“Il labirinto del coraggio e le vie d’uscita” – relazione di Fiorenza Taricone
Alla XI Scuola politica Be Free – Roma, L’altra Economia Mattatoio, 3-4-5 settembre 2021 – Fiorenza Taricone ha tenuto una relazione dal titolo Il labirinto del coraggio e le vie d’uscita.
Il labirinto del coraggio e le vie d’uscita
Rispetto alla storia passata, quando i generi riconosciuti erano solo due, il coraggio era diversamente declinato e riconosciuto rispetto ad essi. La storia è densa di eroi, alle donne si addiceva un grazioso diminutivo, quello di eroine, un diminutivo di moda nei media fino ai giorni recenti, con una sfumatura maggiormente denigrativa: veline, meteorine, letterine. Il coraggio, oltre ad avere un sesso, aveva anche un’età, di solito quella di una maturità virile; raramente si diceva che i bambini o i ragazzi avessero dimostrato coraggio, se non in forma anticipatoria, cioè dimostrando qualità proprie di un’età adulta; per le bambine e future donne, il coraggio non era né fra gli attributi riconosciuti, né fra quelli rientranti in un decalogo di necessarie virtù. Del resto, il coraggio non rientrava né fra le virtù cardinali, né fra quelle teologali. Il titolo che nomina per primo un labirinto si riferisce volutamente a una metafora elaborata dal filosofo Wittgenstein, e ripresa da Norberto Bobbio che illustra invece nella mia torsione il coraggio femminile; Wittgenstein e Bobbio parlano “della bottiglia, la rete e il labirinto”, per il quale il compito della filosofia era di insegnare alla mosca a uscire dalla bottiglia, immagine elevata chiaramente a rappresentazione globale della vita umana. Rappresenta una situazione in cui la via d’uscita esiste, in quanto la bottiglia non è tappata e c’è al di fuori di essa, uno spettatore, il filosofo, che vede chiaramente dove è. Ma per intravedere il collo della bottiglia e uscire occorre consapevolezza, coraggio e immaginazione. Sostituendo a questa immagine quella del pesce nella rete che crede ci sia una via d’uscita, quando la rete sarà aperta, l’uscita non sarà una liberazione, un principio, bensì la morte. In questa situazione il compito del filosofo evidentemente è quello di invitare ad accontentarsi del tratto di vita che ci è dato vivere, ad attendere serenamente la morte. L’interrogativo di Bobbio è se gli uomini siano mosche nella bottiglia o pesci nella rete. Forse né l’uno né l’altro, e propone una terza immagine: la via d’uscita esiste, ma non c’è nessuno spettatore che conosce preventivamente il percorso. Siamo tutti dentro alla bottiglia e procediamo per successive approssimazioni. L’immagine finale è allora quella del labirinto. Si procede a tentoni, quando si trova una via bloccata se ne prende un’altra, si corregge l’itinerario, si adattano i mezzi al fine, con pazienza, senza lasciarsi illudere dalle apparenze, e di fronte al bivio, quando non si è in grado di calcolare la ragione della scelta, si deve essere sempre pronti a tornare indietro. La caratteristica della situazione del labirinto è che nessuno sbocco è mai assolutamente assicurato, e non è mai finale. Trasportando queste metafore alla condizione esistenziale vissuta per secoli delle donne, potremmo dire che per uscire dalla bottiglia avevano un filosofo come bussola, e solo il coraggio a disposizione per ribellarsi a un ordine patriarcale; l’apertura delle rete, termine peraltro che ha connotato i rapporti fra donne nei femminismi ottocenteschi e novecenteschi, è senz’altro una metafora che si adatta a tutte le innumerevoli illusioni che le donne hanno nutrito sulla loro libertà, come per esempio uscire da famiglie repressive attraverso il matrimonio e figli non scelti, come dire uscire da un carcere per entrare in un altro, passando da signorine a signore. La lotta delle donne da secoli è stata quindi quella del labirinto, con pochi punti di riferimento per costruire sé stesse non come proiezione dell’altro, flessibili, pronte a tornare indietro, accettando la precarietà e rifiutando quella visione ottimistica di un progresso lineare smentito dalla crisi di un pianeta che ha circa 4 miliardi di anni, ma in profonda crisi in soli quattro secoli. Mi riferisco all’eco femminismo per cui la sostenibilità di cui oggi tanto si parla era strettamente legata al senso del limite. L’unica lezione del labirinto è appunto che vi sono strade senza uscita e da lì bisogna ripartire.
Se oggi possiamo analizzare il sessismo di alcune espressioni linguistiche è soprattutto perché i femminismi l’hanno nominato e cercato in quelle che ci hanno preceduto, operando necessariamente una risemantizzazione, cioè trasportando il coraggio e tutti i suoi accessori anche là dove non era ritenuto tale; la guerra e il lavoro di dare la vita offrono esempi chiari. Se le donne sono state escluse dalle guerre come femmes inutiles, donne inutili, non combattenti, compresi i luoghi ad essa legati come le Accademie, i Collegi, con tutte le possibilità di avanzamento sociale ed economico collegate, il sostantivo coraggio e gli aggettivi riferibili hanno riguardato necessariamente un solo genere; le donne che hanno scelto di fare incursione in un territorio, dove massimamente rifulgeva il coraggio maschile, l’hanno fatto da travestite. Nel dimorfismo sessuale relativo al coraggio, alle virtù, ai valori, si deve tenere conto che la donna è stata per secoli teatro di una scissione tra essere pubblico (normativo) più o meno imposto, diverso dall’essere privato; tra osservanza dovuta ad una precettistica morale diversa tra i due sessi e trasgressione; tra le libertà sancite dal diritto, divino o positivo che fosse, e le limitazioni di esse nel diritto consuetudinario. In epoche, ad esempio, contrassegnate dall’adozione piena di valori per le donne quali la modestia nel parlare e nell’agire, la morigeratezza all’interno delle mura domestiche, la dolcezza e la malleabilità, qualità come l’arditezza, la costanza, l’orgoglio sono state più frequentemente percepite come eccezioni nel quadro della personalità femminile. Anzi, il disprezzo per l’esistenza corporea, il coraggio nel dolore fisico, la perseveranza, appartengono in genere al decalogo comportamentale della religiosa, meno alla laica. Basta leggere ad esempio la cosiddetta “milizia spirituale” della quattrocentesca Caterina Vigro, che usava lessico e concetti militarizzati o con un balzo di secoli la francese Brigitte Friang, partigiana e poi combattente per il resto della vita. Nel suo Guardati morire scrive che la guerra è una specie di monastero, un Ordine. In esso, le preoccupazioni non sono sempre nobili, ma per lo meno, sono un poco meno meschine che nel mondo di tutti i giorni. In altre epoche, invece, più ricche di fermenti sociali e di nuove prospettive per le donne, i suoi pur occasionali interventi rivoluzionari appaiono come una manifestazione prevedibile, né stupiscono più di tanto taluni suoi gesti e prove di carattere.
Ha una sua difficoltà quindi una storia del coraggio, una storia dei sentimenti e delle qualità d’animo legate alla guerra, dei loro mutamenti, che non sembrano escludere a priori la donna dalla possibilità di applicarle in situazioni di tipo bellico-militare, dove è tradizionalmente descritta come vittima o martire offerente. Nella gamma di attitudini e requisiti delle situazioni di emergenza che richiedono abnegazione e sacrificio di sé, la storia non depone se non in piccola parte a sfavore delle donne. Piuttosto, all’uomo e alla donna non si applicavano gli stessi pesi e misure in tema di caratura morale specialmente per quello che riguardava la pazienza, la fortezza, la perseveranza; le differenze riguardavano non un primato di appartenenza, ma un diverso campo di applicazione pratica; ciò che occorre è quindi una risemantizzazione. In definitiva dal coraggio, che rinvia ad un’area semantica in cui primeggiano l’impulsività e anche l’istinto, le donne non sembrano esservi totalmente escluse, dato che una intera tradizione di pensiero la riteneva organicamente inferiore all’uomo proprio perché composta di umori freddi invece che caldi e secchi, da cui derivava la preponderanza dei sentimenti, dell’affettività ed emozionalità a scapito della razionalità.
I modelli offerti alle donne, le eroine della storia citate con un diminutivo, almeno fino al XVII-XVIII secolo erano quelli delle eroine bibliche, donne forti più che per un carattere bellicoso e indomito, per praticare il famoso detto “domum servavit, lanam fecit”. Si elogiava insomma la famosa tipologia della “femme forte” di domestiche virtù che espletava le virtù cardinali nei ristretti confini accettati dalla società. A seguire l’enorme e monotona letteratura morale di origine laica e religiosa con le quattro virtù cardinali ereditate dall’antichità, Platone, Aristotele, Cicerone, gli Stoici, Sant’Ambrogio, e Sant’Agostino, in cui ricorrono la forza e il coraggio, che certamente coinvolgono le donne: per San Tommaso la forza è insieme fermezza d’animo nel compimento del dovere e di conseguenza la condizione di ogni virtù, e in senso più ristretto la virtù che rende l’uomo intrepido di fronte a ogni pericolo e di fronte alla morte, che affronta senza debolezza, con un coraggio privo di temerarietà e si collega alla bene della cosa pubblica, cui le donne non partecipavano. La forza è dunque relativa al timore principalmente della morte e qui risalta in modo evidente la diversificazione fra i generi: affrontare la morte per un uomo è prova di coraggio, partorire sapendo di poter morire ogni volta apparteneva all’ordine naturale, privo di qualità. La forza si colloca fra l’audacia e la timidezza, diversa dalla speranza, in posizione intermedia fra la disperazione e la presunzione; le sue componenti sono sette: magnanimità, fiducia, sicurezza, magnificenza, costanza, tolleranza, altrimenti detta pazienza e fermezza, e perseveranza.
Paradossalmente, se nella guerra che causava morti, disperazione, lutti, menomazioni, il coraggio era attributo maschile, nel processo che dava la vita, il parto, si verificava un’analoga sottrazione valoriale, pur esigendo capacità simili a quelle mostrate dai soldati. Per le donne le maternità non scelte, anzi imposte, comportavano accettazione del dolore, capacità di sacrificio, valutazione dei rischi, consapevolezza di una possibile modifica permanente del proprio corpo. Eppure, nel comune orizzonte mentale, la maternità portava con sé la naturalità del soffrire, anzi la doverosità della condanna biblica: partorirai con dolore. Nell’Ottocento, dalle relazioni dei medici traspariva chiaramente la disapprovazione di quelle che si lamentavano eccessivamente delle tante ore di travaglio. Oltre il coraggio di obbedire alle necessità della riproduzione, ricordo il coraggio che si è reso necessario alle donne stesse per setacciare la medesima funzione riproduttiva, quell’ambiguo materno approfondito dal femminismo novecentesco. Quello precedente in Italia aveva iniziato a pensare la maternità come strumento di legittimazione sociale e politica, scoprendo le sue valenze non solo private, ma pubbliche, ma aveva anche coraggiosamente criticato la maternità come strumento per esistere. Le vite concrete che anni di ricerche hanno rivelato, offrono letture molto diversificate rispetto allo stereotipo comunemente introiettato di un amore materno uguale per tutte, e l’immagine unica si sgretola per lasciare il posto a tante sfumature diverse. Molte donne hanno difeso a oltranza il materno per non guardare in faccia le sue tante ambiguità, tante non hanno dato seguito alla potenza creatrice con le interruzioni di gravidanza, anche sapendo di rischiare la morte o la condanna penale, altre donne, non molte, hanno eliminato il frutto già nato; altre, preferito trasferire altrove la potenza dell’amore materno, nei figli altrui, anche professionalmente, o nell’oblatività religiosa; donne colte del primo Novecento hanno indagato la maternità con l’aiuto della psicanalisi, donne contemporanee sono oggi ossessionate dal familismo tecnologico e dal figlio ad ogni costo, mentre donne-bambine, oggi come ieri, hanno interrotto la fanciullezza per un tempo dell’essere madri troppo precoce. Pari coraggio le donne hanno avuto per ribellarsi cercando di salvare la dignità personale, altrettanto per rimanere e fare scudo agli affetti più fragili.
In definitiva, il coraggio femminile, quando non è stato possibile chiamarlo altrimenti, è stato spesso registrato come uno sconfinamento, ma necessario alle donne per stabilire il senso dei propri e degli altrui confini. riappropriandosi di una sottrazione di senso che non poteva essere accettato come una omissione linguistica.