“… Il mondo così come contiene insidie, allo stesso modo contiene medicamenti e improvvise felicità…”
Vi proponiamo una intervista di Luciana Tavernini a Marina Corona autrice del romanzo La storia di Mario presa da LetterateMagazine n.158
Ho incontrato Marina Corona grazie a Mariolina De Angelis, sensibile poeta che sa che per le donne che vogliono giungere a una autentica espressione di sé “la poesia non è un lusso”, come dice il titolo di un saggio di Audre Lorde del 1977, pubblicato in Sorella outsider. L’amore per la poesia ci accomuna.
Marina Corona dal 2011 ha organizzato a Milano i cicli La grande poesia femminile presso la Casa della cultura dedicati a grandi autrici come Saffo, Marina Cvetaeva, Emily Dickinson, Anna Achmatova, il ciclo sarà dedicato a Vittoria Colonna, Christina Rossetti e Emily Bronte.
Marina è a sua volta poeta, i suoi libri hanno vinto numerosi premi, tra cui il premio internazionale “Eugenio Montale” nel 1993 per la sezione inediti e nel 1998 per gli editi per L’ora chiara (Jaca Book). Nel 2006 ha pubblicato I raccoglitori di luce (Jaca Book).
L’occasione del dialogo è il romanzo La storia di Mario che, grazie a una scrittura essenziale e acuminata, mi ha aperto prospettive e interrogativi.
Nella prima parte del libro, di cui è protagonista Mario, un bambino di 6 anni, usi la terza persona. È la scrittrice che unisce ciò che possiamo vedere accadere e ciò che accade nell’interiorità del bambino: le libere associazioni, i salti temporali e di luogo, la profonda sensibilità alle emozioni, quelle che la persona adulta prova ma che spesso tacita, la multisensorialità, l’animismo che concepisce la vita diffusa anche nelle cose. Mi viene in mente Antonia Pozzi che sottolineava come compito della poesia fosse di “rubare l’anima alle cose”. E ancora la capacità di cogliere la bellezza nelle piccole cose, di gioirne con uno stupore improvviso.
Quanto della tua esperienza di poeta ha influenzato questo tipo di scrittura e come sei riuscita a entrare in modo così empatico nell’esperienza di un bambino e a darcene conto?
«L’empatia è una caratteristica della scrittura poetica: è indispensabile per una o un poeta “risuonare” empaticamente sia con la zona più sensibile del proprio animo sia con il mondo che la circonda e gli eventi che la toccano. Giovanni Pascoli parlava del “fanciullino” che vive nell’anima del poeta, come dell’elemento più importante della scrittura poetica e possiamo certo dire che Mario è una delle possibili raffigurazioni di questo “fanciullino” pascoliano. Ma per quanto mi riguarda ci sono stati dei dati biografici che hanno favorito il venire alla luce di questo stravagante bambino. Quando ho cominciato a scrivere questo libro mia figlia era piccola e quindi io ero impegnata in quell’esercizio di trascrizione logica di dati intuitivi ed empatici che caratterizza il compito di una mamma nei primi anni di vita della sua creatura. Inoltre lavoravo presso un asilo montessoriano che, per primo a Roma, dove allora vivevo, aveva attuato l’integrazione di bimbe e bimbi portatori di handicap; io ero quindi quotidianamente a contatto con loro e cercavo, facendomi aiutare anche dalle e dai loro amichetti più fortunati, di comprendere ciò che pensavano. Ero inoltre impegnata come paziente in una personale analisi kleiniana, esperienza psicoanalitica che comporta una regressione fino alle proprie esperienze infantili, con le quali io mi trovavo dunque in un rapporto privilegiato. Questo mi ha indotto a scrivere il romanzo fino al momento in cui Mario mette la propria brevissima letterina sotto la porta della camera della mamma. In seguito ho smesso di lavorare all’asilo montessoriano, mia figlia è cresciuta e l’analisi kleiniana è terminata, per queste ragioni, credo, non sono più riuscita a procedere nel romanzo e l’ho abbandonato per un lungo periodo, dedicandomi soltanto alla poesia. È stato il pittore Emilio Tadini che, molti anni dopo, quando mi ero ormai trasferita a Milano, informato da me su questo mio breve testo, mi ha consigliato di proseguire spostando il protagonista in un’altra dimensione della sua vita; così sono nate le pagine di Mario in campagna, pagine relativamente autobiografiche perché veramente a cinque anni sono stata affidata per un po’ di tempo a una zia che viveva in campagna e allevava bachi da seta. Successivamente è nata invece la seconda parte del libro: la vicenda di Maria, scaturita dal desiderio di dar voce ad una scrittura che tenesse presente la lezione di Joyce sul flusso di coscienza».
La vita di Mario è piena di avventure perché vive con intensità tutto ciò che gli accade, con una capacità di vedere oltre le apparenze ma questo cozza con l’ottusità della persona adulta che ha perso la capacità di meravigliarsi, che non si dà tempo per capire, perché ascolta solo ciò che è previsto. Il tuo libro ha costituito per me un percorso per rimanere in contatto con la bambina che sono stata, questo contatto è un prezioso aiuto per comunicare con l’altro da sé, aprendomi all’ascolto della sua imprevedibilità. Un aiuto anche nei confronti di chi per malattia o età avanzata si esprime con modalità comunicative che ci paiono incomprensibili perché crediamo che l’unico modo di comunicare sia quello verbale e razionale. Mentre molti personaggi, dai genitori alla maestra, alla zia di campagna, di fronte all’imprevedibilità di Mario si irrigidiscono, tu sai rimanere vicina a lui.
Come hai lavorato per fondere l’esperienza personale con i personaggi del libro?
«La capacità di rimanere in contatto con la parte infantile della nostra personalità è un dono preziosissimo sia per quanto riguarda la capacità di entrare in relazione empatica con realtà diverse dalle nostre sia per quanto riguarda la creatività. L’espressione artistica è un utilissimo allenamento a questo privilegiato contatto e a questo proposito vorrei aggiungere un aneddoto: il celebre pittore Paul Klee mostrò un giorno ad una signora di una certa età un suo disegno, si trattava naturalmente di un disegno astratto e la signora commentò: “Ma un disegno così lo sa fare anche il mio nipotino, che ha cinque anni!” “Certo signora,” rispose Klee “ma bisognerà vedere se saprà farlo ancora quando ne avrà cinquanta.”»
La seconda parte del libro è solo all’apparenza un’altra storia, quella di Maria. Infatti continua la numerazione dei capitoli e possiamo anche qui assistere a ciò che accade fuori e dentro la protagonista e cogliere la compresenza di più luoghi e tempi. In questa parte troviamo un io narrante, Maria appunto, che fa della malattia e della camera dell’ospedale la “stanza tutta per sé”, per citare Virginia Woolf, una stanza in cui ripercorrere la sua vita fino a sciogliere i grumi di silenzio e svelare le caratteristiche del perbenismo borghese negli anni Quaranta e nella prima metà dei Cinquanta del secolo scorso. Così tu riesci a offrirci uno sguardo diverso su quel periodo storico, mostrando che il silenzio, il tabù, su aspetti vitali della vita, come la scoperta della sessualità, si colleghino al silenzio e all’omertà sui delitti sociali come la segregazione e poi deportazione della popolazione di origine ebraica. Come sei riuscita a cogliere questo collegamento?
«La mia famiglia di origine era una famiglia “eccentrica” rispetto alla maggior parte delle famiglie che mi circondavano e che erano quelle nelle quali crescevano le mie e i miei amichetti, ma io mi resi conto, a un certo punto della mia infanzia, che anche quelle famiglie, dove sembrava che la vita scorresse secondo i canoni di un perbenismo sereno e amorevole, nascondevano una punta, e a volte più di una punta, di crudeltà: il plasmare le proprie figlie e figli secondo uno stereotipo che li voleva lontani dalla loro genuinità e piegati a quell’ “essere come tutti” tanto gradito alla società borghese comportava un’inibizione della spontaneità, della parte più autentica di uomini e donne, della sessualità femminile, ed esaltava i privilegi maschili, insomma esperienze queste che possiamo tranquillamente definire “violente”. Ho così paragonato nel libro la violenza coercitiva che un certo schema di educazione borghese esercitava sui propri figli e soprattutto figlie alla violenza nazista, perché la violenza è sempre violenza, anche se quella delle persecuzioni contro persone di origine ebraica ha rappresentato certo un apice inesplicabile in una società tanto evoluta e civile come la nostra. Violenza inesplicabile, nel mio romanzo, attraverso i ricordi di Maria, così come inesplicabile è la malattia del piccolo Mario».
La tua protagonista attua uno sprofondamento doloroso e necessario “per attingere alle risorse più intime”, per giungere ad azzerare i significati e le identità precedentemente costituite, per liberarsi di un falso sé. Qui il tuo libro si caratterizza come “scrittura del deserto”, così la chiama Wanda Tommasi nel saggio così intitolato pubblicato nel libro La magica forza del negativo, della comunità filosofica Diotima. Che cosa costringe la tua protagonista a entrare in questo discorso di verità, ad attraversare questo deserto?
«Maria si chiude nella stanza della clinica e riflette instancabilmente sulla propria vita perché una domanda l’attanaglia: oscuramente sente di avere una responsabilità nel disagio di suo figlio ma non sa quale sia in realtà questa responsabilità: “perché mio figlio è così?” Si domanda. Nella sua lunga e tormentosissima ricerca abbandona tutti gli schemi “benpensanti” che avevano caratterizzato il suo falso sé per sprofondare nella ricerca di una verità dolorosissima da raggiungere e da accettare. L’amore per il bambino la rende capace di questa ricerca ai limiti della follia, in questo senso Maria è una sorta di “madre coraggio” che a un certo punto non si piega più alle ragionevoli osservazioni che il suo mondo esterno perfettamente “come si deve” le suggerisce, ma, andando oltre una prudente protezione di se stessa, si dedica a un ripensamento del passato alla luce di una verità che solo la forza del suo amore le fa intendere. Questo sforzo grandissimo è l’unica via che lei felicemente intuisce come feconda per conciliarsi davvero con quel bimbo troppo difficile che il destino le ha dato in sorte».
La figura di Grazia rappresenta l’amica che l’ha saputa aiutare e le è rimasta vicina ma Maria non ha condiviso con lei i segreti che la opprimevano. Così come è avvenuto con la madre che le è sempre stata accanto ma a cui lei non è mai riuscita a parlare. È una situazione che precede la pratica femminista dell’autocoscienza, dove le donne, separandosi dagli uomini, hanno trovato parole per dire la propria esperienza e scoprire insieme alle altre l’origine del loro malessere e prima delle riflessioni sul rapporto con la madre che hanno modificato l’ordine simbolico. Della rivoluzione femminista ho scritto con Marina Santini in Mia madre femminista. Voci da una rivoluzione che continua. La tua protagonista vive in un periodo precedente e la sua ricerca è solo apparentemente individuale, infatti attorno a lei collochi altre figure benefiche che usano parole e gesti empatici, ad esempio l’infermiera che dice: “Il bene aiuta. Non risolve, no, però aiuta”.Che funzione hanno queste figure femminili e alcune maschili nell’uscita dalla “malattia della morte”, come Marguerite Duras chiama questa incapacità di amare, individuale e sociale? Quali indicazioni possiamo trarne?
«Direi che è proprio la capacità di Maria di vivere una ricerca personale di verità, per quanto difficile da accettare sia questa verità, che la pone in una condizione di particolare ricettività agli aiuti che le possono giungere dall’esterno, da un mondo che non è per nulla estraneo ai fatti che ci accadono. Io penso che il trovarsi spiritualmente in un luogo di verità chiami a noi aspetti del mondo benefici. Il mondo sempre è in grado di soccorrerci perché, così come contiene insidie, allo stesso modo contiene medicamenti e improvvise felicità, questi ultimi però riusciamo a scorgerli solo se ci liberiamo di quella crosta di credenze, abitudini e pregiudizi che abbiamo costruito intorno a noi e che servono principalmente ad anestetizzarci e proteggerci dal dolore sia interno che esterno e ci apriamo all’accadere scoprendo in esso tante avventure salvifiche. Maria è certamente da un lato una donna molto in pericolo perché può morire, oppure impazzire, ma da un altro è una donna per così dire in stato di grazia, perché la sua ricerca di verità la rende capace di una rara autenticità e fa sì che la zona luminosa del mondo in qualche modo la raggiunga soccorrendola e confortandola; non ha chi la aiuti nella sua ricerca perché nessuna persona potrebbe condurla attraverso gli intricati e nebulosi pensieri della sua mente tormentata, ma la sua solitudine, come una calamita, attira a sé piccole vicende di salvezza».
Marina Corona, La storia di Mario, Robin Edizioni 2013
Marina Corona, L’ora chiara, Jaca Book 1998
Marina Corona, I raccoglitori di luce, Jaka Book 2006
Diotima, La magica forza del negativo, Liguori
Audre Lorde, Sorella outsider, Il dito e la luna, Milano 2014
Marguerite Duras, La malattia della morte, in Testi segreti , Feltrinelli, Milano 1987
Marina Santini, Luciana Tavernini, Mia madre femminista. Voci da una rivoluzione che continua, Il poligrafo 2015
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