecchia rivista, senza punto di domanda.
Io sono confusa tra la volontà ottimistica di credere che si possa cambiare sguardo, rivolgerlo a una positività da parte nostra possibile, e il pessimismo di un’assuefazione al negativo, che in questi giorni mi pare metafisico. E tuttavia sento una sorta di bisogno di mettermi in salvo, che ci si metta in salvo: e non può essere che insieme, mi dico. Come se volessi salvarmi aggrappandomi a voi, nella vicinanza consentita da un orizzonte così ristretto come può essere il Gruppo, come sono le case, le amicizie…il famoso “oro delle vicine di casa” che io sperimento. Mi rendo conto della brevità dell’orizzonte, ma è un orizzonte che mi è chiaro.
Nella mia storia di bambina(genealogia?), ci sono stati episodi famigliari di rifiuto della violenza, istintivi mi pareva, così che c’è voluta Anna Bravo per farmeli rivalutare: e ora mi sono domandata -la risposta è sì -se questo piccolo ‘patrimonio’ di piccoli gesti (ma allora coraggiosi) non sia ancora quello cui devo far ricorso oggi, suggestionata anche dal riferimento alle “piccole virtù” (grazie, Nico e quante ci avete pensato!)
“Fare pace” mi tranquillizzava da bambina. Oggi c’entra la volontà di far tranquilla la mia coscienza, visto che non so in quale altro modo? Forse sì…certamente sì.
Sosi Baratta
Da troppo tempo siamo sommerse da notizie e immagini violente: terrorismo e guerre che provocano morti, distruzione, profughi e la migrazione di migliaia di individui. Di fronte a questo orrore ormai quasi quotidiano mi chiedo continuamente cosa posso fare, come posso agire il mio rifiuto a tutta questa barbarie.
Da sola non posso fare nulla e mi sento impotente. Bisogna uscire dalla solitudine e dal silenzio, stare insieme per conoscerci, per scambiare esperienze e mettere in campo azioni alternative.
Insieme alle amiche del Gruppo e alle altre donne, possiamo costruire nuovi percorsi con un linguaggio diverso, femminile; con loro attorno mi sentirei più forte, più protetta e meno vulnerabile.
Espressioni come: uscire dal silenzio, rompere il cerchio della paura, lette nella bellissima testimonianza di Zazi Sadou “Trasformare la paura si può” per me sono molto significative; è su questo che dovremmo lavorare.
Riporto una parte della testimonianza: “La paura è come la morte, la morte violenta. Non c’è niente di peggio. La paura è un sentimento ancor più forte dell’amore, della gioia. E’ qualcosa di talmente forte che, se arriva a dominare il pensiero, il suo corpo, la persona è morta. Non fa più niente… Malgrado la paura siamo riuscite a creare un luogo di legami sociali, di solidarietà. Io uso la parola “strategia”, perché noi abbiamo cercato di mettere in gioco delle azioni precise, volte a rompere il cerchio della paura collettiva.”
Catia Lucchini
Le guerre che devastano luoghi conosciuti, i pericoli e l’incomprensione per l’integralismo religioso – ancora la necessità di nascondere dietro Dio i propri interessi e misfatti, ancora dopo millenni è insopportabile- le catastrofi umanitarie, le paure di un futuro di guerra mi inquietano; sono sempre oltre quello che riesco a capire, a inghiottire a immaginare .
Condividere mi ha sempre aiutato a sopravvivere, a guardare avanti. Il gruppo è da sempre, almeno dal ’76, l’orizzonte delle mie discussioni, dei miei affetti, delle mie scelte politiche; dal 2002 l’unica possibilità di confronto, anche se a volte è stato difficile .
Ancora una volta sento l’esigenza di far convivere in me, non dico in pace, non ci spero, ma in modo più equilibrato, l’anima cattolica e caritatevole, l’esigenza dell’aiuto all’altro con spirito di sacrificio e mani levate al cielo, con l’esigenza di agire in modo nuovo, da donna, da femminista, di leggere in modo diverso la realtà, di provare a dire parole e fare gesti che non risolvono nulla oggi, non mettono a tacere la coscienza, ma guardano lontano, preparano cambiamenti, costruiscono, spero, nuove pratiche e nuovi atteggiamenti condivisi.
Tutto questo è possibile ?
Il campo della pace è stata un’ esperienza meravigliosa ma è servita più a me, a noi, che alle ragazze palestinesi e israeliane? Non ho modo di verificare !!
I contributi economici e il sostegno morale alle donne bosniache per i ‘lamponi di pace’ sono stati chiaramente provvidenziali per la cooperativa, non ho dubbi, ma il pozzo in Mali credo sia stato un fallimento.
E allora che fare? Nell’eterno dilemma non voglio lasciare che la mia coscienza si suicidi e si consumi come Amleto, o più modestamente come l’asino di Buridano. Ho bisogno di scelte collettive, per questo sono qui oggi.
Farò del pensiero di Anna Bravo, della speranza e della fiducia nei piccoli\grandi gesti collettivi e individuali, il mio ‘vangelo ‘
Teresa Rabitti
Quando sono andata in pensione, dopo un breve periodo di ebbrezza e la prosecuzione di un più lungo periodo “necessario” di cura non ancora terminato, mi sono chiesta che cosa avrei ora desiderato dalla vita, nella nuova fase della mia vita.
Mi sono risposta: una riscoperta e una nuova realizzazione di me stessa fuori dalle etichette di figlia, di moglie, madre, lavoratrice… ruoli (svolti anche talvolta con funzione sociale) che comunque mai si estinguono.
La scoperta dell’acqua calda … direte… ma io ho dei tempi giurassici … ed un pensiero “ruminante” come dice Erri De Luca.
Per riscoprire e realizzare me stessa nella nuova età era inevitabile mantenere i legami profondi con le amicizie, quasi sorellanze e fratellanze, di sempre perché, si sa, gli amici sono i fratelli che ti scegli, ma anche recuperare, dal mio passato, il discorso di genere (temporaneamente archiviato): di donna che vuole custodire la propria identità e dignità di persona in una condizione di vita gioiosa almeno se non “felice” (che cosa è davvero la felicità?).
Ho concluso che una gioia mi deriva dal considerarmi parte di una comunità, di gruppi che mi consentano di fare esperienze comunitarie di affettività e cultura al femminile, ma non solo.
Ecco perché il Gruppo 7 , Libertà e Giustizia ed ecco perché “l’impegno” di condividere emozioni ed idee sui temi “forti” rispetto ai tempi duri ed incerti che stiamo vivendo: una rete di amicizie personali e civiche per la difesa del “bene comune” nelle sue diverse declinazioni.
In questo caso il tema della pace, soprattutto del fare pace.
Cosa posso fare io? Sono convinta che lo studio e la riflessione comune possano promuovere la valorizzazione e la pratica di virtù “femminili” (grazie a Nicoletta per le sue suggestioni) e azioni personali e di gruppo per sconfiggere i meccanismi che generano conflitto nel piccolo e nel grande.
I gruppi sono generativi di idee ed azioni che ciascuno esporta ed amplifica in altri contesti per tessere una grande rete, quasi una tela di ragno che attrae nell’oggi e nel futuro.
Antonia Prudenziati
Ginevra scrive la sua lettera al mondo,
Io cerco di pensare perché sono Qui al gruppo 7 e al perché di questi incontri sulla violenza, sulla pace, al come fare pace.
Mia madre diceva: cosa vuoi che abbia goduto nella mia vita? Due guerre, quattro figli… Io ho sempre avuto paura che la guerra tornasse. Che il mondo tornasse indietro.
Ma da noi la guerra non c’ è più stata. Sono settanta anni, i miei, che non ci sono state più guerre qui da noi. Io penso ai tanti passi avanti che si sono fatti, ai miglioramenti della vita delle donne, alla libertà di cui godiamo.
Ma ugualmente io ho avuto paura della violenza quando c’era il movimento studentesco, quando ci sono stati i gruppi extra parlamentari, il terrorismo delle brigate rosse ecc.
Anche il femminismo per certi aspetti mi preoccupava.
Eppure ho sempre partecipato alle lotte e faccio fatica a dichiararmi pacifista.
Ricordo che ero per l’intervento nel Kossovo .
La pace sempre e comunque no, bisogna fare qualche cosa. Come si fa a restare pacifisti di fronte agli orrori di questi giorni ? Il terrorismo, i morti nel Mediterraneo ….Penso: quali strategie, quali azioni possono prevenire o fermare la violenza?
Ho bisogno di discutere, di pensare insieme agli altri, ho bisogno di politica. Non mi basta il volontarismo, l’impegno personale che non nego, ma non mi basta.
I problemi sono complessi, io cerco di capire, ma non parlatemi solo di piccole cose. Merende e solidarietà. La solidarietà è bella più per chi la pratica che per chi la riceve. Giustizia, che cosa è giusto fare?… Dire? …
Vorrei vivere in pace, nella giustizia per tutti, senza denigrare troppo l’ Occidente di cui sento di far parte e del mondo delle donne e degli uomini che ammiro.
Mimma
Questi sono i pensieri usciti ieri sera. Oggi forse avrei scritto cose diverse. Ho troppe incertezze e oscillo tutti i giorni. Ma tant’è…]
Pensavo di vivere tempi troppo duri (stranieri) e avevo voglia di condivisione e, forse, anche di solidarietà, che (quasi) sempre trovo con le donne.
Dopo l’appello della Lipparini, gli incontri con le donne di sempre e le altre hanno portato riflessioni, pensieri, ma anche scivolamenti di certezze.
Per quelle due parole: “fare pace”.
In un mondo che da tempo sento come ostile quelle due parole hanno fatto uscire allo scoperto cose pensate ma volutamente non dette, non condivise e, forse per opportunità, messe da parte.
Forse è ora di fare i conti con il passato, di riflettere, ancora una volta, sul tema “violenza-donne-pace”, e improvvisamente ho pensato (ultima utopia?) che se questo mondo non mi piace, potrei reinventarlo. Ma non da sola.
Paola Dalboni
“Nonna -mi scrive mio nipote da Barcellona- ho sempre ammirato la tua forza rivoluzionaria. Non lasciare che niente e nessuno ti faccia diventare ciò che non sei”.
“Caro Francesco -gli rispondo- sai che ho 86 anni ed essendo ebrea ho alle spalle vicende molto dolorose: perciò io mi trovo spesso, troppo spesso, a “guardare” soffrendo il mondo di oggi, che mi riporta al passato.
Poi la rabbia prevale sulla sofferenza, perché quella che tu, Francesco, chiami “forza rivoluzionaria” viene annullata dalla violenza attuale: guerre, stupri, terrorismo, barconi di uomini, donne, bambini che fuggono tutti da guerre, fame, torture, razzismi. E la mia forza si trasforma in impotenza.
Il mio passato remoto, la mia origine di ebrea, dopo tanti anni, si ripresentano e lo ‘sguardo’ di oggi sul mondo torna ad essere quello del passato, si identifica con i ricordi: caro Francesco, la mia “forza rivoluzionaria” viene meno e tutto ciò che vedo riesce a farmi diventare “ciò che non sono”. Il maschile del potere e della politica come nel passato imperversa, strumentalizzando religioni e diversità razziali, provoca stragi e atrocità che colpiscono i più deboli, e le donne sono tra loro.
Mi sono sempre chiesta perché, come, Mussolini e Hitler – e di conseguenza i popoli tedesco e italiano – siano riusciti ad eliminare milioni di ebrei nei campi di concentramento; oggi mi pongo la stessa domanda di fronte alle uccisioni di massa, che si moltiplicano intorno a noi.
L’unica risposta che come donna mi do, è che tutto ciò è provocato ancora una volta, e come sempre, da un potere e una politica maschili. Quel che si afferma è la volontà di potere di una classe esclusivamente maschile, o meglio, di maschi che si trasformano in belve.
Riusciranno le donne a trovare una strada per ridurre le belve al rispetto dei diritti dei più deboli, dei diversi, delle donne stesse?
Io non credo.
Ma, caro Frncesco, spero anche che abbia ragione tuo padre, che mi definisce pessimista. Con te mi difendo, e ribatto che invece il mio non è pessimismo, ma la consapevolezza che mi viene dall’essere ebrea: il ricordo dello sterminio non può cancellarsi finché sarò in vita. Amen.
Francesco, ti auguro una vita diversa da quella di tua nonna, che non potrà cancellare il suo cognome.
Anna Colorni
Da bambina litigavo spesso con mio fratello; lui, più forte di me, mi torceva il braccio fino a farmi urlare. Intervenivano i miei genitori e ci castigavano tutti e due: lui per avere usato violenza, io per “averlo provocato”. Non abbiamo mai fatto davvero pace, anche oggi che siamo adulti e questo mi ha indotto a pensare che i legami familiari sono le prime fonti di conflitto e il banco di prova per ogni pratica che voglia renderlo gestibile.
La violenza “grande”, pervasiva, macroscopica che si manifesta in guerre, uccisioni efferate, sopraffazioni fisiche e psicologiche, mi rimanda sempre a quella violenza infantile e a quel nucleo non risolto di una relazione. Per contrasto penso alle relazioni preziose e significative intessute con le donne che sono nel mio cammino, relazioni nate da pratiche di fiducia, di attenzione, di frequenza amorosa che hanno aperto un mondo e che hanno trasformato il mio sguardo sul vivere.
Incontrare altre donne e assieme mettere a punto o testimoniare pratiche quotidiane di convivenza che allargano il nostro orizzonte di libertà può servire, io credo, a creare un movimento carsico che tenga viva la nostra capacità di alterità, che tenga insieme cuore e pensiero. Da lì, da questi incontri sull’esperienza che si fa pensiero nasce, a mio avviso, la linfa che alimenta ogni sforzo di fare pace e di resistere al male.
Clelia Degli Esposti
Mi sono chiesta cosa significhi per me “fare pace” e paradossalmente questo fare mi ha richiamato al confliggere. La relazione con le donne che abitualmente frequento, nel mettere in luce le nostre diversità, mi pone inevitabilmente in una dinamica che porta alla luce quelle opacità di fondo che prima inconsapevoli, posso ora mettere a fuoco, comprendere e nella relazione trasformare in maggiore consapevolezza di sé. Nel dono della sororità, di cui faccio parte da anni, ho scoperto cosa significa fare pratica d’autorità per mettere in campo quel passaggio mai definitivo che mi richiama ad un approfondimento continuo poiché come dice Ivana Ceresa: “Se non c’è riferimento chiaro rigoroso e visibile all’autorità femminile individuata, io ribadisco, poco o tanto noi continuiamo a riferirci a quella maschile e non costruiamo niente di nuovo”. Il dialogo, la ricerca, l’approfondimento continuo negli incontri di sororità e con le donne degli horti, avvengono nelle nostre case, dentro gli spazi di vita della mia quotidianità e di quella delle altre, quasi in un continuum tra il dentro e il fuori delle nostre vite per cercare di intrecciare fili di trovare gesti e parole nuove da spendere in altri contesti da donne.
Vanna Gallini
Dentro un numero enorme di guerre noi stiamo ferme, senza parlare e senza fare. Come è possibile? Floriana Lipparini ci ha spronate a riflettere con la sua lettera dell’agosto scorso. Nel frattempo però mille altre storie si sono intrecciate nelle nostre vite e nel mondo.
Tutto capita intorno a noi, tutto ci viene consegnato dai media già cucinato e pronto, prima per la sorpresa e poi per il dimenticatoio. Israele e Palestina, Nigeria, Siria, Medio Oriente e Nord Africa, Libia e gli imbarchi, isis e boko haram, clandestini e rifugiati, conflitti vecchi e nuovi su tutta la terra e anche sotto casa, per l’expo per esempio.
Non credo all’efficacia delle manifestazioni, perché mi pare appartengano a un altro tempo: quello della mia giovinezza, quando erano un’invenzione e avevano la forza delle domande originarie, a cui nessuno aveva ancora dato risposte, un tempo storico delle “necessità”, dei diritti civili, delle proteste cariche di motivazioni e ragioni. Un tempo “là” che oggi, nel tempo dei diritti conquistati e riperduti, per me non torna, neppure nei cortei. Insomma non mi ci vedo e non li vedo fruttuosi.
Mi interessa invece il reperimento di forme di pace attuate da donne. Di tutto il lavoro fatto per esempio sulla dea madre da Maria Gimbutas e da altre in archeologia (ne parla anche F. Lipparini in Per altre vie) e da Francesca Rosati Freeman per società attuali, traggo una riflessione che, se anche non è del tutto provata scientificamente e storicamente, è un perno su cui far girare il pensiero: nelle società matriarcali non vi è traccia dell’uso delle armi. Non so fino a che punto valga il richiamo, soprattutto in questo periodo in cui, in occasione del settantesimo della Liberazione, siamo state indotte a riflettere su esperienze diverse (non ultima la figura di Leletta che esce dal libro di G. De Luna), ma è certo che vi è una forte (sfruttabile) carica simbolica in questa figura del femminile disarmato.
Quello che adesso preme è infatti capire se vi siano delle possibilità per noi donne di mostrare una diversa maniera di stare nei conflitti, di gestirli, di superarli. Ho usato il termine “mostrare” perché il vecchio motivo della visibilità non mi è mai piaciuto. Ho pensato sempre che proprio l’invisibile è la nostra forza e che, se si esce allo scoperto, lo si deve fare per noi, per le nostre figlie, per tutte le donne. Non essere “visibili” al mondo, che è ancora dei maschi (come dimostrano appunto le guerre) o di qualche donna di potere, le “uome” come le chiama Raffaella, ma mostrare con i gesti, con il fare, a noi stesse, che possiamo trovare strategie non bellicose. Viene a questo proposito l’ultimo articolo inviato da F. Lipparini, che risponde puntualmente alla perplessità espressa da Teresa e Fernanda la volta scorsa: che senso ha questo convegno, mentre annegano centinaia e centinaia di persone nel Mediterraneo? Può avere il senso di portarci lì, davanti al mare, coi nostri corpi, a chiedere che siano tutti salvi.
Mi pare fondamentale che ci mettiamo insieme e che non perdiamo di vista mai la forza che sappiamo sprigionare e riconoscere nelle altre.
Nella
Il bollettino di guerra da cui siamo sommerse tutti i giorni dai media mi fa pensare che l’uomo dalla storia non ha imparato niente. Guardo agli anni in cui ho marciato per la pace insieme a donne che sono qui presenti, all’interno di un percorso politico e ideale , con la visione di una società’ migliore, più’ giusta, più equa nella ripartizione delle risorse e del benessere, di giustizia sociale.
Oggi sembra che tutto sia stato vanificato; le uccisioni, gli attentati, la guerra di pseudo-religione che sta distruggendo molti paesi in una contrapposizione di cui non si capisce più quale è la realtà e quale è la verità. La paura condiziona il nostro vivere, il nostro viaggiare, il nostro interagire con l’altro, con la persona che ora viene considerato il diverso.
Gli echi di guerra provenienti dal Mediterraneo, la grande fuga dei profughi che dall’Africa scappano da fame e morte, l’incapacità degli Stati o forse, la non volontà di affrontare nel modo adeguato tutto ciò, mi sgomenta e mi fa paura: quale futuro per i nostri figli?
Nel 1993 il Ministero della difesa italiano ha pubblicato un progetto in cui tra l’altro si dichiara che, caduto il muro est-ovest il nuovo confronto è nell’area mediterranea “tra una realtà culturale ancorata alla matrice islamica ed i modelli di sviluppo del mondo occidentale”.
Cosa possiamo fare noi, come far sentire la nostra voce, la nostra protesta contro le decisioni prese dai governi, come attivare una rete di donne che abbia visibilità e forza, come le Donne di Plaza di Maio o le Donne in Nero? E’ possibile essere nel mondo contro la violenza, quali pratiche al femminile possiamo attivare per far sentire il nostro grido di pace?
Mara Boschini
È per voi, amiche, che sono qui a preparare insieme il convegno del 9 maggio. È questo il perché: il perché siete voi e per prime voi donne di Mantova – così vi chiamavamo all’inizio della nostra collaborazione, quando voi ci chiamavate le donne della Bassa. Non c’era nulla di spregiativo –anzi, ora ci trovo un che di affettuoso – nel nostro collocarci dentro una distanza che non era solo geografica. Distanza e/o differenza che non ci ha impedito -anzi e lo credo proprio – ci ha sollecitato a incontrarci a scambiarci inviti anzi sfide, come quest’ultima. Una conferenza internazionale per la pace. Suonava così il primo invito, lo ricordate. Perché no? abbiamo risposto perché non a Mantova? Internazionale o perché no interrelazionale? Ecco questa mi sembra una buona ragione, anzi una buona pratica di pace, lanciare delle sfide raccoglierle rilanciarle negoziare e rinegoziare la differenza. Per seconde ci siete voi donne degli Horti cioè ci siamo noi “ragazze di campagna” perché, accanto ai contributi lucidi nell’analisi e ricchi di esperienze politiche anche istituzionali delle Donne del gruppo7, abbiamo portato le esperienze un po’ visionarie e le pratiche silenziose e un po’ magiche di donne giardiniere, che vedono da vicino nei propri giardini la desolazione invernale e il rigoglio di primavera. Ecco perché, se devo dare ragione della mia presenza qui, dico che è per voi, dove il per significa a causa vostra, per mezzo per fine e onore vostro nostro e di tutte le donne a cui ci sentiamo legate. Ho in mente molte donne che ci possono essere maestre in questa impresa, a cui stiamo dando forma insieme, ma ne voglio nominare ora una sola, la più “improbabile”, che però è quella che mi si è presentata per prima, quando il titolo era “Lasciateci in pace”. È la donna dell’unzione di Betania, quella che rompe il vasetto di alabastro e unge con il nardo prezioso il capo di Cristo. E mentre gli altri gli uomini gli apostoli protestano e Giuda in particolare la rimprovera perché con il ricavato della vendita di quell’olio così costoso potevano aiutare i poveri, Gesù li ferma e dice “ Lasciatela in pace…..ha fatto ciò che era in suo potere, ungendo in anticipo il mio corpo per la sepoltura. In verità vi dico dovunque, in tutto il mondo, sarà annunziato il vangelo si racconterà pure ciò che ella ha fatto, in memoria di lei” Un gesto imprevisto, libero, eccessivo, inutile secondo la logica della politica e dell’impegno sociale e anche della carità cristiana. Un gesto profetico un atto d’amore gratuito che per me assume un significato inaugurale di inaugurare la politica di pace delle donne o, se volete, la politica delle donne di pace. Separarsi da quello che tutti considerano il mondo e dissociarsi dalla cosiddetta realtà per aprire uno spazio ad alto valore simbolico, può essere la mossa vincente per cambiare la realtà?
Raffaella
Perché?
La parola pace mi induce a pensare ad un’alleanza tra persone che riconoscono e garantiscono la differenza
di pensiero, di genere, di cultura , di formazione, di habitat.
L’alleanza si costruisce con la relazione , l’aiuto reciproco, la discussione, il confronto, lo scontro ed il conflitto non armati.
Esiste quest’alleanza nel presente ?
I drammi dei migranti, le guerre in atto, le violenze di genere , i disastri ambientali, la difficoltà delle giovani generazioni a trovare lavoro denunciano la sua carenza , nonostante vi siano state, nella storia, figure importanti di donne e di uomini che hanno sacrificato la loro vita per ideali di pace, uguaglianza e libertà.
Se penso alla mia vita passata e presente, al mio essere donna ( figlia, madre ,insegnante, compagna, amica, Sorella) che ascolta , che si prende cura, che intesse trame tra persone, trovo la forza e l’autorità necessarie per creare ponti di pace, insieme con altre donne e con donne-altre.
Per questo sono con tutte voi.
Doretta Baccarini
Le amicizie vanno coltivate per sopravvivere e crescere. Io cerco di coltivare con particolare cura le mie amicizie femminili che mi danno energia positiva, perché sento che più le coltivo, più loro coltivano me, aiutandomi a crescere, a diventare più forte e consapevole a trovare continuamente il mio modo di stare nel mondo.
Con e attraverso le Donne degli Horti ho nutrito il mio modo di essere donna e approfitto di ogni occasione per fare un passo in più nel mio cammino accettando volentieri la mano tesa delle amiche che via via mi accompagnano.
Tra i doni che le amiche mi hanno fatto come semi che con il tempo la cura e la riflessione germogliano c’è senza dubbio una chiave per affrontare le criticità e i conflitti in modo costruttivo anzi tessitore di relazioni più vere e resistenti.
Milena
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