Il contributo delle donne alla lotta di liberazione. Dagli atti di un convegno torinese del 1974
La Il 25 aprile è l’anniversario della Liberazione dell’Italia dall’occupazione nazista e dal regime fascista. Si chiama anche anniversario della Resistenza, fondamento della Repubblica democratica e laica, fondata sul lavoro come recita la nostra Costituzione stesa da madri e padri che avevano conosciuto la dittatura e la guerra e intendevano sventarne altre. Il 25 aprile 1945 il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia (Clnai), con comando a Milano, «chiamò allo sciopero generale contro l’occupazione tedesca, contro la guerra fascista, per la salvezza delle nostre terre, delle nostre case, delle nostre officine. Come a Genova e a Torino ponete i Tedeschi di fronte al dilemma: arrendersi o perire.» Bologna (21 aprile), Genova e Torino (23 aprile), Milano (25 aprile), Venezia (28 aprile) insorsero liberando i territori dell’Italia del Nord ancora occupati dai nazifascisti, prima dell’arrivo degli Alleati. Dal 1 maggio 1945, il Clnai emise decreti legislativi “in nome del popolo italiano e quale delegato del Governo Italiano”, includenti la condanna a morte dei gerarchi fascisti. Benito Mussolini fu raggiunto nella fuga e fucilato con Claretta Petacci tre giorni dopo; i loro due corpi, appesi a testa in giù a Piazza Loreto. La fine formale della guerra data al 3 maggio 1945, con la resa dei nazifascisti agli Alleati. Ogni anno, il 25 aprile ci ricorda “madri e padri” cui dobbiamo la nostra libertà e una Costituzione talmente avanzata da non essere stata ancora in parte realizzata, specie nei primi articoli che risentono degli indirizzi e delle scelte, trasversali, delle “madri” costituenti. Rimane perciò una data sensibile, specie nel doppio anniversario del settantesimo della Repubblica e del suffragio femminile/universale. Tra le tante proposte possibili, abbiamo scelto quella di far parlare le protagoniste, resocontando un convegno avvenuto il 25 aprile…ma del 1974, promosso dal Consiglio regionale del Piemonte e dal titolo attualissimo: Il contributo delle donne alla lotta di Liberazione (1922-1945).
Sedute a un tavolo, sul palcoscenico del Teatro Alfieri, sei amiche dai nomi salienti dell’antifascismo, della Resistenza e della Liberazione, della ricostruzione culturale e politica dell’Italia post-bellica, tennero una splendida “lezione” a molte classi di Scuole medie. Ravera, Malan, Lusso, Tedeschi, Mantica Pallavicino, Gallesio Girola, raccontarono le loro esperienze antifasciste, i pericoli e gli entusiasmi della lotta clandestina, gli alti costi per tutte e, per alcune, la prigionia e la deportazione; per ogni italiana fatiche e sofferenze. La giovanissima platea, già nel 1974, ammutolì davanti a quelle donne cui doveva diritti e libertà e che la fece ragionare sulla costruzione dello stato, laico e democratico, e di una Costituzione di cui si giovava. Le tempestarono di domande, anch’esse ancora attualissime, sulle loro scelte.
Camilla Ravera, arrestata nel ’30, condannata dal Tribunale Speciale come ‘persona pericolosa’, detenuta per 5 anni in carcere, confinata per 8 anni tra Ponza e Ventotene, con già alle spalle decenni di storia ufficiale e clandestina del Partito Comunista, descrisse gli esordi del fascismo in una “società molto provata dalla prima Guerra Mondiale, in un clima di promesse di nuovo benessere, di ricchezza, di potenza (…); in realtà bisognava trasformare la produzione, produrre altri beni e ciò costava tempo, denaro, fatica nuova, imponeva sacrifici ai lavoratori: disoccupazione per molti, salari diminuiti, aumento dei prezzi in modo continuo e rapidissimo, diminuzione del potere di lotta contrattuale dei lavoratori.” Ravera spiegò che, in tempi di proteste nelle fabbriche e nelle campagne, “una parte degli industriali adottò contro gli operai le stesse tecniche usate contro gli agrari; finanziarono, armarono attrezzarono le squadre fasciste che ebbero la possibilità di trasportarsi da una regione all’altra seminando lutti, violenze e crimini.” La sottovalutazione del fenomeno, considerato delinquenza comune e passeggera, aprì la strada a una sempre maggiore e facilitata organizzazione fascista che dopo “la marcia su Roma” (1922) fruttò a Mussolini l’incarico di Governo affidatogli da re Vittorio Emanuele III.
Iniziò allora, con prudenza ma con sempre maggiore organizzazione, l’antifascismo, la resistenza al regime che esplose con la protesta per la cosiddetta “legge truffa”, la riforma elettorale che premiava la lista che avesse ottenuto il maggior numero di voti con i due terzi dei deputati e il rimanente terzo da dividersi tra le liste proporzionalmente ai loro voti. Ricordiamo che all’epoca il suffragio era censorio, non riguardava le donne ma neppure una gran parte degli uomini. Giacomo Matteotti pagò con il rapimento e la vita l’aver contestato le pratiche e le normative fasciste e contestato la validità della Camera e di quelle elezioni. Nel parlare del bavaglio messo alla stampa, del silenzio su ciò che avveniva, se contrario alle finalità e alle idee di Regime, Camilla Ravera spiegò come fossero nate e prolificate testate clandestine, utili a tenere i collegamenti e a mobilitare la popolazione; come sempre più gente s’impegnasse alacremente nella clandestinità e nel suo supporto e come desse eco alle tante proteste, anch’esse silenziate, del mondo del lavoro. Es. i grandi scioperi del ’27 e del ’31 delle mondine del Vercellese e del Novarese che rischiando la vita ottennero qualche protezione dalle sanguisughe e dalle zanzare e un qualche salario oltre al sacco di riso. “C’erano molte semplici donne del popolo che davano aiuto alla resistenza in mille modi, compiendo piccole azioni che nell’insieme formavano come un cemento il quale unificava e saldava le forze crescenti antifasciste» proseguì Cederna, al proposito ricordando il gesto di Rosa Bertoni, la guardiana del reparto femminile del carcere di Varese dove lei era entrata nel 30 e che le era sempre stata ostile; una mattina, all’alba, circa un mese dopo l’inizio dei duri interrogatori, Cederna aveva visto la guardiana entrare nella sua cella e porgerle un uovo e una fialetta di marsala: “Lo beva! Quelli sperano che lei perda le forze, che muoia. Sono una povera donna, ho dovuto accettare questo lavoro perché ho mio marito malato, ho ascoltato dietro la porta gli interrogatori. Ora so chi è lei, è dalla nostra parte e mio marito le manda questo unico uovo della nostra gallinella, destinato a lui».
Non meno appassionato il racconto di Frida Malan, partigiana combattente della V Divisione Alpina G. L., che alla domanda ricorrente “come e perché” fosse diventata una partigiana chiarì innanzitutto che “partigiane e partigiani avevano tentato di risolvere il problema di aiutare il Paese a realizzarsi, a cambiare regime, a diventare libero” e che “Le nuove generazioni di allora avevano dietro le spalle solo il fascismo e, tranne chi proveniva da famiglie antifasciste, non avevano modelli a cui collegarsi. Perché tanti giovani si sono ribellati? Donne e uomini sono andati in montagna per nessun altro motivo che per libera scelta e la ribellione spontanea. Non volevano più saperne di un mondo in cui per loro era diventato impossibile vivere. La ribellione è stata esclusivamente desiderio di libertà contro i molteplici divieti della censura. Libertà di pensiero, di parola, di stampa, libertà di studiare sui testi in cui si credeva, anche se gli autori vivevano oltre confine e, come democratici, erano dalle autorità vietati e vilipesi.” Malan ricordò che le partigiane si descrissero così sul giornale clandestino “Noi Donne” (gennaio 1945):
Vogliamo che tutti sappiano chi siamo e come siamo, vogliamo che tutti sappiano che partigiani non sono solo soltanto i giovani che insorgono contro l’arbitrio nazifascista per sottrarsi alle imposizioni di violenze e di sangue. Ma tutti i combattenti per un’idea che non si è spenta, ma chiarificata, sempre più illuminata in oltre vent’anni di oppressione, di carcere politico e di emigrazione. E vogliamo anche che si sappia delle donne partigiane. Siamo sorelle, spose, madri, donne come tutte le donne del mondo. Noi non siamo le vivandiere d’un allegro esercito di predoni e d’avventurieri, ma dividiamo con loro tutti i disagi. Quando la sera ci avvolgiamo nella nostra coperta sulla paglia della baita, accanto ai nostri fratelli, prima che gli occhi si chiudano nel pesante sonno della stanchezza, i nostri discorsi sono i discorsi di tutta la gente libera, amante della libertà, discorsi che preparano il nostro faticoso lavoro del domani e i nostri sogni sono quelli di tutte le donne che vogliono una vita utile e sana, sogni di un focolare caldo e accogliente e di un lavoro dignitoso insieme a una famiglia felice e una società di uomini liberi.
Ribadendo il ruolo essenziale delle staffette che permettevano i collegamenti e i rifornimenti alla rete antifascista e antinazista, Malan affermò che “senza di loro la Resistenza non si sarebbe realizzata. Erano le staffette che portavano gli ordini da formazione a formazione; giravano in bicicletta in pianura con gli esplosivi nelle canne della bicicletta; portavano nascosti nelle valigie e nei sacchi di montagna gli sten e tutto ciò era importante per la lotta armata: anche i giornali clandestini che si leggevano in montagna.” “Tratto distintivo della donna italiana del periodo”, proseguì Malan “fu l’adesione delle tante che sentivano questi problemi, qualunque fosse l’età, qualunque la religione, cattoliche protestanti, ebree, atee. Hanno iniziato nei modi più diversi: le studentesse sono state le prime a gettarsi nella lotta clandestina, avevano desiderio di libertà e giustizia e capivano che il mondo in cui vivevano non era quello adatto a uomini degni di questo nome. Il sentimento della giustizia è quello che ha determinato la ribellione di molte donne della campagna; volevano un altro mondo, erano esasperate. (…) c’erano anche le leggi razziali, contro gli ebrei. Perché? Nessuno poteva accettare che improvvisamente l’insegnante con cui aveva trascorso anni di scuola fosse nemica della Patria. Quale Patria? Non può esistere una Patria che ti dice di far del male a coloro che ti hanno fatto del bene e nega tutti i tuoi principi. Questa non è Patria.” Frida Malan descrisse a fondo la vita delle partigiane, in montagna, sottolineandone gli aspetti paritari, emancipatori: “L’interesse comune era la loro meta nella lotta quotidiana in cui diventavano elementi coscienti, cittadine vere (..). La vita non aveva più barriere in quel periodo fra uomini e donne, entrambi facevano qualsiasi cosa servisse e fosse indispensabile alla lotta comune. Questo sentimento proiettato nel futuro è espresso chiaramente in un manifesto femminile clandestino di ‘Giustizia e Libertà’: Noi lottiamo perché le donne mantengano quel posto che si sono conquistate col sangue e con le lacrime. Questo manifesto è la prova che la donna, pur nelle battaglie, pensava già al domani e voleva, sperava, che finita la guerra la piena collaborazione fra uomo e donna continuasse; quella collaborazione nata nei momenti difficili e insieme si costruisse il nuovo mondo: accanto all’uomo siamo state durante la lotta, a fianco dell’uomo intendiamo rimanere nell’opera di ricostruzione. Si cercava una giustizia, una giustizia effettiva; tute le conquiste che le donne hanno realizzato in questi anni sono conseguenze di quel che è avvenuto allora e non tutto è ancora stato ottenuto!”
Nel citare, come le altre relatrici, i nomi delle donne di ogni età ed estrazione e condizione e lavoro cadute per la libertà, Frida Malan ha ricordato, commossa, la maestra e partigiana Cleonice Tomasetti, che una fotografia ritrae mentre cammina verso la fucilazione in testa alla colonna di 42 partigiani costretti dalle S.S. ad attraversare a piedi Intra, Pallanza, Suna, Fondo Toce sotto la minaccia dei mitra e con il cartello al collo “Sono questi i liberatori d’Italia oppure sono banditi”. Cleonice e gli altri furono fucilati a Fondo Toce (Verbania) il 20/6/1944 e lei “fu di grande esempio ai compagni, li sostenne con il suo coraggio e cadde gridando ‘Viva l’Italia’; aveva 32 anni.”
Nelle conclusioni, Malan ha rinnovato alle classi l’invito a ricordare che ” la libertà di cui godete vi è stata data grazie a coloro che si sono battuti allora” e che “bisogna lottare per un mondo in cui ci sia giustizia sotto tutti gli aspetti. Non c’è giustizia senza libertà e non c’è libertà senza giustizia.”
Delle staffette e delle attività antifasciste delle donne, in Piemonte, parlò Anna Rosa Gallesio Girola, “animatrice e organizzatrice dei Gruppi di Difesa della Donna e per l’assistenza ai combattenti per la libertà nati nel novembre del ‘43 a Milano e subito diffusi nell’Alta Italia ed in tutti i territori occupati.” Il loro giornale clandestino era “La difesa della Lavoratrice”. “I Gruppi erano numerosissimi e molto attivi” sottolineò Gallesio Girola descrivendone la capillare organizzazione clandestina tesa “a raggiungere, con il minor rischio possibile, la più ampia base popolare. Fu questo il primo lavoro. Stabilite le rappresentanze dei vari partiti (clandestini), si costituì un Comitato Organizzativo Generale che doveva predisporre le linee dell’azione comune. Le città erano divise in settori e ciascuna aveva precise responsabilità: tenere i contatti tra Gruppi, fare propaganda nella zona, avvicinare le famiglie dei caduti e dei carcerati.” “In quei tempi di disgregazione e di terrore”, ha proseguito “mancavano fonti di regolare informazione, ma le reti dei Gruppi riuscivano a giungere quasi ovunque. Mentre gli episodi più tragici e clamorosi erano subito noti, più difficile era sapere di arresti, fughe, rastrellamenti di civili – molti dei quali non sapevano dell’esistenza delle organizzazioni clandestine – da deportare in Germania. Le donne alloggiavano ammalati, nascondevano i fuggiaschi, i condannati a morte, gli ebrei. Spesso, in montagna ed in collina, erano le più anziane, meno esposte alla rappresaglia nazifascista (e tra loro madri di parroci e madri di pastori valdesi) a chiudere gli occhi a partigiani e partigiane uccise.” Gallesio Girola, rappresentante della Dc nel Cnl – e nel dopoguerra giornalista (n. 2 dell’o.d.g), e assessora D. C. alla Provincia di Torino) – ha ricordato che i Gruppi furono ufficialmente riconosciuti dal Cnl come “organizzazione unitaria che agisce nel quadro delle proprie direttive, ne approva l’orientamento politico ed i criteri d’organizzazione, apprezza i risultati finora ottenuti nel campo della mobilitazione delle donne per la lotta di liberazione nazionale”. Essi aderirono al Cnl che invitò “tutte le donne italiane e in particolare le aderenti ai partiti del Cnl, a collaborare alle loro iniziative volte alla mobilitazione delle masse femminili ed alla loro partecipazione alla lotta insurrezionale per la cacciata dei tedeschi e dei fascisti dall’Italia.”
A sua volta Albina Lusso, esponente delle organizzazioni sindacali, aderente ai Gruppi, parlò del loro ruolo di sostegno anche degli scioperi nelle fabbriche di cui era stata un’organizzatrice.
Benchè sia trascorso molto tempo, data la drammaticità del tema delle ultime due relazioni del convegno torinese, si può immaginare l’impressione che possano aver fatto sulla giovanissima platea: Giuliana Tedeschi, professora, deportata razziale a Auschwitz, testimoniò al processo di Berlino del 1971-’72 contro il nazista Friedrich Bosshammer responsabile di atrocità, eccidi e deportazioni di ebrei ed ebree italiani/e.
Camilla Mantica Pallavicino, partigiana nelle formazioni autonome del Cuneese, deportata politica a Rawensbruk, parlò invece di quel lagher tutto femminile sul quale segnaliamo i due libri “il cielo sopra l’inferno” di Sarah Helm e quello fotografico “Rawensbruk”, di Ambra Laurenzi, presentati unitamente, il 21 aprile c. a., alla Casa internazionale delle donne (Roma) in un incontro coordinato da Carla Guidi, partecipato da Anna Foa e di cui daremo in seguito resoconto.
Camilla Mantica Pallavicino, deportata politica, nel convegno torinese del 1974, mise in luce un aspetto del fascismo e dell’antifascismo poche volte visitato. “Io appartenevo a quella categoria d’italiani, purtroppo erano tanti, fascisti di nome ma non di convinzione, che non avendo contatti diretti con elementi antifascisti di valore, sentivano molte critiche al regime ma non avevano la fortuna di ascoltare in merito discorsi costruttivi. La scuola non mi aveva certo aiutata a formarmi una coscienza politica. I nostri temi scolastici, tolto alcuni di letteratura, erano tutti d’impronta fascista; sapevamo tutto anche sui parenti di Mussolini (…) Chi aveva contatti diretti con i partiti clandestini aveva una preparazione e le donne che facevano parte di queste organizzazioni all’8 settembre sapevano cosa fare, per loro era tutto chiaro, ma per le altre?”
La consapevolezza, per Mantica Pallavicino giunse dopo l’8 settembre quando, nel disastro, cominciò ad aiutare bande partigiane in formazione autonoma in città: gruppi di ex militari e di civili. Arrestata “troppo presto e avendo fatto troppo poco” entrò a Rawensbruk “i lagher erano così perfetti da riuscire a ridurre i loro abitanti in automi (…) Le superstiti dei campi di deportazione sono poche e possono ritenersi fortunate. Solo il mio gruppo era di 40 persone all’andata e in meno di dieci siamo ritornate. “Nella sofferenza tutto è molto relativo: quando si crede di aver toccato il fondo di tutte le cose peggiori che si possano provare, di essere pronti a tutto, si deve riconoscere che ci può essere ancora qualcosa di peggio.” Nel campo, le italiane erano una minoranza, forse 500 fra le 40.000/50.000 donne di tutti i paesi, molte le polacche e in generale quelle dell’est. C’erno anche le zingare, razza da eliminare, e una setta di donne anziane tedesche (Lettrici della Bibbia). Prima che i nazisti portassero a Rawensbruk le superstiti di Auschwitz e cominciassero a far funzionare i forni crematori notte e giorno, nel campo non c’erano camere a gas e i forni eliminavano i cadaveri o ritenuti tali.” Morivano d’inedia, di malattie, di fatiche, di disperazione, di fame. La nostra era una fame che faceva dimenticare qualunque altra cosa, una fame che diventata un incubo cui non ci si poteva abituare. (…) Le ore e i minuti della sofferenza sono interminabili invece stranamente non ci si accorge del trascorrere delle settimane e dei mesi.”
La rigida gerarchia di comando, con addette alle camere e ai blocchi (case) “era formata da donne che, devo precisare, erano scelte fra le asociali e le criminali comuni tedesche; su loro regnavano indiscusse le auserin, le donne S. S. in stivaloni e divisa. Molte volte mi domandavo come potessero queste donne essere delle madri di famiglia, allevare dei figli ed essere allo stesso tempo delle sadiche fino all’eccesso.”
Non era previsto che la Germania perdesse la guerra. Non è vero che non sapessero. “La mia colonna di lavoro attraversava tutti i giorni la cittadina di Furstenberg; a quell’ora mattutina le donne del paese entravano ed uscivano dai negozi per la spesa; i nostri zoccoli si trascinavano sul selciato; il nostro aspetto doveva essere raccapricciante, ma queste donne non ci vedevano, non ci sentivano, noi avevamo l’impressione di essere per loro degli spiriti.”
Ancora molto si potrebbe dire sulla ‘lezione’ al Teatro Alfieri per il 25 aprile del 1974, ripetiamo, di ancora grande attualità. Ricordiamo che una sua parte entrerà nella mostra itinerante 1946: il voto delle donne, che partirà da Roma (31 maggio-4 giugno), toccando Castelluccio di Porretta Terme (29 luglio-16 agosto) e a ottobre l’università di Cassino e del Lazio Meridionale.
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