GERMANIA – L’attacco dei “pro vita” ai diritti delle donne si fa sempre più aggressivo, ed è ora che le femministe rivendichino: l’aborto è un diritto, non un reato.
In seguito alla condanna della ginecologa Kristina Hänel a seimila euro di multa per “pubblicità illegale di interruzione volontaria di gravidanza”, in Germania si è riacceso il dibattito sull’aborto, che il codice penale tedesco considera ancora un reato sebbene, a determinate condizioni, non punibile. L’attacco dei “pro vita” ai diritti delle donne si fa sempre più aggressivo, ed è ora che le femministe rivendichino: l’aborto è un diritto, non un reato. Così, per MictoMega ho tradotto il 10 settembre 2018 l’articolo di Kirsten Achtlik e Eike Sanders *
— Il nuovo ministro della Salute tedesco Jens Spahn (Cdu) ha dichiarato a metà marzo alla Bild: “Quando si tratta della vita degli animali, allora alcuni di quelli che oggi vogliono consentire la pubblicità dell’aborto, sono intransigenti. Ma in questo dibattito talvolta ci si dimentica che abbiamo a che fare con vite umane mai nate”[1]. Come è possibile, sembra insomma chiedersi sorpreso il ministro, impegnarsi in maniera “intransigente” per salvare le balene, o per far attraversare la strada alle tartarughe, o essere addirittura vegani e allo stesso tempo volere l’abolizione dell’articolo 219a del Codice penale tedesco che vieta la pubblicità per le interruzioni di gravidanza[2]?
A fornire al ministro l’occasione per questa dichiarazione è stata la sentenza del novembre 2017 che ha condannato la ginecologa Kristina Hänel per aver violato appunto l’articolo 219a, sentenza alla quale è seguito un ampio dibattito a livello di opinione pubblica e parlamentare. La dottoressa Hänel era stata denunciata, fra gli altri, dal movimento “Nie wieder!” (“Mai più!”) del “difensore della vita” radicale Klaus Günter Annen. Sul sito della ginecologa era disponibile la lista delle prestazioni sanitarie offerte dal suo studio: tra elettrocardiogrammi, esami delle funzioni polmonari e vari servizi per la gravidanza, compariva anche l’aborto. Tramite un modulo era possibile poi richiedere ulteriori informazioni. Verrebbe da domandarsi come si possa definire “pubblicità” una simile discreta e spartana informazione. Sta di fatto che il tribunale ha individuato nell’onorario previsto per questa prestazione quel “vantaggio pecuniario” che la legge vieta e ha condannato la dottoressa a seimila euro di multa. Il processo di appello, che avrebbe dovuto svolgersi lo scorso 6 settembre, è stato rinviato a ottobre. Il caso Hänel mostra con tutta evidenza che quello che nelle intenzioni del legislatore dovrebbe rappresentare un deterrente contro una presunta commercializzazione dell’aborto, ha come principale effetto quello di rendere più difficile l’accesso delle donne alle informazioni. Negli ultimi tempi la situazione per chi vuole interrompere una gravidanza indesiderata si è fatta più difficile: se si cercano su internet medici e procedure per l’interruzione volontaria di gravidanza ci si ritrova velocemente su siti di strenui avversari dell’aborto, pieni di informazioni false e che non di rado mirano a incutere paura. In più i “difensori della vita” come Klaus Günter Annen e la sua “Nie wieder!” denunciano sistematicamente i medici – finora sono circa 200 – che sui loro siti forniscono informazioni come quelle della dottoressa Hänel. E, anche se la maggior parte di queste denunce finisce per essere archiviata, ognuna costa comunque soldi e tempo, oltre a togliere serenità. L’incertezza è grande e molti medici dopo le denunce hanno preferito rimuovere questo tipo di informazioni dai loro siti.
Grazie al processo contro la dottoressa Hänel il problema è stato percepito finalmente anche dalla politica. Inizialmente pareva che le audizioni previste potessero condurre all’abolizione o quantomeno a una riforma del 219a, ma l’Spd ha deluso presto questa speranza ritirando la relativa proposta di legge. Nonostante sia la ministra della famiglia Franziska Giffey sia quella della giustizia Katarina Barley, entrambe dell’Spd, abbiano ribadito la loro disponibilità a una riforma in questo senso, la finestra che pareva si fosse aperta per una iniziativa comune di Spd, Verdi, Sinistra e liberali dell’Fdp si è nuovamente chiusa. Adesso va trovato un compromesso con la Cdu-Csu, e c’è da temere che finché al ministero della Salute ci sarà il cristianodemocratico di destra Jens Spahn avremo più facilmente provocazioni che riforme. Con la sua dichiarazione citata in apertura infatti Spahn ha scomodato in una volta sola tre topoi della battaglia del movimento “pro vita”, una battaglia che diventa sempre più aggressiva e che si estende in tutto il mondo: primo, l’insinuazione calunniosa che le donne che abortiscono e i medici che praticano gli aborti non saprebbero quello che fanno; secondo, la parificazione di qualunque forma di vita; terzo, la contrapposizione fra conservatori da un lato e “sessantottini”, femminismo, sinistra e verdi dall’altro[3].
Già nel 2013, prima della messa in vendita della pillola del giorno dopo senza ricetta, Spahn avvertiva: “Queste pillole non sono Smarties!”[4]. In quanto contraccettivo d’emergenza, la pillola del giorno dopo impedisce l’ovulazione e per questo va assunta il più presto possibile dopo un rapporto non protetto. Al contrario di quello che era stato vaticinato, le casse di assistenza sanitarie non hanno registrato nessun significativo incremento nell’uso del farmaco da quando può essere acquistato senza ricetta in farmacia. L’avvertimento di Spahn già allora mostrava quell’atteggiamento paternalista che appartiene anche al movimento di “difesa della vita”, secondo il quale la responsabilità sul proprio corpo non può essere affidata esclusivamente alla donna stessa, soprattutto quando in quel corpo potrebbe trovarsi una potenziale vita umana in formazione. Per evitare di doversi difendere dall’accusa di misoginia, il movimento non si stanca di ripetere che l’aborto ha sempre due “vittime”, il “bambino” e la “madre”. Intende dunque difendere le donne da se stesse. Alla base delle proprie argomentazioni il movimento “pro vita” pone un nesso fondamentale fra l’essere-donna e l’essere-madre. Nel suo mondo immaginario non c’è posto per una donna che per scelta non vuole avere figli né per una che, senza nessuna costrizione, decide di non portare avanti una gravidanza non desiderata. Queste donne agirebbe contro la loro “natura”. Per il movimento “pro vita” sono soprattutto i partner e le altre persone attorno alla donna che la spingerebbero ad abortire.
Allo stesso tempo nella propaganda dei “pro vita”, così come anche per Spahn, domina l’equivalenza fra un embrione e una persona nata. L’idea che qualunque forma di vita umana abbia bisogno dello stesso livello di protezione – un’idea che annulla la differenza fra un embrione e un essere umano nato – nel movimento “pro vita” è senso comune.
Un approccio che diventa chiaro a proposito degli argomenti usati dal movimento “pro vita” contro la diagnosi preimpianto. Cancellando qualunque sfumatura nello sviluppo della vita umana, l’attivista “pro vita” Gloria von Thurn und Taxis afferma che la distruzione degli embrioni che non vengono impiantati nell’utero viola il divieto di uccidere. Come se esseri umani già nati e otto cellule fossero la stessa cosa[5]. La diagnosi preimpianto è consentita in Germania dal 2011 solo nei casi in cui, a causa della predisposizione genetica di uno dei due genitori a una malattia ereditaria grave, la probabilità di un aborto o di partorire un bambino morto sia alta. In questi casi grazie alla diagnosi preimpianto è possibile selezionare un embrione “sano” da impiantare[6]. Quando Spahn e gli altri pongono una equivalenza fra qualunque (potenziale) vita umana e gli animali, siamo di fronte a mere polemiche che vanno lette innanzitutto come stoccate contro i Verdi e il loro passato nel movimento ecologista. Niente di nuovo dunque. Da qualche decennio per esempio l’associazione fondamentalista cattolica Christopheruswerk di Münster diffonde adesivi su cui campeggia un grazioso bimbetto carponi che tiene un cartello con la scritta: “Salvate i cuccioli di uomo! Stop all’aborto!”. Una strategia con la quale si accusa il movimento ambientalista e la società civile di sinistra di usare un doppio standard se non addirittura di degenerazione morale.
Un altro argomento ancora più amato dai “pro vita” è la presunta sparizione delle identità di genere causata dal femminismo e dal movimento Lgbtqi. La condanna di una sessualità indipendente dalla riproduzione e dunque in quanto tale considerata “innaturale” e “immorale” e l’affibbiare ai movimenti di emancipazione le etichette “lobby gay” e “ideologia gender” sono i punti di intersezione fra il movimento di “difesa della vita” e l'(estrema) destra.
Il movimento di “difesa della vita” si sente chiamato a opporsi a una “cultura della morte”: le antiche strutture starebbero “completamente scomparendo”, ha affermato Paul Cullen, presidente della importante associazione “Medici per la vita”. In un discorso di un paio di anni fa Cullen ha tratteggiato il seguente, inquietante scenario: “Lo scopo dei poteri sociali dominanti è isolare radicalmente le persone, alle quali vogliono strappare le appartenenze familiari, nazionali, culturali, educative, i legami religiosi, persino l’identità di genere. Allo stesso tempo le persone vengono stordite con il consumo e i passatempi, riducendole così a ingranaggi del processo di produzione”. Ma, continua Cullen, c’è una resistenza contro “l’establishment politico-mediatico”, “il tempo della rassegnazione e della retrocessione è finito”, il “nemico” non può essere convinto ma solo sconfitto. Il discorso di Cullen è solo uno dei tanti esempi che mostrano come il movimento si percepisce all’interno della corrente ascensionale dei movimenti di (estrema) destra che in Europa e negli Usa sono sempre più forti, e per questo si permette di usare toni sempre più forti[7].
Siamo dunque di fronte a una battaglia culturale, che va condotta sul fronte giuridico e morale. Il movimento di “difesa della vita” sfrutta le contraddizioni di una legge ingarbugliata. Emblematico è proprio l’articolo 219a, grazie al quale il movimento intimidisce i medici. Da anni i consultori denunciano che sono sempre di meno i medici e le cliniche a cui le donne che vogliono abortire possono rivolgersi. Nelle zone più rurali, e specialmente lì dove molte cliniche sono a gestione cattolica, la situazione è sempre stata difficile. In alcune aree una donna non ha proprio nessuna possibilità di scelta fra medici diversi, e dunque nessuna possibilità di scegliere fra diversi percorsi per l’interruzione di gravidanza. In talune regioni le donne devono spostarsi anche di 100 chilometri[8].
Appellandosi alla coscienza dei medici il movimento di “difesa della vita” intende rendere questo scenario ancora più desolante. Il paragrafo 12 della legge sulla gravidanza che regola anche l’accesso all’aborto prevede il diritto dei medici di rifiutarsi di praticare l’aborto per ragioni di coscienza e di fede. Ed è proprio con il motto “Rifiuto dell’aborto” che per esempio l’associazione “pro vita” Tiqua si rivolge esplicitamente a personale medico, paramedico e a tutte le figure a vario titolo coinvolte nelle procedure per l’aborto invitandoli tramite lettere e post su un blog a rifiutarsi di praticare aborti[9].
L’attuale impianto normativo tedesco: l’aborto è ancora un reato
Dietro la scarsità di servizi che si profila all’orizzonte e la lotta attorno al paragrafo 219a c’è una questione di fondo: la punibilità in via di principio dell’aborto. L’attuale impianto normativo è stretto fra il diritto alla vita dell’embrione da un lato e il diritto della donna all’autodeterminazione sul proprio corpo dall’altro. In due importanti sentenze, rispettivamente del 1975 e del 1993, la Corte costituzionale tedesca ha accordato una precedenza alla “difesa della vita del feto”. Il “fondamentale dovere di portare a termine la gravidanza” implica in principio la punibilità dell’aborto[10]. Tuttavia l’articolo 218 del codice penale ancora vigente, pur definendo l’aborto come illegale, dispone che non sia punibile se fatto entro la dodicesima settimana, a condizione che la donna abbia seguito il percorso che prevede un consulto obbligatorio e un tempo minimo di attesa di tre giorni. In Germania dunque non c’è un diritto all’aborto, le interruzioni di gravidanza non sono considerate parte delle cure mediche di base e per questo non fanno neanche parte della formazione dei medici[11].
L’attuale dibattito mostra in maniera lampante quanto la sessualità femminile, le gravidanze indesiderate e l’aborto siano ancora dei tabù attorno ai quali stendere un velo di vergogna. E questo non cambierà neanche con l’abolizione – quanto mai necessaria – dell’articolo 219a. È ora che le femministe lottino finalmente anche per l’abolizione dell’articolo 218: l’aborto non può più essere un reato.*
NOTE: [1] “Es geht um ungeborenes menschliches Leben”, www.spiegel.de, 18.3.2018.[2] “Chi in pubblico, in una riunione o per mezzo della diffusione di scritti, in ragione del suo vantaggio pecuniario o in modo gravemente offensivo, offre, annuncia, promuove servizi propri o altrui per l’esecuzione o la promozione dell’interruzione di gravidanza o diffonde analoghe informazioni è punito con la reclusione fino a due anni o con una multa”.[3] Cfr. il nuovo libro di Eike Sanders, Kirsten Achtelik e Ulli Jentsch, Kulturkampf und Gewissen. Medizinethische Strategien der “Lebensschutz”-Bewegung, Berlin 2018.[4] Timot Szent-Ivanyi, Pille danach. Verhütung in allerletzter Minute, www.berliner-zeitung.de, 12.1.2014.[5] Cfr. www.stoppt-pid.de/unterstuetzer/gloria_ von_thurn_und_taxis.[6] Per una critica alle prospettive femministe, dei diritti umani e delle politiche per le persone con disabilità cfr.: Gen-ethisches Netzwerk e.V., PID ist keine Vorsorge, sondern Selektion. Verbände nehmen Stellung, www.gen-ethisches-netzwerk.de.[7] Paul Cullen, “Quo vadis, Lebensschutz?”, Discorso tenuto al Lebensrecht-Forum a Kassel il 19.11.2016, www.kath.net.[8] Cfr.: l’intervista a Kirsten Kappert-Gonther, “Strafe schreckt ab”, www.taz.de, 28.7.2017; Eiken Bruhn, Die ungewollte Patientin, www.taz.de, 6.3.2017; Dinah Riese e Hanna Voss, Der lange Weg zur Abtreibung, www.taz.de, 8.3.2018.[9] Cfr. www.abtreibungsausstieg.org.[10] BVerfGE 39, 1 – Schwangerschaftsabbruch I. 1975; BverfGE 88, 203 – Schwangerschaftsabbruch II. 1993.[11] Tanto che alcuni studenti di medicina autorganizzano dei corsi per esercitarsi sulle tecniche abortive, cfr. “An die Papaya, fertig, abtreiben!”, http://www.taz.de/!5502618/, n.d.t.
* Da Blätter für deutsche und internationale Politik 5/2018.
(10 settembre 2018)