La scelta del titolo di un libro, quando è felice, rivela l’intenzionalità teorica del suo autore: così è per Il femminismo non è un brand di Jennifer Guerra: questa dicitura non è soltanto un titolo provocatorio ad effetto. La combinazione dei significanti, infatti, lascia intuire l’intento politico del testo, quello di introdurre lettrici e lettori alla conoscenza critica del complesso universo che attualmente si definisce femminista. Femminista perché al suo centro sta l’istanza di valorizzazione dell’individualità femminile ma le cui manifestazioni – verbali ed iconografiche –  sono totalmente eterogenee rispetto al linguaggio, al pensiero e alle pratiche del femminismo storico degli anni 70 e 90 del Novecento.

La lettura del libro di Guerra offre un panorama articolato e circonstanziato della complessità di questa galassia di linguaggi, immagini, espressioni, eventi e persone che oggi l’opinione comune designa con il significante “femminismo”. Non a caso si può parlarne come di una galassia: perché il nome racchiude un panorama non solo complesso ed eterogeneo, ma anche caratterizzato da contraddizioni non eludibili che quindi pongono a chi legge una serie di domande, soprattutto interrogativi politici.

Nell’universo del femminismo contemporaneo, definito della quarta ondata, come vedremo, dominano i brand dell’abbigliamento, le riviste su Facebook e Instagram, la sollecitazione all’empowerment femminile nel mondo delle imprese e, infine, l’esibizione delle celebrity, stars e influencer ormai elette a icone moderne della ribellione femminista. Proprio “l’ossessione per le celebrity promuove l’idea che un certo femminismo sia da mettere in soffitta per fare spazio a un femminismo nuovo, portatore di valori positivi” ma –  scrive Guerra –  “il femminismo non ha bisogno di un cambio di immagine perché non è un marchio che deve curare la propria brand identity” (Guerra, 2024, p. 87)

Sorge, quindi, fin da subito la prima domanda: come mai questa preoccupazione di immagine dietro a un movimento che dovrebbe essere politico? La risposta che una prima lettura del libro ci suggerisce può forse apparire superficiale ma non per questo meno appropriata: l’idea sottesa a questo femminismo è che l’essere donna sia un valore che il mercato avalla nella misura in cui ne ha bisogno. E questo è il messaggio che passa tramite i social: generazioni di donne, adolescenti e adulte, sono state coinvolte e assoggettate a un insieme di pratiche discorsive ricorrenti in web, tanto da autodefinirsi femministe senza però aver maturato la coscienza politica di che cosa significhi essere donna come un soggetto divergente rispetto al simbolico dominante; cioè senza aver vissuto un effettivo processo di soggettivazione.

Tuttavia, la domanda politica che costituisce il filo conduttore del testo di Guerra è un’altra, di ben più profondo spessore: siamo di fronte all’emergere di un nuovo soggetto politico femminista? Questa cosiddetta quarta ondata del femminismo del XXI secolo rappresenta “una nuova variante del femminismo oppure una variante del capitalismo che si appropria del femminismo?” La tesi dell’autrice è che “la recente riemersione del soggetto politico femminista in un paradigma economico che non si fa scrupoli capitalizzare i temi sociali in nome del profitto ci pone di fronte a sfide nuove” (Guerra,  2024, p. XII).

In che cosa consistono tali nuove sfide teoriche e politiche? Se “il potere ha saputo estrapolare dal femminismo quei valori che più si confacevano ai suoi interessi, come la realizzazione dei propri desideri, l’autodeterminazione, la partecipazione alla vita pubblica e la libertà di scelta, buttando nella spazzatura la solidarietà, l’empatia, il mutuo aiuto” (Ivi, p. 150) la sfida consiste nel riprendere e ricodificare questi valori, senza rigettarli perché cannibalizzati dal mercato, in una dimensione del femminismo che sia davvero trasformativa e rivoluzionaria.

Tale conclusione giunge a seguito di una dettagliata analisi del sistema neo liberista e del post femminismo, delle caratteristiche delle ondate e, nei capitoli successivi, degli effetti di alcuni fenomeni plateali e pervasivi del Novecento. Tra i tanti fenomeni menzionati nel testo ne riporto soltanto tre che mi sembrano i più significativi: su di essi mi soffermerò di seguito soprattutto per evidenziare il pensiero dell’autrice sulle loro sfaccettature politiche, sia positive che negative. Il primo fenomeno, che qui menziono, è dato dalla femminilizzazione del middle management, che richiede qualità “tipiche della socializzazione femminile”; il secondo consiste nella diffusione, anche edulcorata, del gender mainstream, con l’enfasi sull’eguaglianza e la parità; il terzo è rappresentato dalla nascita del movimento Me too, detonatore di guerre culturali da un lato ma che dall’altro ”ha avviato una presa di coscienza collettiva […] di un problema molto serio, quello dell’autonomia corporea e dei sistemi di potere che regolano la vita delle donne” (Ivi p.69). Tutti e tre i fenomeni rappresentano passaggi importanti nell’evoluzione del femminismo contemporaneo.

Sarebbe impossibile leggere questo libro senza avere un’idea della teoria delle ondate. Si tratta di una convenzione inaugurata da un articolo di Martha Lear del 1968, The second Feminist Wave, comparso sul New York Times. Per  convenzione, quindi, si nominano quattro ondate nella storia del femminismo: la prima tra metà Ottocento e inizio Novecento; la seconda negli anni 60/70 del Novecento; la terza negli anni 80/90 e la quarta dal 2013 a oggi.

L’analisi di Guerra si sofferma particolarmente sulle caratteristiche della quarta ondata per alcune peculiarità che la distinguono radicalmente dai movimenti degli anni precedenti. In primis la massificazione del termine femminismo per cui, grazie alla presenza invasiva dei social ”il 68 per cento di giovani americane si riconoscono nella parola” (Ivi p. 12). In secondo luogo, per le modalità di iniziazione: se il separatismo o i gruppi di autocoscienza costituivano i momenti di aggregazione e di assunzione di un’identità politica per le giovani donne tra gli anni 70 e gli anni 90, oggi “basta aprire Instagram e Tik Tok per essere inondati di contenuti che ne parlano”(Ivi p. 13).  Infine, altra peculiarità di questa quarta ondata è la trasversalità: “non più appannaggio dell’attivismo politico radicale, celebrità, politici ed esponenti del mondo dello spettacolo, uomini inclusi, si definiscono pubblicamente femministi” (ibidem). Non a caso, per completare il panorama esplorato, Guerra ci propone una galleria di ritratti femminili: donne vittime della violenza maschile, violenza che ha determinato la nascita di movimenti quali Ni una menos e Me too o, all’opposto, emblematiche figure di successo del secolo XXI che si autodefiniscono femministe. Si veda l’Effetto Beyoncé di Queen Bey, divenuta icona moderna del femminismo, “un femminismo universale, un femminismo che va bene un po’ per tutti, che nasconde sotto il tappeto i pensieri più radicali e nel contempo ammette in sé contraddizioni inaccettabili (come la manodopera sfruttata nel caso del marchio di abbigliamento di Beyoncé“ ( Ivi p. 81).

Va inoltre sottolineata la particolare congiuntura che ha dato enorme visibilità al fenomeno femminista della quarta ondata la cui originale peculiarità è stata lo stretto legame con le tecnologie digitali che ne hanno veicolato i contenuti negli spazi di condivisione web, ovvero i social network. Ma perché Guerra, nella descrizione di questa implicazione digitale, usa il passato prossimo? Che cosa è già divenuto obsoleto, in dieci anni, o appartiene già al passato? Ciò che ha determinato il declino della funzione relazionale della rete è stata la trasformazione di spazi di connessione web in social media, il che significa  che in questa nuova atmosfera digitale un certo tipo di contenuto non fa in tempo a incidere la realtà perché “ha vita media di poche ore, se non di pochi minuti” (Ivi p.110)

Quella che dà da pensare, è l’osservazione successiva, che di nuovo mette in campo le implicazioni tra politiche del movimento e mercato: il richiamo alle piazze, se forse poteva avere un tempo valenza morale, e quindi ricaduta politica, oggi “suona come una risposta ingenua a un problema assai complesso. Complesso perché non riguarda la bravura, l’organizzazione o la perfezione degli attivisti, ma quanta voglia ha il mercato di prendere quegli attivisti e portarli dalla sua parte.” (Ibidem)

Dopo queste considerazioni sulla quarta ondata, riprendo l’iter delle domande: il femminismo è quindi divenuto un fenomeno pop, popular, perché i discorsi dei media ne sono intrisi? di fronte a questa invasività mediatica sorgono due ulteriori questioni: viene da chiedersi per prima cosa, – come fa l’autrice – se il movimento contemporaneo mantenga il carattere originario della seconda e terza ondata, ovvero “quell’unione di prassi, impulso creativo e affermazione positiva della differenza sessuale” (Guerra p. 7) di cui parla Rosi Braidotti in Materialismo radicale (Braidotti 2019).

In secondo luogo, viene spontaneo domandarsi se i social costituiscano un mondo di pratiche alternative che consente comunque l’avvio di processi di soggettivazione femminile. La domanda è quasi inevitabile soprattutto per le donne che hanno vissuto il movimento della seconda e terza ondata e che hanno esperito la politica della differenza come un processo fondato su certe pratiche discorsive di condivisione del privato e della compromissione pubblica.

Ma le due domande sono anche legittimate dal riscontro del problematico intreccio che l’autrice individua tra le dinamiche del neoliberalismo e quelle del post femminismo, quel movimento degli anni Ottanta, criticamente avverso ai temi del femminismo della seconda ondata. Il post femminismo, – ove il prefisso post sta a indicare o il movimento successivo alla stagione degli anni Settanta o l’atteggiamento di disimpegno verso i temi della sex wars che erano ritenuti ormai noiosi e moraleggianti –  non ha più rivendicato diritti politici o riconoscimento simbolico. Tutto ciò, alle donne emancipate degli anni 80, appariva scontato: la pretesa femminista riguardava piuttosto il successo lavorativo, la libertà sessuale e il potere.  

Un esempio eclatante di tale trasformazione è data dal modo di intendere la centralità del corpo, corpo non più percepito come espressione di esperienza incarnata della differenza sessuale ma come fonte del potere delle donne. Il mito della bellezza di Naomi Wolf  non a caso fu pubblicato proprio negli anni Novanta: la bellezza mitizzata, scrive Wolf, sostituisce la mistica della femminilità,  quel progetto di persuasione e condizionamento che, secondo Betty Friedan, aveva deprivato le giovani donne degli anni 50/60 dei loro sogni di realizzazione professionale per dedicarsi alla maternità. Più subdolamente, il mito della bellezza mantiene inalterata la struttura del potere perché impone una necessità di controllo della propria immagine subordinata ai criteri estetici che l’economia di mercato impone.  

Inoltre, secondo Jennifer Guerra, un’ulteriore collusione con i canoni del neoliberalismo è riscontrabile nell’applicazione dei principi del middle management al massiccio ingresso delle donne nel mondo del lavoro che, di fatto, costituì uno dei fenomeni più eclatanti del Novecento (Ivi p. 43). Perché collusione tra neoliberalismo ed emancipazione femminile? Perché il modello di donna emancipata viene a coincidere con il modello che impone a ognuno/a di trovare le soluzioni al proprio successo, puntando su resistenza, autodisciplina e realizzazione personale Quindi: anche il mito della bellezza, come controllo del corpo e della propria immagine, diventa funzionale al sistema economico neoliberalista.

Così analogamente appare contraddittorio anche il concetto di gender mainstream che mette in discussione la politica tradizionale attraverso la prospettiva di genere (concetto emerso a seguito delle Conferenze Mondiali delle donne delle Nazioni Unite ). La contraddizione consiste nel  fatto che “se da un lato ci si propone di trattare equamente uomini e donne, considerandoli soggetti distinti e portatori degli stessi diritti, dall’altro le donne hanno esigenze e specificità radicate nella differenza” (Ivi p.52). Un ulteriore paradosso, criptato nell’apparente correttezza politica del gender mainstream è che “insistere su queste politiche in una prospettiva femminilizzata rischia di perpetrare l’idea che a doversi fare carico di tali questioni siano  solo le donne” (Ivi p. 53).

Il terzo fenomeno, su cui il libro lungamene si sofferma e che desidero menzionare perché emblematico della contemporaneità, è quello del movimento Me too, nato dalla condivisione di storie di violenza e abusi nel mondo cinematografico e sportivo attraverso l’hastag #Me Too. E’ realtà storica, credo ormai, che il movimento, avendo messo in luce l’efferatezza morale e sessuale di nomi di personalità del mondo dello spettacolo e dello sport, abbia contribuito a far maturare una coscienza collettiva femminile sul problema del possesso del proprio corpo. Certamente il movimento ha inoltre  massificato la consapevolezza della violenza di genere, ubiquamente perpetrata, tanto che la domanda che scaturisce è se  la violenza non sia parte integrante di un certo sistema.

Ma l’interessante considerazione, a cui viene indotto chi legge, è che anche l’azione politica del Me too non è scevra di contraddizioni: c’è chi, tra le femministe storiche, si chiede se il messaggio implicito nella veicolazione di quel famoso motto ”solo sì significa sì”  al posto di “no significa no”  stia a indicare la volontà e capacità della donna di acconsentire o meno, dall’altro contribuisce a diffondere uno standard di comportamento morale per le donne, che diventano gli unici soggetti responsabili, rafforzando così il mito di una femminilità resiliente (75/76).

Nel libro di Jennifer Guerra la denuncia del pericolo che, nel presente, le donne divengano preda delle invadenze del mercato, a  scapito di un passato in cui si era creduto di trovare una forma di libertà da un sistema economico fondato sull’individualismo con venature patriarcali, costituisce un filo rosso che appare attraverso i molteplici esempi riportati. Uno tra i più coinvolgenti è rappresentato dal mito delle girlboss, favola inventata da Sophia Amoruso che a 22 anni nel 2008 creò Nasty Gal, una e-commerce di abbigliamento, divenendo così un’imprenditrice di successo (con un fatturato di cento milioni di dollari all’anno) “ma anche il prototipo della girlboss”. Ovvero, come la stessa Amoruso scrive “una #Girlboss è qualcuno che si assume la responsabilità della propria vita, ottiene ciò che vuole e lavora per questo[…] Girlboss è un libro femminista” (Ivi p.121/122) ma il femminismo di Amoruso è la filosofia di un’imprenditrice che cerca di essere un modello per altre donne. Non è un femminismo contro gli uomini, bensì per il successo economico e sociale delle donne, “La girlboss culture è stata l’incarnazione dell’ethos femminista contemporaneo” (Ivi p. 124) che, come si può intuire è propagandato come una merce, una merce che vale per la costruzione dell’identità.

Chi o che cosa, quindi, è il nemico da combattere ? il modo di produzione capitalistico/patriarcale o il femminismo che si è fatto depotenziare? Mi pare che una prima risposta ci venga offerta nuovamente dalle parole di Rosi Braidotti  tratte dal testo già citato: “Il femminismo è una pratica della vita, dove vita non significa banalità, bensì prassi etico politica di lotta e di confronto dove critica e creatività vanno di pari passo” (Ivi p. 105) .

E un’altra risposta ci è offerta dalla stessa Guerra nella conclusione: “ Il femminismo ha il dovere di rimanere una teoria critica verso l’esterno e anche verso l’interno […] Il femminismo non è ostracizzare chi si comporta male o non risponde d arbitrari standard di perfezione morale. Il femminismo è una festa. E’ il contrario della solitudine” (Ivi p.15)


Info: J. Guerra, Il femminismo non è un brand, Einaudi, Torino 2024


Elisabetta Zamarchi, filosofa di formazione fenomenologica e consulente filosofica, vive e opera a Verona, nel Veneto, in Lombardia, a Napoli e a Roma. E’ stata tra le fondatrici della comunità filosofica di Diotima, negli anni Ottanta, presso l’ateneo di Verona. È socia, in quanto filosofa, di ALIPSI, associazione lacaniana italiana di psicoanalisi, dirige la rivista di Counseling  filosofico, organo ufficiale di Pragma, associazione di filosofi pratici,  (www.pragmasociety.org), la rubrica Assiotea, dedicata alle politiche della differenza sessuale,  ed è docente di filosofia pratica al Master di formazione in counseling filosofico di Milano.