GENOVA e il crollo del ponte Morandi – “Vi racconto lo scaricabarile sulla Gronda durato vent’anni”
— In quella che forse è la sua canzone più bella e più disperata, “La domenica delle salme”, Fabrizio De Andre condensa i giorni della fine dell’utopia e dei progetti di trasformazione del mondo, nel trionfo delle “regine del tua culpa che affollavano i parrucchieri”. Ora dopo il crollo del Morandi, in cui ci sarebbe bisogno di ragionamenti sereni e di responsabilità condivise, il modo più serio di dimostrare rispetto per le vittime, le regine e i principi del “tua culpa” affollano i talk show e le pagine dei giornali.
Così i 5 stelle riversano in maniera un po’ semplicistica la responsabilità del disastro alla convenzione tra Governo e Autostrade, e sul sistema dei partiti foraggiati dai Benetton – dimenticando che fra quei partiti c’era la Lega sua alleata di governo -, e i partiti al governo in quegli anni si limitano a rispondere di non aver avuto segnale alcuno della pericolosità del ponte, mettendo tra parentesi un ragionamento serio ed una assunzione di responsabilità sul modo in cui avvennero le privatizzazioni di gran parte del tessuto industriale e infrastrutturale del Paese negli anni del centro sinistra e del centro destra. Di cui la concessione ai Benetton della maggior parte della rete autostradale italiana è l’esempio più eclatante. E addossano ai 5 stelle la responsabilità di essersi fieramente opposti alla “Gronda”, la bretella autostradale che avrebbe spostato a monte gran parte del traffico in transito sul Morandi.
Sulla Gronda vorrei portare una testimonianza diretta perché fui io l’assessore incaricato a promuovere e seguire il dibattito pubblico che il comune di Genova decise di indire, nel 2009, proprio per affrontare e risolvere il problema della fattibilità della Gronda. Della Gronda si parlava fin dagli anni ’90. Non perché si ritenesse il Morandi in pericolo di crollo, ma per separare il traffico pesante proveniente dal porto e il traffico di transito, dalla viabilità ordinaria dei genovesi, per cui il ponte Morandi rappresentava il modo più veloce e più pratico per tenere insieme una città che si stende per 20 chilometri, in una striscia sottile fra il mare e le montagne. Il Morandi aveva svolto le due funzioni contemporaneamente, cosa che in prospettiva, una prospettiva allora ritenuta molto lontana, ne avrebbe compromesso la tenuta visto l’aumento vertiginoso dei volumi di traffico che ne “affaticavano” le strutture. Ma dal sentire la necessità di un’opera a trovare le volontà politica e le modalità per metterla in atto ci passano tante cose che continuamente ne rinviarono l’attuazione. Le infrastrutture non passano nel vuoto. Ci sono case, fabbriche, campagne da attraversare e sconvolgere, e un ‘ipotesi come quella presentata inizialmente da Autostrade basata su puri criteri di efficienza trasportistica trovava la ferma opposizione di gran parte della popolazione delle zone che la Gronda avrebbe dovuto attraversare. E comincia lo scaricabarile tra le istituzioni a cui spetta la decisione. Tutte impegnate a sostenere la necessità dell’opera ma tutte restie ad accollarsi la relativa impopolarità che la realizzazione porta con se. E in quegli anni i 5 stelle non c’erano e Grillo non era ancora entrato in politica.
Fu Marta Vincenzi, che la cultura del “tua culpa” e del capro espiatorio la sta pagando duramente dopo l’alluvione di Genova, a prendere il toro per le corna, e a decidere di dar vita, anche in assenza di una legislazione nazionale e regionale in proposito, ad un dibattito pubblico alla francese, e mi incaricò di stabilirne le modalità. A presieder la commissione che doveva gestire il dibattito fu chiamato Luigi Bobbio, il più autorevole esperto nazionale delle tecniche della democrazia deliberativa, a cui fu affidato il compito, in totale autonomia, di designare gli altri membri della Commissione che avrebbero dovuto coadiuvarlo. Ad Autostrade fu chiesto di presentare una pluralità di tracciati, su cui la comunità genovese avrebbe dovuto pronunciarsi, attraverso la rete e in Assemblee convocate e presiedute dalla Commissione incaricata. Di ogni tracciato andava evidenziato non solo la sostenibilità economica e l’efficienza trasportistica, ma anche i costi derivanti dall’impatto ambientale e sulla vita della popolazione. Il dibattito si concluse con una relazione della Commissione aperta ed obiettiva, indicante sia i vantaggi che le criticità del tracciato che alla fine risultava più ragionevole, e diverso da tutti quelli presentati da Autostrade, e sulla base di quella relazione il Consiglio Comunale diede a larghissima maggioranza il via libera al progetto Gronda.
Poi tutto si ferma di nuovo. Il dibattito pubblico, in mancanza di una legge nazionale in proposito, non incide in maniera significativa sulla velocizzazione delle procedure burocratiche e amministrative, ne tanto meno sulle decisioni di spesa. La giunta che succede alla Vincenzi si rivela molto meno risoluta nel perseguire il progetto. Marco Doria, il nuovo sindaco di Genova, deve infatti parte della vittoria alle primarie di centro sinistra proprio all’appoggio dei ‘no Gronda’ non grillini.
Sia chiaro. Nessuno mise in dubbio allora la tenuta in tempi medio brevi del ponte Morandi. E comunque i tempi di realizzazione della Gronda non avrebbero avuto termine presumibilmente prima del 2020. I grillini semplicemente si opposero in maniera irragionevole ad un progetto sensato che avrebbe avuto un impatto ambientale positivo sulla vita della città. In nome di una opposizione pregiudiziale a tutte le grandi opere, mettendo nello stesso sacco cose diverse tra loro come la Gronda, la TAV, il TAP e quant’altro. Un po’ nella stessa logica perversa con cui oggi gli anti grillini, dal PD alla Lega, usano la necessità della Gronda per dare il via libera a tutte le opere infrastrutturali in fieri.
Occorre di fronte alla tragedia un po’ di saggezza e di serenità. Facendo i conti prima di accusare altri con le proprie contraddizione e inadeguatezze. Solo così si può evitare di ripetere gli errori del futuro e prendere rapidamente i provvedimenti assolutamente necessari per affrontare questa emergenza di Genova e dell’Italia, che sintetizzerei in questi termini. 1) La Gronda va fatta e rapidamente. E’ un’opera essenziale al futuro di Genova. 2) Il ponte Morandi va rifatto al più presto. L’affermazione di Autostrade che è possibile rifarlo in 5 mesi va presa sul serio e verificata. Ci sarà tempo per rivedere e riesaminare la concessione, in un quadro legislativo organico che riveda alle fondamenta la logica che ha spinto per la riduzione del ruolo di gestione, monitoraggio e controllo dello Stato e ha messo in mano ai privati tanta parte del patrimonio industriale e infrastrutturale del Paese. Chi ha privatizzato pensando che il mercato significasse di per sé più efficienza, più sicurezza, più trasparenza e meno corruzione riconosca di avere sbagliato. 3) Una legge che metta nelle mani dei cittadini, attraverso un dibattito pubblico regolato, la deliberazione sulle opere che hanno un grande impatto sulla vita dei territori e delle città. E’ la democrazia diffusa la miglior garanzia di trasparenza e il miglior argine contro la corruzione. 4) Potenziare la rete ferroviaria che unisce Genova, fino a farne una vera e propria metropolitana urbana, e completare finalmente il raddoppio della ferrovia che unisce Genova alla Francia. 5) Valutare seriamente tutte le opere che furono presentate durante la discussione sul riassetto della logistica genovese. Una fra tutte il cosiddetto Bruco, che avrebbe dovuto far uscire le merci dal porto di Genova tutte via ferro, spostando gran parte delle operazioni portuali oltre Appennino.
C’è poi la grande questione della diagnostica sollevata da Renzo Piano. “Fare la TAC” ad infrastrutture costruite quando il traffico era dieci volte minore di oggi è una necessità ineludibile, anche per rendere credibile la sicurezza delle infrastrutture future. A cui aggiungerei però una considerazione. Ma siamo proprio sicuri che questo aumento esponenziale del traffico e delle merci sia sostenibile non solo per la tenuta del cemento precompresso, ma anche per le nostre vite, e le nostre città’ e il nostro paesaggio? Non sarebbe necessario, anche per rispondere ai disastri annunciati del riscaldamento climatico, discutere seriamente del nostro paradigma di sviluppo, di cui la crescita della motorizzazione privata è stata elemento essenziale? Ma una discussione di questo tipo non sembra proprio alle viste, per lo meno non con questa politica