Il femminicidio è solo la punta dell’iceberg. Sotto c’è la cultura
Non oso immaginare il tormento dei genitori di Sara per non aver colto i segnali, per averli sottovalutati. Perché purtroppo i segnali c’erano. Si dirà: ma mica tutti quelli che sono molto gelosi, al limite anche possessivi, ammazzano le ex! Ecco, questo è esattamente il punto. Certo che – per fortuna – la possessività, la gelosia, il desiderio di controllo non sfociano tutti in violenza e addirittura in femminicidi, ma il punto è che quei segnali stanno sulla stessa linea di continuità al cui estremo c’è il femminicidio. Esprimono cioè l’idea di una relazione asimmetrica in cui la donna deve “stare al suo posto”. Un’idea che nulla a che fare con l’amore, neanche quando non si arriva al femminicidio, neanche quando ci si ferma al controllo ossessivo, alla richiesta perentoria di sapere tutto, ai divieti di frequentare altre persone, alla pretesa che quella relazione debba essere l’inizio e la fine della vita, ai ricatti morali del “non fare questo o quello che io non posso sopportare”, “non andare a studiare/lavorare fuori che io non posso vivere senza di te”, fino ovviamente al “non puoi lasciarmi”.
Ieri abbiamo festeggiato un compleanno importante: 70 anni fa le donne sono andate a votare per la prima volta, tra incredulità ma anche sberleffi. Settant’anni sembrano tanti ma la storia della cultura e della mentalità lavora su tempi decisamente più lunghi, perché è quella che Braudel chiamava la storia di “lunga durata”, con un ritmo molto più lento dei rivolgimenti politici e legislativi. Insomma, con una legge si può abolire la schiavitù ma non il razzismo, si possono introdurre le unioni civili ma non eliminare l’omofobia, si può aprire il suffragio elettorale alle donne ma non estirpare la misoginia (e su quanto il pregiudizio misogino sia duro a morire si veda il recente saggio di Paolo Ercolani, Contro le donne, Marsilio Editori). Le lotte sul piano politico e legislativo sono ovviamente fondamentali ma non ci si può illudere che possano sostituire quelle culturali ed educative. I femminicidi e le violenze sulle donne di questo primo scorcio di terzo millennio sono esattamente il frutto di questa discordanza fra conquiste politiche e legislative (punti di non ritorno, si spera) e la mentalità patriarcale di cui è ancora impastata fino al midollo la nostra cultura, la nostra idea di famiglia, la nostra concezione delle relazioni fra generi.
Quando ero piccola ricordo di mie amichette pressoché coetanee mie che al mattino rifacevano i letti ai fratelli più grandi, a cena aiutavano la mamma a sparecchiare mentre i fratelli si alzavano da tavola appena finito di mangiare, alle quali – diventate più grandi – non era consentito uscire con le amiche (figuriamoci poi con gli amici), al contrario ovviamente dei fratelli. Stiamo parlando della generazione nata fra la fine degli anni Settanta e gli inizi degli Ottanta. I trenta-quarantenni di oggi, insomma. Come si può relazionare a una donna un ragazzo cresciuto vedendo la sorella sostanzialmente sempre al suo servizio? Come si può porre nei confronti di una donna che non risponde a quel modello, che non sta “al suo posto”? E, soprattutto, come pensate che quel trenta-quarantenne di oggi possa educare i suoi figli?
In un recente post ho raccontato del padre di un amichetto di mio figlio (esponente proprio della generazione di cui stiamo parlando) che, a commento di una collana che suo figlio aveva ricevuto in regalo dal mio, ha detto: “ma sono cose da femmine!”. Ecco, l’immaginario che frasi così evocano nella mente dei bambini sta tutto dentro quello stesso iceberg di cui il femminicidio è solo la punta più atroce e visibile. È da lì che dobbiamo partire. E il lavoro è ancora lungo.(venerdì 3 giugno 2016)