Il desiderio abita la città? Sguardi di donne fra spazi pubblici e privati.
Firenze, 28 novembre e 12 dicembre 2009, presso Il Giardino dei Ciliegi. L’appuntamento autunnale della Libera Università di donne e uomini Ipazia si è articolato in due giornate, intorno ad un unico tema, messo sotto forma domanda: Il desiderio abita la città? Sguardi di donne fra spazi pubblici e privati. Ricordiamo che l’obiettivo della Libera Università Ipazia è quello di intrecciare generi e generazioni, culture e saperi in modalità relazionali. Quest’anno, forse più che in altri precedenti incontri, l’intreccio fra generazioni è stato al cuore delle due giornate (28 novembre e 12 dicembre).
{{Sara Bartolini}} (giovane architetta) ha introdotto per Ipazia i lavori della prima giornata, sottolineando come il desiderio vada inteso almeno in un duplice significato: “da una parte il desiderio rispetto allo spazio urbano: la città che si vorrebbe vedere realizzata, nella quale voler vivere; dall’altra la possibilità di vedere realizzato all’interno dello spazio urbano il proprio progetto di vita”, e come a questo tema se ne intrecci un altro “quello dello sguardo di genere e in particolar modo quello degli sguardi delle donne sugli spazi e i modi dell’abitare”. Sara ha aggiunto però che “sguardo di genere” non è sinonimo di “sguardo femminile”, ma significa “uno sguardo che tenga conto di tutte le differenze, di tutti i generi, quindi di chiunque vive e realizza attraverso il proprio vivere la città”.
Il primo contributo è di {{Silvia Macchi}}, urbanista che lavora presso la facoltà di ingegneria dell’università di Roma La Sapienza e che ci propone una lettura dei piani territoriali in un’ottica di genere. Questo lavoro fa parte di un più complesso lavoro sul bilancio di genere, condotto per la Provincia di Roma da un équipe di economiste e urbaniste facenti capo alla Casa Internazionale delle Donne (materiali si possono infatti trovare sia sul sito della casa che su quello della Provincia). L’analisi degli strumenti di pianificazione è in un cero senso propedeutica al bilancio di genere, perché la programmazione del territorio è un pezzo di bilancio. Le scelte urbanistiche hanno conseguenze economiche di lungo periodo. Si tratta quindi di andare a vedere i diversi effetti delle scelte economiche su uomini e donne.
_ L’approccio teorico è quello che viene definito delle {capabilities}, cioè delle “capacità” (Amartya Sen e Martha Nussbaum) che Macchi riepiloga rapidamente: le persone devono attuare ciò che è il loro progetto di vita. Questo dipende sì dalle risorse, ma anche dalla possibilità di convertire le risorse in capacità di essere e di fare. Ciò è influenzato da molti fattori, fra cui il genere. Si può fare l’esempio di un marciapiede, che è una risorsa, ma senza rampa di accesso può diventare un ostacolo per chi ha problemi di movimento. Spesso sono le norme culturali che escludono dall’accesso alle risorse.
_ Le politiche pubbliche possono intervenire aumentando le risorse, ma questo può non bastare, se non c’è ciò che consente la fruizione delle risorse, ciò che aumenta il tasso di conversione delle risorse in capacità, che a volte può essere un intervento piccolo, addirittura immateriale.
Quando le politiche pubbliche non funzionano, alle loro carenze supplisce chi si fa carico della cura (di solito una donna). Il lavoro di cura è una cosa buona., ma non va sprecato, può essere usato meglio che in questa attività di supplenza. E comunque non è possibile che sia nascosto, perché dà un contributo fondamentale all’economia e come tale va riconosciuto.
_ Due donne con le stesse caratteristiche, collocate in modo diverso sul territorio hanno un tasso diverso di conversione (delle risorse in capacità) a seconda di com’è il territorio.
_ E’ stata quindi fatta una lettura critica del Piano del territorio della Provincia di Roma, per vedere se teneva conto delle differenze delle persone, per vedere le dotazioni più importanti per le donne e per individuare i punti caldi da valutare nel tempo.
_ Il Piano della provincia di Roma aveva anche obiettivi in termini di aumento dell’occupazione, di quella femminile in particolare.
Centrale è stata la lettura del fenomeno di uscita dalla città, visto per lo più come “processo spontaneo” da governare, come crescita in senso positivo, causa di aumento del PIL. Ma gli effetti positivi non sono stati tali per tutti. Si è trattato di un fenomeno di espulsione urbana. Il gruppo di ricerca è andato a vedere i costi per uomini e donne di questo fenomeno.
_ Il luogo di vita è un ambito definito dallo spostamento casa-lavoro. Se l’obiettivo del Piano è quello di avvicinare il lavoro alle residenze, sembra un obiettivo sensato, ma si riferisce soltanto a chi ha il lavoro retribuito, per ridurre il fenomeno del pendolarismo. La situazione di chi non ha questo tipo di lavoro, o non ha solo questo, non è considerata di interesse pubblico dal Piano. Non è che avvicinando lavoro e abitazione la vita quotidiana migliora, il tempo si comprime e basta. Il Piano non guarda alla realtà della vita quotidiana, al lavoro quotidiano delle donne.
Sappiamo che c’è una presenza massiccia di donne nella Pubblica Amministrazione centrale. Se non c’è una delocalizzazione anche di questo lavoro, questa cosa non riguarda le donne.
_ E comunque la delocalizzazione della produzione va sostenuta con i servizi. Invece, nei piani territoriali si considera la media nazionale (standard) che viene applicata, senza tener conto delle caratteristiche della popolazione, anziani, ecc. che, come al solito, rimangono a carico di chi fa il lavoro di cura. Solo le persone possono dire quali sono le funzioni strategiche per vivere la vita che vogliono vivere.
_ Di fronte al processo di “specializzazione” residenziale di alcuni comuni, frutto dell’espulsione, la risposta è aumentare le case e potenziare le ferrovie.
_ Il piano quindi non valuta i costi personali dell’espulsione, considera ineludibili i costi pubblici che ne conseguono, non assume nessuna responsabilità pubblica né per il passato (né per il futuro).
_ Ci troviamo poi con servizi abbandonati nelle zone da cui si sono spostati gli abitanti, verso luoghi dove è tutto da ricostruire. Dalle Mappe sullo stato dei servizi è evidente che i comuni periferici ne sono sguarniti quei comuni che devono essere resi abitabili.
Una proposta minimale potrebbe essere fatta: i soldi derivanti dalla vendita degli spazi abbandonati vadano ai Comuni dove ci sono da fare servizi nuovi.
_ La ricerca ha evidenziato i nessi fra le {capablities} e i temi-obiettivo del Piano, visto che le {capabilities} sono contenute nello statuto della Provincia e nelle dichiarazioni programmatiche: obiettivo delle politiche pubbliche è il benessere delle persone.
Per una valutazione in itinere del Piano, la ricerca ha poi individuato alcuni indicatori (alcuni sono facili: se aumentano o diminuiscono gli incidenti stradali, p.es.).
_ L'{urban development} richiede investimenti pubblici, mentre per ora, a Roma e non solo, dà solo vantaggi, presenti o futuri ai privati. Macchi conclude affermando che “i soldi ci sono, a condizione di ristabilire un tavolo negoziale a tre” (persone, enti pubblici e imprese private). L’alternativa non è “o pago io come donna o paga il pubblico”. Visto che l’economia si regge sul lavoro non pagato e il mercato su questo sviluppo urbano fa soldi, bisogna negoziare, p. es. con i costruttori, i criteri da adottare.
Il secondo contributo è di {{Gisella Bassanini}} (architetta – fra le fondatrici del gruppo VANDA, comunità femminile di ricerca) a cui è stato affidato il compito di ricostruire l’insegnamento delle “madri dell’architettura”.
_ Allacciandosi alla relazione di Silvia Macchi, Bassanini sottolinea l’esigenza di fare un lavoro profondo di consapevolezza anche fra i tecnici, fra gli “esperti”. Lavoro non facile (cita lo scontro con una dirigente quarantenne di fronte a un suo tentativo di portare un approccio di genere nella redazione di un Piano.
_ Nei processi di partecipazione con donne e uomini si registra a volte una “timidezza” delle donne a intervenire. Eppure le cose che le donne dicono sulla città, dalla piattaforma di Pechino in poi, sono cose già dette e non ascoltate, che possiamo vedere tradotte in progetti di architettura fino dagli anni venti (del secolo scorso).
_ Dicono di rompere i confini, dicono no alla separazione fra “pubblico e privato”, su cui si è costruita la nostra condizione di donne. Ricacciare le donne nella casa ha fatto funzionare il processo di privatizzazione della casa e della città (la separazione funzionale per zone): questo ha dominato per tutto il secolo scorso e conta ancora.
_ Ma questa separazione non è così scontata. Le donne tendono a superarla.
_ Tutto il sistema di cura sta ancora nelle case, a carico delle donne, il welfare è in larga misura ancora privato, pubblico è invece l’ospedale.
Cita lo studio di Sara Galletti, sul ruolo delle grandi dame, le regine francesi, che hanno collocato i loro palazzi ai margini della città con spazi con fontane e passeggiate. Questa viene letta come una scelta di “stare al margine” senza capire quanto questa stessa scelta rendesse importante il margine.
_ Il carattere fondante dei processi di urbanizzazione deve essere la vita quotidiana, contro la retorica dell’evento, il gigantismo, l’amore per l’ordinario contro lo straordinario. Parla di “microfisica della vita quotidiana”, di microarchitetture (citando un convegno della Rete delle città vicine). La “scala del corpo” come scala di misura delle realizzazioni: progetto delle cose minute, non solo delle grandi opere.
Oltre allo spazio, è importante il tempo, l’uso del tempo come indicatore di qualità della vita, ma anche come indicatore del livello di partecipazione in un rapporto fra tempi e spazi.
_ Ma come si traducono in architettura queste parole di donne? C’è il piccolo esempio delle figurine sui semafori o sui segnali stradali: l’unica figura femminile che vediamo nella segnaletica è la bambina presa per mano che indica “scuola”.
_ Gli esempi delle “madri dell’architettura” sono illustrati attraverso foto molto belle e interessanti.
{{Eileen Gray}} (1878-1976) progettò una casa a Roquebrune Cap Martin (France), comprese piccole cose “utili” come lo “specchio satellite” fatto per il suo compagno, per poter controllare la sfumatura dei capelli sulla nuca; in un’altra casa a Castellar (France), troviamo un armadio estensibile, mobili con scelta accurata dei materiali, cura del particolare…
_ {{Lina Bo Bard}} (1914-1992), progettista del centro sociale SESC Fabrica da Pompeia a S.Paolo (Brasile), lavorava osservando quello che accadeva nei luoghi, prima del progetto, e poi, fino a edificio finito. Guardava gli uomini reali, non le riviste di architettura e il progetto lo illustrava soprattutto con gli acquarelli, perché fosse più leggibile. Il risultato erano spazi molto liberi, senza una destinazione rigida.
_ Più vicina a noi, {{Elsa Prochazka}} (1948-), ha progettato parte di un insediamento residenziale a Vienna con servizi, usando un approccio di genere.
_ Su questo modello hanno realizzato poi altri due complessi residenziali.
L’idea è una casa “modulare” che segue la storia di una famiglia, da quando ci sono i bambini piccoli, a quando ci si deve occupare dei genitori. Questo è un caso raro di tipologia flessibile realizzato e funzionante.
{{Nel dibattito}} si intrecciano domande sulle differenze fra Roma e Firenze; su chi compra i terreni nei comuni della collina toscana, e la distrugge.
_ Viene sottolineato il problema della scarsa “accessibilità” dei documenti: un bilancio, un progetto, un piano sono criptici per la maggior parte delle persone, a cui bisogna invece dare gli strumenti per conoscere e seguire i processi. Dietro questa oscurità si legge una sorta di “collaborazionismo” fra tecnici e professionisti, che esclude lo stesso committente. La prima battaglia culturale da fare è quella sul linguaggio, sulla comunicazione
Sul piano della realtà – si insiste – ci si scontra con la mancanza assoluta di servizi, proprio nei posti dove le persone si stanno trasferendo alla ricerca di maggiore vivibilità.
_ Si ricorda che il Comune di Firenze aveva un Ufficio “Tempi e spazi”, che poi fu affossato. {{Fanny Di Cara}} (architetta, di Ipazia) precisa che la Regione non ha più finanziato i Comuni per questo.
_ Fra i limiti che si incontrano per leggere i fenomeni in un’ottica di genere, il fatto che se si cercano dati articolati per sesso, con la scusa che “siamo tutti uguali” si dice che non esistono, e non servono.
Il quadro fiorentino viene delineato in tutta la sua negatività da alcune domande/interventi: su molte nuove costruzioni è intervenuta la magistratura. La politica urbanistica viene definita “allo sbando”
{{Tiziana Plebani}} ritorna sulla centralità del desiderio: parlare solo della cura, assunta come “femminile”, può allontanare le più giovani. Sono importanti lae modalità (cita il lavoro del gruppo Sexy shock di Bologna che apre ottiche diverse). Sostiene che da giovani si è predoni, solo dopo si scopre la cura. Aggiunge che il divorzio fra politica e partecipazione significa rinuncia della politica al vero governo del territorio. A Venezia, per es. è sparito l’Ufficio Agenda 21. L’Amministrazione non controlla le operazioni finanziarie, né si relaziona ai cittadini.
{{Mara Baronti}} cita la Legge regionale toscana sul genere, che parte senza soldi; c’è una piccola disponibilità di soldi per uno studio sul bilancio di genere; è stato dilapidato il lavoro fatto su tempi e spazi; è stato sciolto a Firenze il Consiglio delle donne, ecc.
{{Gisella Bassanini}} insiste sull’importanza del linguaggio: bisogna tenere il punto, sempre e dovunque, parlate di cittadini utenti, non utenti e basta. Quanto all’efficacia delle iniziative ammette che “se ti confronti con la Tav e l’Expo sei perdente”. Si deve trovare la misura, la piccola scala a cui agire, chiedere che le risorse per la mobilità vengano usate per rendere accessibile un percorso, p.es. E’ importante far parlare i dati: il tempo dedicato alle attività di cura familiare è diverso fra donne e uomini (5 ore circa contro poco più di un’ora). Dobbiamo portare nelle attività professionali questa specificità, far uscire dai processi partecipativi le esigenze, i bisogni: chi va adesso a negoziare per il sindacato non sa nulla, non porta nulla.
_ Si devono invece individuare e aggredire le incompetenze.
La nostra è una società del rancore (cita Aldo Bonomi), governata da politici rancorosi (la Lega), ma c’è anche una società operosa e una società della cura che si devono alleare contro la società del rancore. Bassanini ha la sensazione che si stanno muovendo delle cose. Si ritorna a una stagione di comitati, c’è una sorta di nuova maggioranza silenziosa, a cui risponde una nuova sensibilità di parti della finanza. Profumo (Unicredito) e Guzzetti (Cariplo) alla casa della Carità di Don Virginio Colmegna,, finanziano progetti: questo (per lei) è un segno di ottimismo.
Il pomeriggio si apre con letture del gruppo {{Parola di Donna}} del Giardino dei ciliegi. Sotto il tiolo “La casa di carta” sono raccolti testi di scrittrici sulle case e le città che hanno abitato o attraversato: scrittrici di oggi, Uba Cristina Alì Fara e Caterina Serra, di ieri, Natalia Ginsburg e
Virginia Woolf. E testi su case e città abitati da altre scrittrici: Sandra Petrignani che dà voce a Colette e Marguerite Yourcenar.
{{Tiziana Plebani}}, del gruppo “Geografie di genere”, esordisce affermando che “lo spazio, come il tempo è uno dei criteri fondamentali di conoscenza della realtà”. Spazio-tempo sono criteri epistemologici, risorsa di integrazione e partecipazione.
_ Cita Roberta De Monticelli: L’ordine del cuore, sulla nostra capacità di comprendere e giudicare la realtà attraverso il sentire. Cita Edith Stein: guardare il mondo con occhi spalancati, quelli del bambino, densi di stupore, di meraviglia.
_ C’è una laica religione dell’evidenza, del candore e del rigore, del rispetto, dell’umiltà dell’attenzione. In filosofia chi parla di questo sono soprattutto donne, Marta Nussbaum, L’intelligenza delle emozioni, Marinella Sclavi, L’arte di ascoltare, Avventure urbane.
_ Ci sentiamo incapaci di dare un giudizio su cose che sembrano difficili, ma dobbiamo fidarci anche del sentimento di essere o no a proprio agio, che è un sentimento fondamentale.
Dobbiamo dare valore al “qui e ora”, che è una misura importante, avere la capacità di posizionarci e dire cosa serve in questo momento.
Ricorda che di fronte all’esperienza delle Donne in nero qualcosa si ribellava dentro di lei all’affermazione che “come donna non ho patria”. Questo costringeva anche le yugoslave a dire la stessa cosa, ma questo è ingiusto, non si può negare l’importanza di essere nate vicino a un fiume, un mare, una montagna, il valore della lingua; fare questo è rinunciare ad una grandissima risorsa Non c’è persona più attenta alle risorse del luogo di un nomade.
Avere quest’attenzione apre dei canali di felicità, di possibilità di agire sui luoghi. L’attività politica nei luoghi è efficace e le donne tendono a stare lì dove sono efficaci.
_ La città interessa per questo, perché è il luogo delle relazioni, della convivenza, luogo di mediazioni continue, soggetto in perpetuo divenire, laboratorio di pratiche, luogo di cura che richiede cura per continuare ad essere ospitale.
La città rende liberi. Mentre è noto che chi si trasferiva in città dalla campagna, nel ‘200-‘300, cessava di essere servo della gleba, meno noto è che le donne e gli uomini che venivano in città si potevano sposare senza il consenso dei genitori, quindi si affrancavano dalla terra, ma anche dalla catena familiare.
La città dava allora una cosa che oggi vediamo come negativa (ci sono termini storicamente mutevoli), cioè l’anonimato. La moltitudine rendeva anonimi e così proteggeva, consentiva di svincolarsi dal legame familiare. Questo in parte vale oggi per es. per le donne dell’Est che si trasferiscono da noi.
La visibilità di cui parliamo oggi, come di un esigenza, non è stata sempre una richiesta femminile: operare nei margini, non stare ai margini, giocare negli interstizi del potere, questo non voleva dire “non esistere”. Nelle analisi anagrafiche si scopre che c’era un terzo di famiglie con un capofamiglia donna.
Quando parliamo di spazi privati e/o pubblici dobbiamo considerare anche questo. Cita un quadro di Bellini con la processione del Corpus domini, di fronte al quale si dice “non c’è una donna”, ma le donne sono alle finestre; sul piano della terra ci sono gli uomini, un piano più alto ci sono le donne; le donne sono nella quinta teatrale, si può addirittura dire che controllassero gli uomini.
C’era una commistione, articolazione di spazi aperti e chiusi che dava modo alle donne di essere più o meno visibili, ma di esserci.
Ci sono molti spetti su cui riflettere, fuori da quelli a cui siamo abituati. Per esempio il valore del pudore: il corpo esposto nello spazio non ha sempre un valore assoluto, ci può essere anche l’esigenza di proteggere il corpo dalla vista. I corpi femminili esposti sono la Vergine, le Virtù.
_ La famiglia non è luogo del passato, non è stata sempre così strutturata, ma è stata anche luogo di transito. Le donne agivano in tribunale, negoziavano la loro presenza negli spazi.
Le donne erano talmente dovunque che quando si tentò, nel 1774, di non farle entrare nei caffè, i caffettieri protestarono, ottenendo che potessero entrare da un’altra porta, in camerini appositi.
_ Solo in certi momenti della storia la casa è luogo proprio delle donne: a volte il fuori della casa è luogo pericoloso per le donne, che non devono esserci, soprattutto di notte, quando ritornano ad essere il sesso fragile e vulnerabile.
_ Riferisce di un’autoinchiesta di donne (sito Tempi e Spazi del Comune di Prato). Nel nostro spalancare gli occhisiamo partite da dove eravamo, la casa. Tendiamo spesso a partire dalla casa, dove a volte diamo il peggio di noi, la riempiamo di cose inutili. Partendo dalla casa, a volte pretendiamo che la città ci assomigli, mentre la città è il luogo dell’incontro, dell’imprevisto: non possiamo riprogettare la città a misura di casa propria.
Non è facile lavorare con i cittadini e le cittadine (nei processi partecipativi), se ci troviamo davanti una persona che vuole la città come la propria casa. Dobbiamo chiarire quale genere di città vogliamo, capire per esempio che la bellezza è frutto di una negoziazione.
_ Dalla casa abbiamo cominciato a spaziare intorno, incontrando la città come formicaio in cui spesso non vediamo le cose che ci sono, quante associazioni esistono, quanto mondo del volontariato.
_ Abbiamo iniziato a costruire una mappa “sensibile”, utile per chi arriva da fuori, lavorando insieme in gruppo con alcune (poche) giovani, che hanno fatto un’altra mappatura di band e gruppi musicali. Ne sta risultando un Libro-quaderno di esperienze, per esplorare i luoghi nuovi, i luoghi della trasformazione.
Sottolinea il senso del “camminare”, come atto del condividere, del vedere insieme le cose, rielaborare a partire da un sentire comune; camminare insieme crea comunità, camminare ti mette al centro dello spazio come protagonista. Quando andiamo, prima ci informiamo, sulle persone che incontreremo, sulla storia dei luoghi.
A Venezia siamo andate alla ricerca delle donne estranee, allontanate dal centro storico della città e mandate in quartieri marginali: c’è stata una vera e propria deportazione durante il fascismo di persone a rischio di devianza. Il racconto delle esperienze di lotte di queste donne, faceva vedere il quartiere più bello, attraverso i loro occhi.
Riportando a Venezia queste donne che ne erano state cacciate si è avuta l’esperienza di “ricucitura” della città, un lavoro di pacificazione dal basso, che ha portato l’esigenza di chiudere delle ferite.
{{Nel dibattito}}, {{Sara Macchi}} riprende il discorso della mattina: a volte abbiamo un atteggiamento troppo concentrato sulla città, sulla “gentrificazione”, senza tener conto dell’espulsione urbana: vediamo le difficoltà di chi resta in città, senza pensare a cosa è successo per chi dalla città è stato espulso. Le trasformazioni mutano le relazioni far gli abitanti di un palazzo, ma solo adesso si è cominciato a vedere dove sono quelli che se ne sono andati, che erano le parti più deboli. Il vicino che non c’è più abita da un’altra parte, non si è volatilizzato.
Il lavoro sul Piano era interno ad un lavoro sul bilancio di genere (quello della Provincia), ma quando si è passati alla richiesta del bilancio di genere vero e proprio, dopo lo studio propedeutico, la cosa sembra non interessare più a nessuna donna (delle istituzioni). E’ accaduto come per i soldi tolti agli uffici Tempi e spazi, perché nessuna ne sottolineava più l’esigenza. Quando c’è una legge, si può chiedere di fare qualcosa, ma se nessuna lo chiede…
_ Così è stato sciolto il gruppo/ufficio nazionale sui bilanci di genere, perché se non c’è una soggettività che rivendica un diritto, questo sta scritto e non produce nulla.
_ Dobbiamo farci delle domande: la questione tempi e spazi ha perso appeal? L’analisi di genere del bilancio è troppo complessa, ha fatto il suo tempo?
_ Bisogna capire se questi strumenti funzionano e forse c’è anche un problema di comunicazione.
Per quanto riguarda l’urbanistica, ricordiamo che il sapere della modernità è nato per gestire la rendita. La pianificazione urbanistica si occupa proprio della valorizzazione di terreni privati in seguito a scelte urbanistiche.I Piani consentono gli espropri, in nome dell’interesse pubblico.
_ Per scelte di interesse pubblico si produce una ricchezza privata: per questo il privato deve dare qualcosa indietro.
In Inghilterra, si sta lavorando su come uscire dalla crisi arrivando a tassare la rendita: ci concentriamo sulle nuove aree o sul recupero di aree dismesse; il pubblico ci mette l’urbanizzazione, i privati costruiscono le case, una volta remunerato il costo dell’urbanizzazione, ne ricavo poi un flusso di denaro. Dove c’è diffidenza verso il pubblico, si fa ricorso a Community trusts, dove confluiscono i fondi pensione, per comprare case ad affitto sociale.
{{Tiziana Plebani}} riprende il discorso sul desiderio. C’è poco interesse, poca attenzione per la lettura del reale. Dietro la richiesta di rappresentanza c’è il vuoto, le donne non ci sono, perché questa politica fa poca voglia
Abbiamo lavorato sul piano territoriale: ci sono poche donne, o meglio fanno le cose di “manovalanza”, mentre chi interviene nelle riunioni sono uomini.
Ancora sul linguaggio: un pezzo su “Il genere della città” su Carta Nord Est cambia titolo e diventa “La fatica dell’abitare”.
Dobbiamo darci obiettivi, fare reti, fare reti, fare reti…
{{Fanny Di Cara}} ritorna sulla “non presenza” delle donne: è causata dalla lotta con il tempo, che non c’è, ma anche dalla sottovalutazione dell’importanza di lasciare testimonianza di un percorso. Spesso le donne non si possono permettere i tempi della politica. Questo pesa sulla partecipazione.
{{Aldo Ceccoli}}, citando Martine Aubry sulla centralità della rendita fondiaria si chiede “Perché (voi donne) non avete fatto un manifesto contro la rendita fondiaria?” (Risposta, facile e anonima: E perché non l’avete fatto voi?) Vero è che la maggior parte delle donne nell’urbanistica, nella progettazione si comportano come gli uomini. Occorre un diverso collocarsi rispetto alle tematiche della società che sta collassando, rispetto a questo sistema che vive su una rete di collusione generalizzata, altrimenti non potrebbe reggere. Non dimentichiamo che all’origine della crisi c’è un nesso fra speculazione finanziaria ed edilizia.
{{Silvia Macchi}} fa notare che se si guarda alla rendita fondiaria, le donne sono proprietarie, quanto e più degli uomini, mentre le tasse sul reddito sono più pagate dagli uomini (perché sono di più percettori di reddito). Qui va su un terreno in cui conta più la classe del genere.
{{Aldo Ceccoli}} ha introdotto i lavori della {{seconda giornata}}, sottolineando come, di fronte a “un potere che trae consenso dalla sua capacità di raccontare menzogne”, di fronte ad “esempi di come nella città, fatta a brandelli, sparisce ogni condivisione e possibilità di riconoscersi in una condizione comune” e dove “restano solo il consumo del territorio e l’atomizzazione delle vite”, sia necessario e “vitale tornare a raccontare/si affinché il desiderio possa abitare la città”, e si recuperi tutta la portata dirompente dello sguardo delle donne, assente “nel discorso delle istituzioni”.
{{Marvi Maggio}} (architetta, dell’International Network for Urban Research and Action) imposta il suo contributo su La questione abitativa e il diritto a creare e fruire la città partendo da come le donne si trovano a vivere la condizione urbana, quali limitazioni particolari trovano, quali ambiti sono loro preclusi. Ci sono infatti limitazioni specifiche che si sommano ai problemi che tutti gli abitanti della città devono sopportare.
Il diritto alla città non è solo diritto di accedere ad essa, ma di poterla modificare in base alle relazioni sociali che si instaurano. Quale libertà hanno le donne (i cittadini) di modificare lo spazio in cui si trovano a vivere? Lo spazio urbano non è fatto solo di muro. Le relazioni sociali lo trasformano e ne sono modificate.
_ Cita l’urbanista Abercrombie e il suo piano per Londra del 1944, che faceva riferimento, dandolo per scontato, al modello di famiglia nucleare, con l’uomo percettore di reddito e la donna a casa.
Da questa idea di relazioni sociali viene modellata anche la città: ci sono spazi per il lavoro e per l’abitazione. Ma negli anni ’50 le donne hanno cominciato a lavorare (fuori casa). Questa nuova realtà si è scontrata con la struttura spaziale esistente e con l’esigenza di spostamenti meno codificati. Queste nuove relazioni sociali hanno trovato ostacolo nella struttura della città, che veniva (e viene) vissuta come “naturale”. Tutta l’economia urbana non prevedeva il lavoro domestico, che o è considerato naturale o non è considerato lavoro.
Molte ricerche dimostrano che la mobilità delle donne è limitata dal fatto di sentirsi fuori luogo, soggette a violenza, anche solo di sguardi (questo non dipende solo dal capitale, ma anche dal patriarcato).
Grande è stata la capacità del femminismo di avere portato l’attenzione sulla vita quotidiana, di aver fatto un’analisi critica della famiglia. Le donne escluse possono diventare, insieme ad altri, soggetto di cambiamento. Attenzione, però: questo modo di reagire all’oppressione non è innato (in senso essenziali sta). Differenza è termine opposto a omologazione, non a uguaglianza di diritto, diritto di decidere cosa, chi si è. Uguaglianza è termine opposto a disuguaglianza, a discriminazione.
Scelta di libertà è decidere quali relazioni instaurare e quale condizione urbana le rende possibili.
L’abitazione non è solo uno spazio privato, ma è uno spazio di relazione. Se le abitazioni sono strutturate per la famiglia nucleare, che spazio abitativo si può pensare per altre forme di relazioni?
Parla di un esempio olandese di case di edilizia popolare per gruppi: questa esperienza (diversa dal cohousing italiano) è nata dalla proposta di una casalinga di avere spazi dove condividere il lavoro domestico. Si tratta di spazi non predeterminati, ma frutto della decisione del gruppo di abitanti (gruppi fino a 190 persone). In questi casi gli abitanti riescono a proporre relazioni sociali diverse, e gli spazi si conformano a queste. Ci sono casi abbastanza numerosi e alcune esperienze sono nate da occupazione di case. C’è un bisogno di spazi collettivi, alcuni aperti alla città, altri riservati agli abitanti. Questo mette in luce come ci sono modi diversi di distinguere gli spazi, che non sono solo pubblici o privati.
Non è tanto l’idea di una comunità, un ritorno al passato (la comunità è anche controllo, luogo di potere), quanto una possibilità diversa. Se altre relazioni ci possono essere, a cosa questo può dare luogo?
Quali sono i limiti di quest’ipotesi? La prima, il mercato immobiliare, con i suoi prezzi. Il cohousing è possibile solo a livelli alti di costo. Comunque anche il mercato è tradizionalista. L’edilizia pubblica, se esiste, si rivolge alla famiglia con figli, non ai singoli, né tantomeno ai gruppi. C’è poi il problema dei servizi, delle funzioni che la donna che non fa la casalinga passa ad altre donne. Le scelte delle donne hanno registrato solo alcune modifiche, ci sono state e sono tuttora in corso, ma ci sono anche ritorni indietro, c’è il peso morto della mentalità, ma anche di come sono organizzati gli spazi.
Lewis Mumford sostiene che c’è bisogno di lavoro di cura nella città. Attività che delegata alle donne perde valore. Ma qual è la direzione del rapporto causa-effetto? Sono delegate alle donne perché hanno minor valore o hanno minor valore, perché sono delegate alle donne?
_ C’è un diritto fonte di tutti gli altri: il diritto alla libertà, ma alcune scelte sono precluse alle donne perché sono discriminate.
Vanno costruite altre relazioni sociali, in parte sono già in costruzione, e sono questi gli elementi che richiedono altri spazi: non mi bastano bar e cinema. Questo altro va costruito con la creatività.
_ Cosa ci manca nella città. Cosa ci limita. Deve essere promossa la libertà di muoversi (c’è chi la chiama sicurezza…).
La mattinata prosegue con la proiezione del video {Contromano in città} realizzato da {{Gabriella Denisi}}. Il video viene presentato e commentato da {{Daniela Chironi}} (del collettivo fiorentino ZTL, cioè zona temporaneamente libera)e {{Cora Presezzi}} (di ProgettoBeta – Roma)
_ Daniela introduce evidenziando come la città sia stata trasformata in luogo di produzione, di accumulo di privilegi, dove la vita dei cittadini è sottoposta a sistemi di controllo, che vengono presentati come mezzi di protezione dal rischio. L’obiettivo è invece quello di farci accettare la riduzione degli spazi.
_ Però si possono sviluppare strategie di resistenza al comando. Il video contiene due esperienze di questo: il Melograno come esperienza di coabitazione intergenerazionale (in una casa del Comune); un gruppo di writers (CPC Curve Pericolose Crew) che vanno in giro di notte in minigonna a fare graffiti, lasciando messaggio alternativi all’immagine della donna usata dai media e dalla politica.
{{Cora}} spiega che si è cercato di usare la videocamera come arma, come uno sguardo sul potere che ne smascheri i meccanismi di oppressione e di violenza; non lo sguardo di un osservatore esterno, ma la possibilità di lasciar parlare le cose, le azioni. Questa è la forma teorica che si avvicina di più alle nostre pratiche politiche. Nella raccolta di interviste, che solo in parte è confluita nel video, c’è la possibilità anche di una lettura diacronica, di un approccio storico. Il materiale ha fornito spunti per capire il passato e come queste donne vivono la Firenze di oggi, al di là delle campagne per città sicure.
_ Fa riferimento all’analisi del potere fatta da Foucault e Deleuze, sul passaggio dal modello disciplinare a quello del controllo. C’è l’esigenza di “trovare nuove armi”, di fronte al processo di normalizzazione, che relega nel silenzio gli ambiti non normalizzabili (sessualità ecc.). Su questo si sono mossi i femminismi.
Suggerisce la lettura di Adrienne Rich “Nato di donna” e cita i nodi del controllo sul corpo delle donne. Rich ricostruisce anche le modifiche del modello di casa. Le donne sono le prime a pagare il venir meno delle piazzette e dei cortili, dove la cura dei figli poteva essere un fatto collettivo. Questo si lega alla realtà attuale delle città vetrina, dove gli spazi di socialità sono attaccati in nome della lotta al degrado.
Dobbiamo ripartire dai femminismi, dalla politica come le donne l’hanno fatta: il femminismo non è una redistribuzione delle cose nell’ambito dello stato di fatto esistente.
{{Daniela}} mette a fuoco il problema della sicurezza, come è stata definita a partire dalla politica di “tolleranza 0” proposta dal sindaco Giuliani a New York.
Perché le persone accettano limitazioni della libertà? Il rischio è reale o percepito? Chi è il nemico rispetto cui avere tolleranza 0?
_ Si riferisce all’analisi di Emilio Quadrelli sulla marginalità. Di fronte alla conflittualità sociale degli anni ’70 il potere ha scelto di spezzare i vincoli sociali contrapponendo i termini della coppia normalità-marginalità.
Si sofferma sul caso Firenze e sulla politica di “tolleranza 0” a livello locale, attraverso le ordinanze Cioni, il nuovo regolamento di polizia municipale, le più recenti ordinanze contro la mendicità.
{{Elisa Coco}} (Comunicattive – Bologna) presenta il Progetto {Macho Free Zone}, contro la violenza sulle donne negli spazi urbani, durato diversi anni.
Si è cercato di lavorare sugli spazi urbani non solo sulla violenza, ma su tutta quella parte preliminare, che crea le condizioni, i presupposti per la violenza vera e propria, machismo, sessismo, comportamenti, espressioni verbali.
Va attivata una dinamica di responsabilizzazione-coinvolgimento, per cui tutte e tutti si debbano sentire coinvolt* rispetto a ciò che lede la dignità di una donna, non per favorire figure eroiche, ma per favorire la reazione collettiva, la condivisione del problema.
_ Si è pensato di costruire spazi che potessero essere percepiti dalle donne come spazi di libertà per loro, spazi fisici, di relazioni sociali, attraverso la creatività, la complessità, la pluralità, il protagonismo femminile.
Un primo progetto di arte contemporanea (2006 Art for art’s shake), chiamando donne artiste. Lo spazio: un palazzo abbandonato, chiesto in uso e poi occupato in seguito al rifiuto alla domanda di poterlo usare. Uno spazio artistico come spazio di fruizione artistica condivisa (e gratuita) e di socialità. Una seconda esperienza simile, si è svolta in uno spazio sacro (sconsacrato).
_ In questi casi si è fatto la scelta di spazi privati trasformati in pubblici. L’anno scorso invece si è scelto uno spazio già pubblico, il Museo della Musica e le artiste sono state chiamate a misurarsi sul tema della storia della musica. Purtroppo questo progetto non verrà ripetuto per mancanza di fondi.
Accanto a questo progetto di valorizzazione della creatività delle donne, sono state realizzate altre attività: p. es. una rassegna estiva in uno spazio cittadino. Iniziativa durata per tre anni, due mesi ogni estate, con presenza di opere di donne, cinema, musica ecc. Importanti anche i contenuti: sui temi della violenza, della non discriminazione
Il parco è un luogo simbolo del problema sicurezza. Dalle 7 di sera è vuoto, e inaccessibile, e quindi diventa sacca di marginalità. C’è l’esigenza di fare di sera cose per rendere abitabili i parchi, per le donne prima di tutto.
_ Quando possibile, sono state coinvolte nella preparazione degli eventi le persone marginali che abitano quegli spazi: homeless etc. L’organizzazione è stata femminile, la presenza mista. Questo non solo non ha creato problemi ma ha sottolineato il senso dell’iniziativa. Gli uomini stavano a loro agio nel contesto impostato dalle donne.
{{Il dibattito}} si apre con una discussione sulla possibilità che da un’occupazione possa venir fuori l’assegnazione di una casa da parte del Comune (il riferimento è all’esperienza del Melograno citata nel video). Vengono ricordate precedenti fasi delle lotte sociali a Firenze negli anni ‘70, in particolare l’occupazione di palazzo Vegni, con gente che poi ha avuto una casa, non quella. Allora le lotte pagavano, poi il potere ha adottato una serie di contromisure, sul piano anche delle leggi.
Nell’esperienza di palazzo Vegni le famiglie si appropriarono del luogo con una atteggiamento di cura, pur sapendo che non sarebbe stato mai la loro casa.
C’erano anche quelli che esprimevano un disagio in senso negativo, p. es. distruggendo il sistema di riscaldamento per rubare il rame.
{{Aldo Ceccoli}} ritiene che ci si trovi da 20 o 30 anni in una situazione di mutamento regressivo. Dichiara di far fatica a pensare che l’unica libertà sia quella di andare a dipingere di notte un muro. Chiede (a tutte le relatrici): se parliamo di desiderio, che città stiamo desiderando, con quali protagonisti la vorremmo costruire? Per voi cosa significa oggi aggregazione sociale e spazi pubblici. Anche un’occupazione si limita a segnalare un problema, ma noi come affrontiamo il diritto all’abitare, la difesa degli spazi di libertà. Di fronte alla società che esclude si finisce per ritagliarsi uno spazio di libertà, invece di cercare una libertà che sia totale.
{{Marvi Maggio}} afferma di aver fatto degli esempi, non di aver proposto un modello, né tanto meno un modello antico. Alcuni esempi (anni ’70) di rapporti sociali più rispettosi delle donne.
In un testo di Giovanni De Luna si dice che quegli anni vanno ricordati non solo come anni di piombo, ma come gli anni in cui c’era chi proponeva una società inclusiva. C’era anche uno sforzo di costruirla da subito quella società. Si viveva meglio. Non si tratta di avere nostalgia, ma di avere memoria (bell hooks). Anche Foucault dice che in quegli anni il movimento delle donne aveva affrontato i nodi cruciali.
Restano dei punti da chiarire: la violenza sessuale, molto diffusa, non denunciata. Ma a me basterebbe una sola donna violentata a fare problema. Non sopporto chi colpevolizza la vittima, che non ha cambiato strada, che non si sa difendere fisicamente.
Si vuole negare una realtà, se non si ragiona anche sulla violenza che si traduce in discriminazione sul lavoro. Tutto questo limita la libertà di movimento delle donne.
{{Elisa Coco}} concorda: si tratta di capire la percezione del rischio. Se non esci la sera da sola per paura è una limitazione di libertà.
Nella vivace discussione su cosa si può fare per difendere la propria libertà, in città, {{Viviana Lorenzo}} cita due parole chiave: libertà, privilegi. Quello che viene messe in discussione sono i diritti. La libertà è uno di questi. Tutti siamo uguali per diritti, invece ci separano, ci segregano per dare la sensazione di non avere più gli stessi diritti.
{{Mara Baronti}} riprende da Marvi Maggio l’affermazione che in città non ci dovrebbe essere bisogno di coraggio. Altra cosa è il coraggio di San Su Chi per reagire a situazioni estreme. Fra le esperienze fiorentine, le Oblate aperte fino a mezzanotte, con il deserto intorno, oppure la zona pedonale come salotto buono. Racconta poi gli anni ’70 e la storia delle sedi del Giardino dei Ciliegi.
{{Sandra Cammelli}} parla della chiusura dei cinema e delle conseguenze che comporta sulla vivibilità dei luoghi. Anche la sede “conquistata” non è detto che sia per sempre. E’ impossibile una città così, che viva esclusivamente sulla rendita. Come si fa a dare un messaggio di speranza?
{{Fanny Di Cara}} ricorda che negli anni ’70 i gruppi extraparlamentari sono andati in crisi di fronte al femminismo. La lezione è che dobbiamo tornare a noi stesse: la città può essere una gabbia, magari dorata, ma gabbia. I rapporti di potere fra uomini e donne dobbiamo affrontarli a partire da noi. Il problema è l’educazione, p.es. quella contro gli stereotipi di genere. Non possiamo aspettare che sia l’istituzione a fare la città in cui sentirsi sicure.
{{Marvi Maggio}} sottolinea l’importanza dell’uso corretto delle parole. I problemi non vanno negati, ma affrontati in modo diverso. P.es. attenzione all’uso del termine “privilegio” per chi ottiene una casa in seguito all’occupazione o per chi abita le case popolari con reddito superiore.
_ Ancora sulla sicurezza: il problema della libertà di movimento esiste, non si tratta solo di insicurezza percepita perché ne parla la televisione.
Alla ripresa pomeridiana, {{Anna Lisa Pecoriello}} porta un contributo previsto per la prima giornata e racconta l’esperienza dell’occupazione del Luzzi, un ex sanatorio nei dintorni di Firenze, composto da due edifici: il Banti, edificio razionalista, sulla destra andando fuori Firenze, e il Luzzi, complesso più articolato immerso nel bosco. Erano edifici nati per la lotta alla tbc, per i quali poi si cercarono usi diversi, sempre in ambito sociosanitario (Sert e simili). Per i servizi alla persona si tratterebbe di una sede di difficile accesso, perché fuori mano, di qui l’abbandono da parte della Asl. Successivamente è stato utilizzato soprattutto per scopi legati alle emergenze umanitarie, per cause di guerra (profughi).
L’ultima occupazione è durata tre anni e mezzo: circa 350 persone di origine per lo più rumena, quasi tutte famiglie o donne con bambini. La posizione del sindaco di Sesto è sempre stata chiara: vendere a privati. La regione non si pronuncia su questo e chiede alla Fondazione Micheluzzi (e all’Università) di fare un progetto per l’utilizzo pubblico del Luzzi e su questa base avviare procedure di acquisizione. Fare un progetto (secondo la Fondazione) voleva dire tener conto dell’occupazione e di chi c’era passato come profugo negli anni precedenti. La Regione vuole un progetto che non preveda la spesa di soldi pubblici per persone che sono nell’illegalità.
Viene negata anche la possibilità di far in quella sede un convegno per illustrare il progetto, perché poteva sembrare legittimazione dell’occupazione.
_ Dopo la proibizione di tenere al Luzzi il convegno, e dopo il comunicato stampa di Martini, che dichiara la disponibilità all’eventuale acquisizione dell’edificio, senza riconoscere “privilegi” agli occupanti e prende le distanze dalla proposta di processo partecipativo per decidere il futuro del Luzzi, l’Università e la Fondazione dichiarano comunque di voler continuare la progettazione sul piano accademico.
Successivamente irruzione-sgombero e deludenti contatti con regione e comuni interessati (Sesto e vaglia). Fra l’altro, sono stati negati i circoli ARCI come luoghi dove fare assemblee per un processo partecipativo.
La questione è importante su scala metropolitana, quindi c’è la necessità di coinvolgere altri comuni. La questione Luzzi va affrontata nel quadro generale della questione abitativa, con la consapevolezza che non c’è sempre lo stesso bisogno di casa. Devono esserci risposte speciali per momenti speciali.
{{Nel dibattito}} si sottolinea che a Firenze c’è una questione abitativa grave. Servono spazi. Ci sono soggettività che esprimono bisogni. Si sottolinea un’anomalia tutta italiana: quella dello spingere verso la casa in proprietà. Si discute fra chi pensa che servono nuove case (da costruire) e chi pensa che servono soprattutto nuove regole per affittare le case.
Si cita il Comune di Bologna che chiede la fine delle occupazioni come condizione per affrontare veramente il problema, mentre pare che in Inghilterra sia “legale” occupare una casa sfitta dopo un certo numero di anni. C’è chi sostiene che si devono fare operazioni di autorecupero, e in contemporanea nuove costruzioni. Ma c’è anche chi pensa che non si devono fare altre case.
{{Marvi Maggio}} sottolinea comunque l’esigenza di case per tutte le tipologie di convivenza non contemplate. Ci sono più case in zone dove non servono (le tante seconde case). C’è bisogno di case ad affitto calmierato.
{{Viviana Lorenzo}} sottolinea la negatività dell’housing sociale, che dà vantaggi solo a chi costruisce le case.
Dopo la proiezione del video {Maria Lai, inventata da un dio distratto}, sull’esperienza di un’artista sarda che colloca le sue opere in spazi aperti, prevalentemente a Ulassai, suo paese di origine, la seconda giornata si è chiusa con la presentazione, da parte di {{Clotilde Barbarulli}} del libro di {{Barbara Serdakowski}}: {Katerina e la sua guerra}.
Barbara è una scrittrice migrante molto particolare. Nata in Polonia, poi vissuta in Marocco, dove c’era tensione fra marocchini ed europei, considerati tutti “francesi”. La Polonia però non è per lei un’identità, il Marocco è la sua infanzia felice. Il Canada è il suo passaporto, un paese dove si costruisce tutto e niente, un paese senza passato, dove lei che non ha passato ha trovato difficoltà a costruire. Adesso vive in Italia.
(resoconto di Anna Picciolini)
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