Gli Stati Uniti, il virus, e le parole delle donne
Colpiva, il 9 marzo scorso, mentre tutta l’Italia si accingeva a fermarsi per affrontare da casa l’emergenza coronavirus, la copertina del New Yorker che ritraeva un buffo Donald Trump bendato da una mascherina, simbolo di un’amministrazione che anche il Nobel per l’economia Joseph Stiglitz, in un articolo pubblicato su Internazionale il 15 marzo, ha definito «inadeguata», aggiungendo che «gli Stati Uniti hanno dimostrato un’insufficiente capacità di effettuare test e di seguire protocolli adeguati».
Colpisce, oggi, il fatto che gli Stati Uniti siano al primo posto per numero di contagi da Coronavirus, costretti a fare i conti con l’emergenza e con i nuovi dilemmi che essa pone. «How are you holding up in the time of coronavirus?» – come ve la cavate nel tempo del coronavirus? – chiedono ai lettori, dalle pagine del New York Times, le redattrici della rubrica «In Her Words: Where Women Rule the Headlines», una newsletter bisettimanale che parla di donne, di genere e di società. Il coronavirus è entrato anche nelle loro parole, in racconti che nelle ultime settimane hanno accorciato le distanze e ci vedono tutte alle prese con un tempo senza precedenti, che ha interrotto i meccanismi che facevano funzionare le nostre vite.
Leggendo infatti le più recenti storie raccontate nella rubrica, ci imbattiamo nelle stesse parole che ci ripetiamo da giorni nei confronti a distanza con amiche e colleghe: l’organizzazione del lavoro da casa, la convivenza familiare, la gestione dei conflitti domestici.
«Un territorio incerto e inesplorato»: così le giornaliste Corinne Purtill di Los Angeles e Francesca Donner di New York, rispettivamente madri di due e tre figli, descrivono questo momento, in un dialogo pubblicato lo scorso 19 marzo. Il problema è anche quello di organizzare nuovi spazi di lavoro in casa, garantire la giusta privacy quando siamo connessi, evitando che i nostri mondi – quello domestico e lavorativo – entrino troppo in contatto, per non dire in collisione. «We are all the Kelly family now» – siamo tutti la famiglia Kelly ora – scrive Corinne Purtill, ricordando la famosa intervista della BBC al professor Robert Kelly – salito alle cronache come il “BBC dad” – interrotta dall’irrompere dei figli nel suo studio, nel bel mezzo del collegamento.
«Molto lavoro viene fatto dietro le quinte per far sì che tutto sembri normale, prosegue Purtill, ma non puoi tenerlo nascosto per sempre». Il riferimento è in particolare alle donne, al loro dover essere «multitasking» e alla necessità, ora, di fare i conti con la realtà. Sono proprio loro a subire le più grandi conseguenze economiche di questa crisi, senza considerare le difficoltà di conciliazione per quelle madri ancora costrette a dover uscire di casa perché impiegate in servizi essenziali. «Mi sento come se avessi cinque lavori: mamma, insegnante, Chief Client Officer, domestica, cuoca», racconta invece Sarah Joyce Willey a Jessica Benner nella rubrica del 22 marzo, per spiegare la vita in casa con i suoi figli, che si chiedono come mai trascorra così tante ore al telefono.
Preoccupano i dati della National Domestic Violence Hotline: la responsabile Katie Ray-Jones ha ricostruito, lo scorso 24 marzo, un quadro allarmante, con richieste d’aiuto da parte di donne maltrattate per le quali l’obbligo di stare a casa rappresenta una seria minaccia. Quello delle donne che vivono abusi fisici e psicologici tra le mura domestiche, spiegano le autrici Alisha Haridasani Gupta e Aviva Stahl, è una delle più gravi conseguenza della crisi connessa al coronavirus, insieme alla difficoltà che vivono i centri antiviolenza di tutto il paese mentre si affrettano ad adattarsi a un mosaico di nuove politiche e restrizioni governative che cambiano giorno per giorno e variano da stato a stato.
Ci sono poi scadenze, “due dates”, improcrastinabili. Le ha raccontate Eileen Guo nell’ultima rubrica di questa settimana, pubblicata il 26 marzo, a proposito delle donne che stanno partorendo in questi giorni. In diversi ospedali degli Stati Uniti i bambini nascono in circostanze del tutto nuove, con maggior ricorso alla telemedicina per la cura prenatale e post partum, limitando o vietando le visite, proponendo l’induzione del parto alle gestanti a termine, e convertendo i reparti maternità in unità per pazienti affetti da coronavirus. Obiettivo, ha spiegato la dottoressa Amanda Williams, è far sì che le donne che hanno superato le trentanove settimane possano partorire in sicurezza prima del peggioramento della pandemia.
In questo mondo sospeso, le parole delle donne accorciano le distanze geografiche e sono un filtro per rileggere da prospettive diverse temi e paure condivisi. Dobbiamo tutte essere pazienti e comprensive prima di tutto nei nostri confronti, nei confronti dei nostri figli e nei confronti degli altri – suggeriscono Corinne e Francesca, ormai percepite come amiche con le quali confrontarsi a distanza – «dandoci il permesso di confonderci in questo territorio incerto e inesplorato come meglio possiamo».