I mille volti dell’eversione femminile
Un’autrice prolifica, Valeria Palumbo, la cui ultima opera, dedicata a svelare “l’altra ribellione femminile che cambia mode, atteggiamenti culturali e rapporti di forza”.Attraversando le arti e il costume, l’autrice delinea a tutto tondo il profilo dell’eversione quando sia costretta o cercata o accettata per essere fedeli a se stesse.
Non necessariamente essa è immediatamente riconoscibile dalla protagonista, mentre lo è agli occhi maschili e della società che guarda al mondo con occhi di uomini. D’Annunzio, per esempio, che aveva “confezionato e cucito addosso” a Eleonora Duse “diva tragica e magnetica per eccellenza” quasi tutti i suoi drammi, avendo “di fatto intuito una nuova (o eterna) debolezza del maschio di fronte a una crescente forza femminile, ebbe una reazione (del poeta e degli uomini che ebbero la stessa intuizione), inevitabilmente violenta.”
Donne “imprendibili”. Pirandello, altro esempio, “trovò un’altra facile soluzione per le sue donne disobbedienti e adultere: il manicomio”, affatto originale in questo in quanto il manicomio dalla sua invenzione, nel ‘500, servì come strumento d’intimidazione e repressione prima che di contenzione e nascondimento e separazione delle vite di tante donne, di tutte le età, volenti o nolenti disobbedienti.
Altra soluzione maschile indagata: il disprezzo. Qui l’autrice non deve aver faticato a trovare esempi ed è perciò ancora più pregevole la citazione, nel capitolo dedicato a “tentazioni dipinte”, dell’inglese Collier, “ritrattista e pittore di scene di genere in apparenza storiche, in realtà sensualissime. Un vero erotismo d’autore” che virò sempre più verso il sadico nel rappresentare donne della storia antica e recente, unendo a questa vena di puro maschilismo scelte politiche “progressiste, attente alle cause sociali.” Neppure lui troppo originale.
Come non parlare di Lilith in un simile libro? E c’è. Cinque pagine di corsa nei millenni sul “demone prestato dalla mitologia alla letteratura”. Dalla Lilith biblica a quella “rivalutata da Rossetti in quanto donna fatale che conduce l’uomo alla perdizione e oggi un’icona femminista” alla sua rappresentazione cinematografica, anzi all’essersi tramutata in star, ma sempre “Lilith, o della paura”; paura maschile, naturalmente.
Rosa Rosà, artista futurista, è un’evocazione molto bella nell’anno che celebra il futurismo e troppo spesso ne dimentica la componente e l’apporto femminile. “Una Rosa è Rosa Rosà” intitola l’autrice il capitolo dedicato agli intrecci tra futurismo e letteratura rosa, giocando sul nome e puntualmente facendo rassegna di tante “ribelli” che nel vorticosi Anni Venti ruppero vari clichés femminili, tra le quali la moglie di Marinetti, Benedetta Cappa, letterata e artista; Fida Kalo “così concentrata sul suo personaggio che ha pouttosto reinvenato, in forma colta e trasgressiva, una “Carmen messicana”; la baronessa Elsa von Freytag-Loringhoven che “nella sua originalissima ricerca, fu più innovativa perfino dei suoi trasgressivi amici.”
Un sostanzioso passaggio l’opera la dedica alle “cortigiane. Le antenate delle dive”, di cui si trattano le difficili vite tra ‘800 e ‘900, rintracciandone le vere origini e il protagonismo eversivo anche rispetto agli ambienti della loro contemporaneità. Un piccolo gesto eternizzò Lola Montez, nata il 17 febbraio 1821, portatrice del misogino soprannome “Grande Orizzontale”: “fu la prima donna in assoluto a farsi fotografare con una sigaretta in bocca.”
Nata nella contea inglese di Sligo, dal nome comune di Elizabeth Rosanna Gilbert, Lola, dopo un difficile esordio artistico sostenuto da molti amanti, esportò in tutta Europa la “danza del ragno”, ispirata alle convulse contorsioni delle tarantolate di ben altro spessore e valenza millenaria. Nota per la sua originale personalità quanto per la violenza dei rapporti che allacciava e subiva, per le risse con altre donne, per le frustate che dava in faccia quando qualcuno l’importunava, Lola rappresentò fino in fondo se stessa sulla scena del mondo.
Ed è sempre il divismo, la rappresentazione del sè, ad intrigare particolarmente l’autrice. “Vipera e divina: così nascono vamp e dive” intitola il settimo capitolo, e la prima diva italiana, la donna per la quale fu coniata la parola stessa “diva” fu Elena Seracini Vitellio, fiorentina, che esordì sulle scene napoletane nella compagnia dialettale di Eduardo Scarpetta, nota come la grande Francesca Bertini. “La prima ad intuire che quanto più avesse alimentto il senso di mistero intorno alla sua figura, tanto più si sarebbe consolidata la sua aurea mitica.”
Un libro ricchissimo, dunque, che termina raccontando come la stampa costruisca la nuova donna – nei periodici e nei quotidiani con testate famose come Novella che negli anni Venti del Novecento coniugava una spolveratura di modernità, firme prestigiose anche di donne, a un messaggio sostanzialmente tradizionale, e il cui direttore Mariana “era pronto a concedere spazio letterario alle donne. Ma nulla di più. In fondo era quello che rivendicavano gran parte delle nostre scrittrici e artiste: solo uno spazio creativo e al diavolo i diritti. Oppure, peggio ancora, ben venga il fascismo e l’Uomo forte: del superomismo nietrzchiano si erano nutriti tutti. Non poteva annegare soltanto nelle trincee.”
Conclusioni. In poche pagine l’autrice evidenzia e significa la trama e l’ordito di un’opera iscritta nel femminismo. Un pensiero di genere che è il filo di tutta la sua produzione: Prestami il volto (2003 premio Paese delle donne; Lo sguardo di Matidia (2004); Le donne di Alessandro Magno (2005); Donne di Piacere (2005); La perfidia delle donne (2006); Svestite da uomo (2007).
In ultimo, un apprezzamento alla bibliografia (tre pagine), che rimanda a interessanti approfondimenti ed elenca opere rintracciabili in libreria o negli archivi delle donne.
Palumbo Valeria, {{Le figlie di Lilith: vipere, dive, dark, ladies e femmes fatales. L’altra ribellione femminile}}. – Roma: Odradek, 2008.
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