Forza e Violenza
Capita immancabilmente così – prendo tempo, sospendo il giudizio, lascio che “la cosa” mi scorra dentro, evolva, prenda forma e maturi – quando mi trovo fra le mani un libro come il Dio è violent@, di Muraro uscito nel maggio 2012. Un libro con il quale, per una ragione non più misteriosa o sconosciuta, mi è stato difficile, da subito, entrare in risonanza. Ho lasciato così che del tempo trascorresse in fiduciosa attesa che quell’oscura insoddisfazione e l’insofferenza avvertite lettura facendo, maturassero – prima di dar loro voce.
Succede sempre così, tutte le volte che, a ragione o torto, avverto nel pensiero di chi scrive – uomo o donna che sia – le tracce di una malcelata ambiguità, di un’ inclinazione al nebuloso detto-nondetto-semidetto (definirla fumosità sarebbe certamente eccessivo) che traspare, nel caso di { {{Dio è violent@}} }, in quella sintesi riconciliativa e pacificante degli opposti con cui la violenza, ammiccando al consenso di chi legge, si annuncia sulla scena:
“{Quando è il caso di decidere come comportarci, regoliamoci come fanno le cuoche con il sale: “Quanto basta”, La formula che ho trovato dice: quanto basta per combattere senza odiare, quanto serve per disfare senza distruggere}”.
Fatto sta che non basta. Non basta, a convincere, una formula in cui il niente d’odio, il niente di distruzione, ha tutta l’aria di una doppia denegazione che agisce da tranquillante su lettrici e lettori comprensibilmente disorientate/i all’idea di dover imbracciare la causa di una violenza che gli attributi “giusta” o “divina” non rendono certo più praticabile e meno inquietante.
Come dire che la “{violenza divina}” cui Benjamin allude ne { {{Per la critica della violenza}} } e a cui il testo di Muraro fa riferimento, avrebbe meritato almeno qualche parola in più. Ma così non è stato.
E’ che a mancare, in questo “librino”, è la chiarezza: un’ ammissione esplicita, un riconoscimento non fugace, da parte di chi scrive, del debito contratto non solo – come dichiarato – nei riguardi di Benjamin, ma anche nei riguardi del pensiero di una grande figura di donna quale Simone Weil è stata.
Non che manchi, beninteso, in {Dio è violent@}, un cenno – unico, solitario e fugace – a Weil, sotto forma di invito rivolto a lettrici e lettori:
“{Rileggete quel capolavoro racchiuso in poche pagine che è l’Iliade poema della forza di Simone Weil}”.
Ci pare davvero poco, troppo poco, eppure è tutto qui. Non una parola di più in un libro in cui ci sarebbe stato spazio, a volerlo, per mostrare un po’ più in dettaglio, magari con l’ausilio di qualche citazione aggiuntiva tratta dall’opera di Weil, il debito che {Dio è violent@} ha – e non ha – nei riguardi del pensiero weiliano sulla forza-violenza.
Un secondo riferimento altrettanto frettoloso al pensiero di Weil, lo incontriamo nel corso di un’intervista pubblicata su {Gli Altri} qualche tempo fa, in cui Muraro alla domanda: {Perché è arrivata a considerare la violenza decisiva?}, risponde così:
“{Chi subisce la forza altrui senza potersi difendere, patisce violenza, lo insegna Simone Weil. Volete fare prediche contro la violenza? Girate gli occhi nella direzione giusta}”.
E noi cercheremo, per quanto è nelle nostre capacità, di non “fare prediche contro la violenza” e di girare gli occhi nella direzione giusta non senza aver prima rilevato, nel tono stizzito delle battute finali, una certa insofferenza riservata all’intervistatore di turno.
E la direzione giusta, per noi, è quella segnata dall’estrema complessità – di cui ci pare non venga dato conto nel {Dio è violent@ di Muraro} – che il pensiero di Weil sulla forza-violenza assume ne {L’iliade} poema della forza.
In effetti, se prendiamo sul serio l’esortazione di Muraro e proviamo a girare gli occhi nella direzione di quanto una pensatrice profonda come Weil ha meditato e scritto sulla forza-violenza in quel capolavoro che è {L’iliade}, ci accorgiamo innanzi tutto che le tesi proposte dall’autrice di {Dio è violen@} (la critica al pacifismo, la necessità di ricorrere all’uso della forza “fino alla violenza se necessario”, l’appello a una “violenza giusta” che non favorisca “l’abdicazione ad agire, se necessario, con tutta la forza necessaria”), non contengono nulla di nuovo e di originale rispetto al pensiero di Weil maturato in quella particolare fase della sua vita (fra il ’39 e il 41) in cui il “pacifismo integrale” cui in gioventù aveva aderito, appare ai suoi occhi come un “errore criminale” (“Il mio errore criminale prima del 1939 sugli ambienti pacifisti e la loro azione…”) che verrà così ritrattato:
“{se si è consapevoli delle ragioni dello squilibrio sociale, occorre fare ciò che è in proprio potere per aggiungere peso sul piatto troppo leggero. Anche se il peso fosse il male, forse maneggiandolo con questa intenzione non ci si macchia}”.
Come ci ricorda Domenico Canciani, uno dei più grandi studiosi di Weil in Italia, nel suo saggio intitolato {Pensare la forza}, Weil
“{si rende conto, infatti, che un approccio esclusivamente ideologico le aveva impedito di cogliere la nefasta ingenuità insita nell’ostinazione dei pacifisti a trattare ad oltranza con un Hitler ormai irriducibile nel suo progetto espansionistico (…). Ora invece, riflettendo sugli ultimi avvenimenti, giunge alla convinzione che esistono circostanze, personali e collettive, in cui non ci si deve sottrarre all’uso di un certo grado di forza per evitare mali peggiori, non altrimenti arginabili (…).Tuttavia, soprattutto in queste situazioni, la forza va esercitata per quel poco o quel tanto indispensabile a scopo difensivo, col dolore di doverla praticare e la volontà di uscirne non appena cessi di essere necessaria}”.
C’è un momento, insomma, in cui Weil partecipando alla miseria del tempo:
“{accetta di infliggere la sua parte di male, disposta ad esporsi alla morte pur di alleggerire il peso della sventura collettiva (…)}”.
E Muraro, che si confronta con la miseria di un tempo altro, il nostro, scrive:
“{A chi detiene un potere quale che sia, io non mi presento dichiarando che ho rinunciato all’uso della forza fino alla violenza se necessario}”.
“{La predicazione antiviolenza vorrebbe farci credere che la misura giusta la fisserebbe il confine tra forza e violenza: no, lo sconfinamento tra l’una e l’altra è spesso inevitabile}”. (p. 30)
“{Mi chiedo da quanto tempo in qua l’uso della forza ai quali i singoli rinunciano in favore del diritto e dello stato, sia diventato irresponsabile}”. (p. 22-23)
Sono molti i passaggi da cui risulta chiaro che se per un verso la tesi sostenuta dall’autrice di {Dio è violent@} ricalca fedelmente il pensiero di Weil sulla forza in una fase particolarmente drammatica della sua vita, per un altro verso è infinitamente distante da quel “trionfo più puro dell’amore” tanto caro a Weil e dalla ricchezza poetica dello stile con cui { L’Iliade} si apre:
“{Il vero eroe, il vero argomento, il centro dell’Iliade, è la forza. La forza adoperata dagli uomini, la forza che piega gli uomini, la forza dinanzi alla quale si ritrae la carne degli uomini. L’anima umana vi appare continuamente modificata dai suoi rapporti con la forza: travolta, accecata dalla forza di cui crede disporre, si cura sotto l’imperio della forza (…). La forza è ciò che rende chiunque le sia sottomesso una cosa. Quando sia esercitata fino in fondo essa fa dell’uomo una cosa nel senso più letterale della parola, poiché lo trasforma in un cadavere. C’era qualcuno e un attimo dopo non c’è nessuno. E’ un quadro che l’Iliade non si stanca di presentarc}i”.
Se i Greci avevano orrore della forza se sapevano che tutto è forza, c’è tuttavia un punto, per Weil, un punto di equilibrio tra l’attaccamento alla materia e l’attrazione per l’amore e la grazia divina – tra incarnazione e decreazione, tra vuoto e pieno – e questo equilibrio è un “{punto soprannaturale}”, è il “{chicco di melagrana}” dell’Inno a Demetra e il “{chicco di senape}” del Vangelo.
Solo Dio, insomma, sfugge al contatto con la forza e con lui solo “quegli tra gli uomini che per amore hanno trasferito e nascosto in lui una parte della loro anima”.
“{Gli altri momenti in cui gli uomini trovano la loro anima sono quelli in cui amano; non c’è quasi forma pura dell’amore tra gli uomini che sia assente dall’Iliade “(…).Tali momenti di grazia sono rari nell’Iliade ma bastano a far sentire con estremo rimpianto ciò che la violenza fa e farà perire}”.
Si tratta dunque, nella visione di Weil, di vivere il legame, l’unità dei contrari: necessità della sventura e bene, materia e spirito, forza e amore. Di qui la partecipazione nell’Iliade all’opera redentrice, di qui la “{presenza}” nell’opera del “{vero Dio}” poiché Omero “dipinge la vita umana come solo può vederla chi ama Dio”.
Se confrontiamo il senso della divina presenza quale ci appare nell’Iliade di Weil con il dio presente nel {Dio è violent@}, di Muraro, ne cogliamo tutta la distanza. Ne troviamo traccia, per esempio, nella risposta da lei data durante l’’intervista in cui alla domanda, a dir poco imbarazzante, posta dall’intervistatore:
“{Nel suo libro lei parla di violenza giusta, parafrasando l’idea della guerra giusta: ossia il concetto che sia George W. Bush sia i terroristi islamici hanno usato e usano per giustificare i loro atti. Non teme che tirando in ballo dio questa idea di giustizia violenta possa andare a servire qualche altro fondamentalismo?}”.
Risponde così:
“{Sono laica ma non laicista e se Dio si affaccia nel discorso, io non lo tengo fuori come se fosse una parolaccia o una parola che non c’entra. Lo metto in campo sull’esempio di alcune grandi donne del passato che ne hanno fatto un ricorso della libertà femminile. Più precisamente penso che nel mio discorso ci debba essere un posto per Dio e che non debba essere riempito da altri o altro. Chi non crede in dio lo lasci vuoto}”.
Ciò che muove Weil a scrivere ciò che scrive nell’Iliade e altrove, non è un Dio che fa capolino, che “si affaccia nel discorso” in cui viene accolto per il solo fatto di non essere “una parolaccia”, ma è il suo rapporto assoluto con l’Assoluto che deriva dalla personalissima e singolarissima esperienza mistica da lei attraversata.
Vivere direttamente un’esperienza mistica e “mettere in campo Dio sull’esempio di alcune grandi donne del passato che ne hanno fatto un ricorso della libertà femminile”, è precisamente ciò che fa la differenza fra l’altezza delle cime, la grazia che si respira nell’Iliade di Weil e la {pesanteur} che si respira in Dio è violent@ – “la pesantezza fa scendere l’ala fa salire”, scrive Weil – in cui a prendere il posto del dolore della carne provocato dalla necessità della forza e della sventura, è un sentimento di rabbia, in cui il rapporto assoluto con l’Assoluto di Weil, il rapporto amoroso con Dio, si riduce, nella versione “laica” di Muraro, nella concessione di un posto nel discorso, nel riempire con un dio quel Vuoto di Dio che è, per i mistici, la sola condizione per avvicinarsi a Dio.
Accettare il vuoto. Si ritrova sotto molte forme (…). Sete, fame, castità – privazioni carnali di ogni tipo – nella ricerca di Dio.
Insomma, se in {Dio è violent@} il debito teorico maggiore viene riconosciuto nei riguardi di Benjamin, di Weil, frettolosamente citata, vengono assunte alcune conclusioni circa l’impiego della forza-violenza che, rispetto alla visione complessiva del suo pensiero, risultano parziali.
Resta il fatto, nondimeno, che Simone ha costituito per il femminismo italiano del pensiero della Differenza inaugurato da Carla Lonzi, un riferimento rilevante, non adeguatamente dichiarato nel testo ma di fatto riproposto in modo inequivocabile.
Tale riferimento pone tuttavia al femminismo alcuni interrogativi per i quali, a farci da guida, non mancano alcuni elementi importanti:
1) Weil rinnegò apertamente e in tutte le forme possibili la sua condizione di donna e la sua femminilità;
2) Weil considerava Platone un filosofo “insuperabile” ma sappiamo che l’impianto filosofico del pensiero platonico è stato messo radicalmente in discussione da una filosofa femminista, Adriana Cavarero, nel suo {Nonostante Platone}. E’ peraltro noto e non irrilevante, che Cavarero fu una delle animatrici della Comunità Diotima fondata nel 1983 dalla quale si distaccò nei primi anni ’90;
3) il primato attribuito da alcune filosofe femministe alla genealogia materna e la costruzione di un simbolico materno, appare decisamente in contrasto, almeno in apparenza, con il primato assegnato da Weil alla genealogia paterna, al “seme del padre”:
“{Le grida che io lanciavo quando avevo una o due settimane risuonino in me senza interruzione per quel latte che è il seme del padre}”.
4) La distanza che separa il corpo (soma) ripensato, rivalutato e teorizzato dal femminismo e il corpo come tomba (sema) pensato da Weil – a partire dal suo Maestro Platone – è irriducibile:
“{Il corpo è una tomba. La parte spirituale dell’anima deve servirsene per racchiudere, murare la parte carnale (…) per uccidere la parte carnale. Possa il mio corpo essere uno strumento di supplizio e di morte per tutto ciò che è mediocre nella mia anima}”. (39)
5) le motivazioni dell’interesse mostrato per la mistica da una parte del femminismo e i suoi possibili effetti sulla pratica politica e sul movimento delle donne.
6) le ragioni, infine, di un incondizionato entusiasmo mostrato da alcuni studiosi maschi nei riguardi del {Dio è violent@} a fronte delle dure critiche rivolte al testo da alcune donne di cui riportiamo quella della storica {Anna Bravo}:
“{L’invito di Muraro a ripensare il nostro rapporto con la violenza si lega al giudizio sul presente, che prefigurerebbe un ritorno alla legge del più forte. Ammettiamo che sia così: ma spostarsi su questo livello di scontro, questo sì mi sembra un passo in sintonia con uno spirito militare. Voi usate la vostra forza? Noi siamo in grado di tenervi testa con la nostra. Mentre la potenza dell´oppositore nonviolento sta proprio nel sottrarsi a questo meccanismo}”.
“{Un meccanismo}”, conclude la studiosa, {“che ha portato tanti movimenti alla sconfitta. Sconcertante, davvero, riconsiderarlo oggi}”.
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