Il corpo delle donne è la misura della democrazia di Monica Lanfranco
“La scuola ha bisogno di credibilità e autorevolezza. La credibilità è come la verginità, se si perde non si può più riacquistare. Non possiamo più credere alle sue parole, troppe sono state negli ultimi mesi le contraddizioni in cui lei, ministro, è caduta e che hanno generato confusione e l’impossibilità di garantire agli studenti della scuola italiana statale e paritaria la continuità didattica”.
Lo ha detto, rivolgendosi alla ministra dell’Istruzione Lucia Azzolina, il vicepresidente dei senatori di Forza Italia, Giuseppe Moles, durante il Question time al Senato dei giorni scorsi.
Un evergreen, un intervento che, se ce ne fosse ancora bisogno, rende palese come ad un uomo, per depotenziare una donna, anche la più autorevole e potente, basta alludere direttamente o indirettamente alla sua sessualità o al suo (presunto) comportamento sessuale. Nella legittima critica di un esponente dell’opposizione all’operato, in un settore specifico, di una ministra in carica cosa c’entrava la citazione della verginità, se non a rimetterla al suo posto, senza entrare nel dettaglio della questione, come di certo si sarebbe fatto con un ministro?
Altra caratteristica tipicamente legata alle donne e al loro corpo: essere identificate come tutto attraverso una parte. Su questo aspetto Eve Ensler ha, per anni, raccolto testimonianze fino a fare diventare il libro dove le ha raccolte, I monologhi della vagina, uno spettacolo teatrale che gira il mondo da due decenni.
Nancy Friday, nel suo Il potere della bellezza, mette in guardia circa l’arma più potente che gli uomini hanno a disposizione, e usano con dovizia da sempre, per tenere a bada l’altra metà del mondo: il discredito che soltanto sulle donne si può gettare quando si insinua la loro dubbia moralità sessuale. Susan Brownmiller nel suo Femminilità afferma: “La femminilità è essenzialmente un sentimento romantico, una tradizione nostalgica di limitazioni imposte. Piace agli uomini perché permette loro di apparire, per contrasto, più virili”.
Nel documentatissimo Anatomia dell’oppressione Inna Shevchenko e Pauline Hillier annotano: “Il culto della verginità è un tema ricorrente delle ossessioni religiose, all’origine di molte violenze contro le donne. Violenza morale prima di tutto, un provvedimento arbitrario a non disporre liberamente della sessualità, e poi violenza fisica: test di verginità, mirati per deflorare le vergini, rapimenti di ragazze, operazioni chirurgiche per ricostruire l’imene e crimini d’onore dovrebbero riparare l’affronto familiare per la perdita della verginità fuori dal matrimonio. Di fatto, in un regime teocratico, una giovane deflorata dallo stupro sarà spesso consolata da una prova di verginità forzata, insulti, pestaggi e, a volte, persino una condanna a morte. Favole religiose sulla verginità e le vergini incinte nutrono l’ossessione maschile. Nella sua visione idealizzata della donna, la religione dipinge un’icona di donna modesta, riservando l’accesso alla sua vagina al marito, cui ha affidato la chiave della sua prima notte di nozze. Tra i vari personaggi subalterni, i tirapiedi e altri ruoli secondari femminili, le vergini incontaminate si distinguono come ideale femminile. Nell’Islam, sono le 72 vergini offerte in premio ai martiri della jihad; Aisha, giovanissima moglie del Profeta, sposata forzatamente all’età di 6 anni. Nella Torah, sono Sarah, Rebecca, Lea e Rachele, mogli dei fondatori di Israele, Abramo, Isacco e Giacobbe. Nella Bibbia è la Vergine Maria l’icona suprema; la Santa Madre che ha realizzato l’impresa di rimanere incinta vergine e mantenendo l’imene dopo il parto: tale prodezza l’ha portata a essere la madre vergine più elogiata di tutti i tempi e il cui straordinario successo è celebrato all’unanimità da ebrei, cristiani e musulmani. Una santa venerata dai cristiani, diventata il terzo orecchio a cui sussurrare preghiere, ricordando che, se Maria è ‘piena di grazia’, è perché ‘brilla della bellezza del figlio’.”
Non sappiamo se l’onorevole Moles abbia riflettuto, prima di esibire la sua metafora, sul significato delle sue parole e sul contesto nel quale le stava esprimendo, ma l’esternazione una informazione la fornisce: chi parla di verginità, quando è uomo e intende stigmatizzare la credibilità di una donna, non si considera coinvolto né responsabile. Come nello stupro è la donna, nella visione delle relazioni tra donne e uomini sottesa dal discorso di Moles, che deve fornire eventualmente la prova della violenza. Forse Moles ignora che l’imene, questo organo vestigiale atrofizzato, questa membrana sottile, inutile, a volte persino inesistente, che ossessiona il mondo maschile religioso, sulla quale si specula, si adula, si negozia, si cerca tra le gambe delle bambine e delle adolescenti, il cui sangue si vuole come trofeo fra le lenzuola immacolate, spesso non esiste più o non è mai esistita. La rabbia del marito e la sete di vendetta della famiglia disonorata si baseranno sull’assenza di un organo che è fisiologicamente impossibile da trovare.
Questa assurda ricerca maniacale – insistono le autrici di Anatomia dell’oppressione -è la causa di migliaia di omicidi, pestaggi, punizioni e ripudi oggi in tutto il mondo.
La ricerca della purezza conduce gli uomini ai più immondi abusi, a cominciare dalla pedo-criminalità. Nel nome della verginità, gli uomini, qualunque sia la loro età, alimentano la fantasia della deflorazione: la moglie deve essere vergine e per essere vergine deve essere giovane.
In Africa si dice che salvare un bambino significa salvare un uomo, e salvare una bambina significa salvare un villaggio.
Se il villaggio siamo noi questo vuol dire che, laddove un uomo esprima disprezzo e svalutazione per una donna su base sessuale nominando la verginità, a maggior ragione nel luogo della rappresentanza più elevata quale è il Parlamento, questa denigrazione non si rivolge solo a quella donna, ma a tutte quante.
Le scuse, pubbliche e solenni, sarebbero il minimo per un eletto nel Parlamento di uno stato civile e democratico.