Guerrieri riluttanti: sui sommergibili e sugli idrovolanti
Il libro di Luciano Barca l’ho trovato quasi per caso: non l’avevo mai cercato, anche perché pensavo fosse “fuori corso”. Offerta speciale (cinque euro) dell’editore, ad un bellissimo seminario sotto casa su Gramsci, un’iniziativa intelligente dei residui compagni di Rifondazione (il Pd, ormai, di questa storia quasi si vergogna).
Impossibile dire di no, è un pezzo della mia vita. Leggendolo, ho visto fino a che punto era proprio così: non tanto per le frequentazioni politico-professionali al Cespe e a “Politica ed economia” negli anni Ottanta e Novanta, ma perché ho un padre coetaneo dell’autore, che ha passato gli anni di guerra nel Mediterraneo non su un sommergibile, ma sugli aerei, spesso negli stessi luoghi (Sardegna, Corsica, Malta, Napoli), finendo il suo percorso non con la Royal Navy, ma con la Royal Air Force (da qualche parte a casa, se lui non l’ha buttato, c’è il suo certificato di servizio come civile alle dipendenze degli inglesi nell’aeroporto di Brindisi). Nel libro ho anche ritrovato persone conosciute da me direttamente (la sorella Liliana, all’Udi), o indirettamente (tanti esponenti della Sinistra cristiana, da Felice Balbo, a Sebregondi, che sentivo citare dal mio primo datore di lavoro, Giuseppe De Rita, senza sapere bene chi fossero). Infine, c’è – a rafforzare il senso di vicinanza – la familiarità con il mondo protestante (per me i valdesi, per l’Autore gli anglicani) e la provenienza, più o meno prossima, da nonni (nel caso di Barca) o padri (nel mio caso) situati nelle professioni “meccaniche”. Ma questo può interessare solo me, ovviamente. Cosa invece del racconto di Barca può interessare tutti?
C’è un dato etico e anche generazionale: l’essersi trovato ad inventare per sé una regola di condotta quando non era ancora chiara la divisione di campo fra due mondi contrapposti, misurandosi con le sfide che la vita riservava, e sostenendole con dignità e con umanità, per approssimazioni successive. Per questo parlo di “soldati riluttanti”, lontani da qualsiasi fanatismo o sentimento eroico da superuomini, e tuttavia fedeli a quello che si era convinti fosse in quel momento il proprio dovere.
Non lontano da questo, c’era anche un orgoglio del saper fare, delle competenze. Barca racconta il suo apprendimento del mestiere di marinaio, fino a quel momento a lui del tutto sconosciuto. C’erano tecnici specializzati sui sommergibili, molti cognomi triestini o sloveni, spesso antifascisti. Fra i compiti che a lui spettano, quello di “fare il punto”, cioè capire dove ci si trovava nel mare, in un’epoca in cui non esisteva il GPS. La prima volta che nel libro ho letto delle “quattro stelle” automaticamente le ho associate a una qualche classificazione (alberghiera o libraria), che non c’entrava niente col contesto. Dopo un primo disorientamento, mi è venuto in mente che le quattro stelle erano gli astri: Orione, Vega, le costellazioni, gli unici riferimenti che permettevano a chi era in mare di non perdersi. Leggere le stelle era fondamentale, e saperlo fare richiedeva un rapporto più diretto con la natura di quello filtrato oggi da qualsiasi congegno elettronico. O anche un rapporto con le cose materiali che ad un intellettuale di formazione idealistico-crociana sarebbe stato piuttosto estraneo.
Un orgoglio tecnico, artigiano e operaio, si direbbe. Continuando l’accostamento a mio padre, mi viene in mente quando sulle pagelle delle bambine, all’indicazione allora obbligatoria della “professione del padre”, lui pretendeva di scrivere “operaio”, anche se da vari anni non lo era più. Aveva messo su un’officina metalmeccanica in proprio, e se insisteva a definirsi operaio, forse era per timore di sembrare troppo ricco, ma anche perché del mestiere di operaio si sentiva orgoglioso.
Del resto non era il solo a pensare che non ci fosse nulla di miserabile nel definirsi operaio. Ilvo Diamanti scrive che ancora nel 2006 il 60,5% degli operai si definiva appartenente alla classe media, mentre oggi tale percentuale si è dimezzata (31%). Una discesa verso il basso che ha riguardato un po’ tutte le categorie professionali, ma che per gli operai è stata molto più forte, e non poteva essere diversamente.
Sul sommergibile Luciano Barca non esercitava solo abilità “tecniche” sulle cose, ma anche responsabilità sugli uomini, vivi e morti. Per esempio, racconta di come rientrasse fra i suoi compiti anche quello di “bonificare” gli effetti personali da recapitare alle vedove dei compagni perduti, per eliminare tracce di eventuali relazioni con altre donne che – a quel punto – potevano solo provocare inutile dolore (“l’operazione è sacrosanta, ma è dura. La violazione dei segreti più intimi di chi è stato fino a pochi giorni fa accanto a noi non può che lasciare turbati”).
Molto articolato e pieno di sfumature lo sguardo rivolto a chi stava dall’altra parte. Di Junio Valerio Borghese, allora comandante del sommergibile Scirè e negli anni Settanta organizzatore di falliti tentativi golpisti, non esita a riconoscere le notevoli capacità militari. Come anche ricorda la collaborazione ricevuta, anni prima, da un giovane fascista per montare un’antenna radio in grado di captare le trasmissioni della radio inglese. Del clima che si respirava in Marina, riporta alcuni episodi significativi: quello del comandante che – cenando al ristorante – fa voltare contro il muro il ritratto di Mussolini, per non trovarselo davanti anche lì, e quello del comandante del sottomarino che – rivolto ai quei sommergibilisti animatamente intenti a discutere senza remore di politica, fra cui lo stesso Barca – li invita almeno a chiudere l’interfono.
Le vicende storiche porteranno successivamente il protagonista a impegnarsi direttamente, prima nella Sinistra cristiana e poi nel Pci. Trovo molto interessante la ricostruzione onesta e priva di retorica del percorso, apparentemente incerto, con cui è approdato a questo esito.
Debbo infine una riparazione, nella mia memoria personale, a Liliana Barca. Anche se il suo impegno per le donne e con le donne l’ho conosciuto direttamente, me l’ero sempre immaginata come “la sorella di un fratello più importante”: invece dalle parole di Luciano emerge che lei, ben prima del fratello, e indipendentemente da lui, a Roma entrò in contatto con la Resistenza e vi collaborò attivamente.