I non detti del movimento #me-‐too
I non detti del movimento #me-‐too Correva l’anno 1992 quando fu dato alle stampe il libro ‘ Giù le mani ’ di Adele Grisendi, un’impressionante raccolta di testimonianze su molestie sessuali e ricatti nei luoghi di lavoro. Per questa pubblicazione Adele, dirigente della Cgil, fu denunciata; nel libro documentava con precisione luoghi e responsabili delle molestie, e ne raccontava le conseguenze sulla vita quotidiana delle donne coinvolte.
Invitammo Adele a presentare il suo libro alla Casa delle Donne di Pisa e il quotidiano locale annunciò l’evento col titolo ‘Quali azioni punitive contro le molestie sessuali? ’ mentre nel nostro comunicato si parlava, non a caso, di ‘azioni positive contro le molestie’. Non sapremo mai se fu una svista o una scelta per screditare la nostra attività di femministe. E tuttavia quella denuncia circostanziata di pratiche vessatorie e di comportamenti predatori da parte di molti datori di lavoro non suscitò particolare stupore. Ognuna di noi poteva riconoscersi nelle storie raccolte. Era risaputo che erano comportamenti largamente diffusi e, in parte, anche socialmente accettati. Certo si parlava di donne comuni, operaie, impiegate, infermiere, insegnanti, studentesse, assistenti domiciliari e cosi via.
Questo segna la differenza con l’oggi quando, per effetto delle denunce di alcune dive del cinema americano, si è scoperto che molte di loro per ottenere la partecipazione a film di successo hanno dovuto subire ricatti di natura sessuale. Dopo le prime denunce un’onda di tsunami sembra aver investito il mondo dorato di Hollywood. Non ci si deve meravigliare dell’eco suscitata a tutti i livelli: viviamo nella società dello spettacolo e le attrici incarnano la quintessenza del sogno, in virtù della loro bellezza e del loro fascino. Ma, una volta di più, niente di nuovo sotto il sole.
La splendida Marilyn Monroe, quando ottenne il suo primo contratto permanente con una famosa casa di produzione, pare abbia esclamato trionfante: “Finalmente posso smettere di fare blow jobs”. E non credo ci sia bisogno di sofisticate interpretazioni per capire di che si trattava. Su quanto sta succedendo, il punto da indagare mi sembra tuttavia un altro. Davvero le attrici che, a distanza di anni, denunciano le loro umilianti esperienze si possono ‘autoassolvere’ presentandosi come vittime sacrificali, immolate sull’altare delle esigenze dell’arte? Quella zona grigia di ammiccamenti, di ambizioni non confessate, di rassegnazione alle regole del gioco è davvero un percorso obbligato cui non ci si poteva sottrarre? E le altre, quelle che si sono rifiutate di sottostare alle imposizioni del produttore-‐regista di turno che fine hanno fatto? Sono andate avanti o sono state cancellate? Chi ci dice che non avessero più talento di quelle che hanno assecondato -loro malgrado- le “voglie’’ del potente di turno? E ancora. Questi produttori o registi assatanati al punto da non avere alcuna remora a presentarsi nudi ai colloqui di lavoro, dove sono stati educati? Che infanzia hanno avuto? Con quali modelli di comportamento si sono misurati?
Verrebbe da pensare che siano stati allevati in club esclusivi di soli maschi; in androcei -per intenderci- dove la presenza femminile è bandita e anzi delle donne si favoleggia che abbiano come unica ragione d’essere quella di compiacere le voglie maschili, di consentire ai maschi l’esercizio -mai abbastanza soddisfatto- di forme senza limiti di onnipotenza e di dominio. Può essere ma è poco probabile. Temo piuttosto che questi individui cosi sicuri di sé e della legittimità delle loro pretese abbiano avuto a che fare nel corso della loro esistenza con persone di sesso femminile assolutamente prive di qualunque autorevolezza, di amore di sé. Donne adoranti che li hanno vezzeggiati e incoraggiati con la loro arrendevole sudditanza a comportarsi come sultani. Il disprezzo che questi uomini mostrano verso le donne, il gusto perverso che essi manifestano di umiliarle ha radici lontane.
Ma in questa secolare vicenda di relazioni malate le responsabilità non stanno tutte solo da una parte. Le madri che mettono sull’altare il figlio maschio cui tutto viene concesso e perdonato, non possono tirarsi fuori dagli esiti perversi di questa modalità di (dis)educazione alla vita adulta e alla relazione. Di questo però non si può parlare, neanche sottovoce, perché subito si viene additate come ‘nemiche’ delle donne. Chi sottolinea le zone d’ombra nella dialettica vittima-carnefice, è colpito da anatema. Scaricare tutte le responsabilità solo sulla parte maschile significa considerare la donna una “minus habens”, incapace di uscire da una condizione di minorità permanente, effettiva e insormontabile. Le prese di posizioni collettive, le denunce a posteriori, le manifestazioni sono sicuramente utili, ma il cambiamento reale passa dall’educazione e dalla pratica del conflitto, esercizio quotidiano che investe la responsabilità individuale di ciascuna e che non si può delegare ad altre/i !
Luciana Piddiu Ferney-‐Voltaire, 9 Febbraio 2018