Gli strani precursori cinesi del femminismo
Ho letto “Né Dio né legge. La Cina e il caos armonioso” di Renata Pisu, inviata a Pechino di Repubblica e studiosa della Cina.
Non è il tema fondamentale di questo libro, dedicato principalmente al ruolo di quello che noi chiamiamo “religione” nel mondo cinese, ma devo registrarlo perché mi ha incuriosito molto: nella recente storia cinese sono esistiti degli strani (solo per chi non li conosce) “precursori” della riforma della condizione femminile. Quindi non del femminismo, che è un movimento fatto dalle donne, ma pensatori uomini che si sono posti il problema dell’uguaglianza fra i sessi, all’interno dei loro disegni di riforma sociale.
Alla fine dell’Ottocento, Kang Youwei, grande riformatore e modernizzatore della Cina, definito il “Lutero del Confucianesimo”, scrive che “nell’era della grande pace ed uguaglianza sarà severamente proibito l’uso europeo ed americano secondo il quale le donne prendono il cognome del marito” (pag. 51). Troppo bello per essere vero, mi viene da pensare, nel momento in cui mi tocca leggere la testimonianza di un’amica sul suo faticosissimo tentativo di tramandare il cognome materno alle figlie e soprattutto i commenti tutt’altro che benevoli dei lettori del Corriere della Sera (il minimo che le dicono è: potevi informarti meglio prima…).
Ancora prima, fra il 1850 e il 1864, nella Cina meridionale, un grande movimento religioso di ispirazione cristiana, quello dei Taiping, seguaci del cosiddetto “Fratello minore di Gesù Cristo”, proponevano un insieme di riforme sociali, fra cui – oltre alla fine della proprietà privata della terra – l’abolizione della fasciatura dei piedi per le bambine e l’organizzazione di eserciti femminili in nome dell’uguaglianza fra i sessi. I Taiping furono repressi e sterminati dalle armate imperiali (da 20 a 50 milioni di morti), con la fattiva collaborazione degli eserciti occidentali (pag.86-87) che fornirono le armi alle truppe imperiali.
Per il resto, cioè nella sua parte principale, il libro di Renata Pisu mi conferma che quanto finora pensavo circoscritto al Giappone (la coesistenza di varie fedi nello stesso individuo e talvolta negli stessi luoghi di culto) è invece una sorta di comune patrimonio in questa parte di Asia (non certo in India, direi, a giudicare dalle ricorrenti guerre di religione): ad esempio, in Giappone si dice che uno nasce shintoista, si sposa in una chiesa cattolica e muore buddista.
Pur essendoci – come da noi – monasteri, monaci e monache, digiuni, processioni e pellegrinaggi, nel mondo cinese la religione (ma lì non si chiama così) è una cosa diversa da come la intendiamo in Occidente: non si interessa dell’aldilà, ma della vita terrena (da cui la definizione un po’ grossolana di religioni “atee”, dove il Cielo è vuoto), e la radicale diversità delle lingue condiziona il modo stesso di pensare e di intendere le differenze. In cinese mancano le parole per dire Dio, cielo, anima, paradiso, e se mancano le parole significa che mancano i concetti. I missionari, a partire da Matteo Ricci, hanno dovuto inventarsi delle spericolate operazioni di contaminazione quando erano illuminati, o uno squallido colonialismo culturale quando invece non lo erano.