Leggere questo libro è stato per me un vero nutrimento, Kofman – con Nietzsche – sostiene che se si mangia bene ci si nutre anche bene … c’era molto cibo di qualità in questo testo. Testo curato da Stefania Trantino, ulteriore dimostrazione dell’impegno profuso da questa possente filosofa napoletana per far conoscere ad un pubblico più vasto famose filosofe d’oltralpe, ancora non molto conosciute in Italia. Tarantino continua l’operazione inaugurata insieme a Chiara Zamboni su Françoise Duroux ne Il paradigma perturbante della differenza sessuale, ma questa volta con ben altro onere: curatela, introduzione, un saggio, traduzioni di testi di autori francesi e pagine della stessa Kofman.

La struttura del libro, che si articola in più parti in modo da offrire più sfaccettature del pensiero complesso di Kofman, presenta le relazioni dell’omonimo seminario tenuto all’Istituto di Studi Filosofici di Napoli (16-18 Maggio 2022): gli interventi di Federica Negri, Christiane Veauvy e Orietta Ombrosi; alcune pagine tratte dai libri di Kofman; saggi di sue amiche filosofe come Françoise Collin e amici filosofi come Nancy e Derrida che hanno segnato tappe significative della sua vita spesa per la filosofia. Il libro è edito dalla casa editrice La scuola di Pitagora, dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici.

La filosofia di Kofman è scandalosa, sia nell’analisi che scandaglia, squarcia il pensiero – come se fosse un ventre – dei più importanti filosofi occidentali, che nella forma e nel genere di una scrittura che rispecchia una vita poco inquadrabile in canoni prestabiliti.

Infatti, mentre la pur perturbante Duroux risponde al canone del Pensiero della differenza, dichiarandosi apertamente femminista e partecipando attivamente e più di una volta ai seminari organizzati dai gruppi del movimento della differenza sessuale italiani, Kofman svolge la sua elaborazione e riflessione filosofica in solitaria. Poche relazioni femminili, qualche relazione maschile importante come Derrida e Nancy. Tanto in solitaria da fare esclamare a Françoise Collin che la solitudine sia stata la causa del suo suicidio.

Federica Negri scrive invece che Kofman è una pensatrice “insituabile”, lo si evince anche dalla travagliata commemorazione di Derrida alla sua morte in cui sono dedicate ben tre pagine alla ricerca impossibile di un titolo per “definire” Sarah Kofman, ma soprattutto per definire la loro ancora più impossibile amicizia. Tradizionalmente per i filosofi che hanno scritto di amicizia, anche un po’ per lo stesso Derrida, l’unica amicizia possibile è quella tra uomini.

L’opera della nostra autrice, che parte dal rilevare le aporie fin dall’origine della storia della filosofia, è costellata dalla contraddizione ma anche dal doppio. Aporie di Socrate, aporie doppie di Auschwitz, il doppio sguardo Nietzsche-Freud, la doppia madre con doppio indirizzo (Rue Ordener e Rue Labat), il doppio registro di pensiero e istinto per ritrovare la vita nella scrittura. La scrittura di Kofman è sempre una “riscrittura vitale”, la “riscrittura” del suo stare al mondo (Negri, p. 41).

Circa le aporie e il doppio, Kofman si dichiara non femminista, ma muove una forte critica al femminismo della parità, critica condivisa da molte di noi del Pensiero della differenza.

S’identifica, poi, con alcuni filosofi misogini come Nietzsche, ma critica la storia della filosofia maschile occidentale come rimosso della differenza, scavando, sviscerando il pensiero di molti autori come Socrate, Platone, Kant, Comte.

Ma c’è anche un’altra doppiezza, quella del maschile e femminile, che si evince dal doppio binario tra il suo nome e il suo cognome, che ella stessa enfatizza sottolineando come ko(p)f-man significhi “testa di uomo”, mentre la “a” resiste doppiamente nel nome biblico di Sarah che significa colei che genera miracolosamente. Doppio è anche lo sguardo rivolto a Nietzsche e Freud e un altro doppio è quello del rapporto tra vita e scrittura, come corpo e corpus. La scrittura come strumento di analisi ma anche come decostruzione della scrittura degli altri e costruzione della propria soggettività. Scrive per affermare la vita, e alla fine si toglie la vita.

Il suo discorso è indefinibile con parole correnti, la si può meglio intendere attraverso atti sensibili di vita: il riso, il grido, il graffio di un gatto.

Ma andiamo con ordine! Tarantino fin dall’inziale “Ritratto di Sarah Kofman” sottolinea la complessità del suo pensiero, parla di un focus originale della sua ricerca che è difficile definire in una sola area culturale, ma che tocca “estetica, metafisica, letteratura e segue le tracce della rimozione del femminile e della precisa posizione sessuata del discorso filosofico” (Tarantino, p. 12). Estetica, metafisica e letteratura non sono visti come saperi astratti ma come delle vere ‘technai’ che, per esempio, Platone usa per scovare la verità, e lo fa spiando, perché il primo significato del verbo speculare è “spiare”. Il filosofo che domanda e scruta è uno spione. “Il compito del filosofo che Platone incarna è quello di risvegliare la domanda sulla vera natura delle cose celata agli occhi degli umani dalla realtà sensibile, e solo l’occhio dell’anima può scrutare” (Tarantino, p. 21).

La filosofia come “spia”, mi ricorda molto da vicino Angela Putino, per la quale il/la filosofo/a è un investigatore, alla ricerca di indizi e se accostiamo queste due attività simili abbiamo un filosofo/a possibile agente segreto della CIA, una spia ad alto livello.

Il filosofare, per Socrate/Platone, va per ipotesi come la scienza, perché la dialettica non è quella statica di Hegel che approda ad una sintesi mortifera, ma è un continuo movimento attraverso gli scarti delle ipotesi precedenti. Abbiamo quindi un metodo dialettico, come continuo innalzamento e scarto, guidato da un’idea del bene come terzo termine. Nessun vero sapere si può dare senza il fondamento immutabile del bene. La dialettica non è, quindi, la stasi hegeliana, ma è il filosofare stesso che è sempre in relazione e in movimento. L’antico sapere forgiato dalla technè, quell’arcaica via che è arte di aprire nuove strade (Metis)! Ed è per questo che il pensiero – che è metafora (dal greco meta/phòreo) – disloca, non dà mai risposte. Tuttavia, la filosofia per Kofman ormai ha perso la metafora che apre all’aporia, alla differenza e soprattutto alla differenza femminile.

Tarantino, come è sua consuetudine – tra le sue prime opere c’è proprio la curatela e traduzione di Note di un metodo di Maria Zambrano – analizza prima di tutto il metodo, perché è nel metodo che c’è molto di un filosofare. Metodo analitico freudiano, ma anche uso della metafora, che è obbligata per un pensiero che indica la meta-morfosi. Lo sottolinea bene M. Grygielewicz: «“Metafora” significa in greco meta/phoreo: dislocare tra/smettere tra/piantare, smuovere le nostre certezze, non dà mai la risposta, procede costantemente dagli scarti» (tr. it. di Trantino, p.25).

Purtroppo, la metafora viene soppiantata dal concetto, viene espulsa come la differenza femminile, come una impasse, che non fa procedere nel discorso filosofico, ma che diventa il punto cieco di ogni sistema che nasce da questo scarto. Ma è proprio questo punto cieco che fa distinguere con metodo freudiano «ciò che i filosofi hanno detto da quello che realmente hanno fatto» (Tarantino, p. 27). Questo Kofman lo chiama “metodo ermeneutico di II grado”.

L’opera di Kofman si porge al lettore e alla lettrice attraverso il doppio della vita e della scrittura, librandosi tra corpo e corpus. Una scrittura che, come in Nietzsche, esprime l’essere dell’autore o dell’autrice e che in lei è come una necessità esistenziale. Secondo alcune interpretazioni si suicida proprio quando appura che la sua capacità di scrivere si è esaurita. Sembra così da ciò che Nancy riporta nel suo necrologio. Da quei pochi e importanti amici/che lei voleva non solo esser letta, ma voleva anche che «quella lettura tornasse a lei come un racconto, con osservazioni, sorprese aneddoti. […] lei era sempre interessata agli aneddoti, diceva che sono “l’equivalente di un ‘tocco’ che sottolinea l’essenziale, la bellezza, la sola cosa irrefutabile, la sola che rimane quando la verità del sistema è scomparsa”» (Nancy, p. 132).

E credo che sia questa la vera causa del suicidio perché, se vita e scrittura sono state cosi legate nella vita, lo devono essere per forza di cose anche nella morte.

Il suo scritto – che, come dice Nancy, è un gesto nudo, un graffio, un’impronta (ritorna l’idea di una filosofia come spia e investigazione) – attraverso la biografia e la bibliografia, tenta di scoprire quanto di corpo ci sia nel corpus di ogni autore, seguendo il doppio sguardo di Nietzsche e Freud, ma sempre con il fine di attuare uno scambio con chi legge.

Anche il riso di Sarah è doppio, come afferma Derrida, perché è un riso schietto, quindi dionisiaco, ma che nasce dalla tristezza, «una risata che non sublima, ma diviene immersione nella vita e nella sofferenza» (Negri, p.44), senza venirne risucchiati, una risata che diviene danza ed è l’unico modo per contestare la Metafisica, per prendersi gioco della scrittura.

Kofman, danzando e ridendo, decostruisce il discorso metafisico, smaschera e svela il senso della filosofia di ogni autore, le aporie del pensiero occidentale che già a partire da Socrate si nutre e contemporaneamente espelle ciò di cui si nutre. Socrate si nutre delle tecniche sofiste nel momento stesso in cui le condanna e analogamente fa con il femminile. Usa il metodo maieutico, nel momento stesso in cui cancella la madre e così Diotima, la sua saggia maestra, come soggetto capace di pensare. Su questa aporia si basa tutta la filosofia occidentale che trasforma sempre più la metafora, come arte del dislocamento e del movimento unitario di vita e pensiero, nella fissità del concetto. Ma pur rivendicando per le donne la funzione del pensiero, Kofman non oppone mai al pensiero maschile quello femminile, ma parla di un modo femminile di fare filosofia al di sopra di questa separazione.

Come pure non c’è una netta separazione tra la scrittura e la lettura. Lei è soprattutto una lettrice di testi, ed è attraverso queste letture che ricostruisce insieme l’identità dell’autore e la sua, che non è mai una identità fissata per sempre, ma sempre in un movimento, che si scompone e si ricompone senza arrivare mai ad una sintesi.

Kofman penetra nel corpus dell’autore come con il graffio le unghie di un gatto affondano nella carne, così definisce la sua scrittura, come innesto, un graffio in un testo precostituito (Negri p.49). Ma a sua volta anche il lettore ci deve mettere il suo graffio.

“Divenire ciò che si è” attraverso le molteplici letture e riscritture, questo è l’intento… e dopo tante biografie, comunque Kofman si gioca l’ultima carta dell’ autobiografia, in cui non può non parlare dell’infanzia, scoprendo alla fine – qui ritorna Freud. – che all’origine di tutto c’è il Padre.

La scrittura in queste due opere autobiografiche diverse per stili e toni è come un grido, forse per cercare la salvezza, la via d’uscita dalla doppia aporia di Auschwitz.

In Parole soffocate, poche cose dice del padre, parlano per lui i numeri del suo “rastrellamento” (usa questa parola molto più forte di “deportazione”), della sua sosta e della sua uccisione ad Auschwitz. La descrizione di questo travaglio è riassunta in pochi elementi biografici – quasi fossero incisi su una lapide (cosa che avverrà tanti anni dopo nel Mémorial de la Shoah di Parigi ) – riportati in un elenco fittissimo di date e nomi di ebrei deportati. Elenco impaginato in obliquo ad indicare la difficoltà di dire l’indicibile attraverso la difficoltà di leggere e decifrare da parte del lettore. Su Auschwitz vige la doppia aporia: la prima a livello di scrittura (corpus) tra la spinta a parlare incessantemente, come infinito intrattenimento nella morte del padre in quanto ebreo, e la impossibilità di parlarne e racchiudere nel linguaggio la disperazione di una morte assolutamente altra anche tra quelle dei deportati. Il padre vien ucciso perché osa celebrare lo shabbat, ossia osa venerare il suo Dio, pur versando in quell’inferno, invece di imprecarlo. La seconda aporia a livello fisico di “corpo”, tra il suo “bisogno frenetico” di parlarne, e l’impossibilità fisica di farlo, per il soffocamento che sopraggiunge proprio quando le parole per dire affiorano come un flotto che prende alla gola, appunto Parole soffocate.

In Rue Ordener, rue Labat, la seconda autobiografia, un racconto importante, perché quasi detta il finale dell’intera opera di Kofman, ricorda il padre in un esergo senza nominarlo, a segnare il passaggio ormai compiuto tra il nome del padre e il suo. Parla del padre che ama le stilografiche e gliele regala come ad incitarla e autorizzarla a scrivere. Come non rivedere in lui mio padre, Armando Borrello? Non era ebreo e non è morto ad Auschwitz, ma è morto a soli 54 anni per le conseguenze degli stenti accumulati, sempre in quella stessa guerra, tra la prigionia e una pericolosa fuga dall’Albania a Napoli, che l’hanno portato a sopravvivere ma a morire giovane. Mio padre, anche lui amava le stilografiche e le portava sempre nel taschino della giacca. Conservo una delle tante che mi ha regalato, rigorosamente marca Aurora, a memoria del fatto che forse scrivo pure io per autorizzazione paterna, anche se il desiderio di farlo mi deriva da mia madre e ho iniziato direttamente con un’Olivetti-44.

Ma Rue Ordener, rue Labat, testo che si articola tutto al femminile – rispetto a Parole Soffocate dove al contrario tutto si articola al maschile – dice di più della madre, della madre naturale che l’ha tradita abbandonandola e alla quale lega la sua difficoltà di cibarsi, perché la perseguitava per ingozzarla di cibo, rinfacciandole nello stesso tempo il prezzo di una bistecca. Ma soprattutto parla della madre buona, che chiama affettuosamente “Memè”, l’affidataria che l’ha accolta amorevolmente salvandole la vita e che l’ha iniziata alla filosofia.

Non è la prima autrice e non sarà l’ultima che si dichiara anoressica. Credo che prima o poi dovremmo dire di più dell’anoressia del corpo di tante filosofe, a cui fa da contrasto la bulimia del corpus, ossia la scrittura. “La dietetica” ha molto a che fare il pensiero e la scrittura femminile, anche se ne ha parlato, altra aporia, proprio Nietzsche, il filosofo più misogino della storia occidentale, che sostiene che «non basta mangiare, ma bisogna mangiar bene, sapere quindi quando non mangiare perché ci danneggia» (Negri p. 42). Angela Putino era solita riempire quaderni con una grafia piccola e fittissima come un geroglifico, scriveva senza tregua in un continuum infinito pur di dimenticare di cibarsi, mentre non faceva mai mancare cibo ai gatti che allevava nel suo giardino pensile in una delle strade più panoramiche di Napoli.

Kofman come Angela va avanti, sempre più avanti, senza interruzioni – infatti prosa viene da prorsus, diritto avanti a sé. Le sue opere sono il frutto dei suoi corsi, che sono anche una corsa, non verso il semplice accumulo, ma verso un continuum. «È occupata solo a correre davanti a sé per liberarsi sempre più avanti» (Nancy, p 134).

Ma Prorsa è anche la dea del parto, ad indicare che Kofman considerava i suoi libri come figli, anzi proprio come “parto”. Ne ha partoriti più di sua madre in carne ed ossa. Sarah conclude poco i suoi libri, perché mentre conclude un libro, ne ha già uno in mente. Ogni opera, per definizione, non ha la fine e nemmeno un fine, non ha finalità, ma la verità come apertura al senso. Ma poi arriva «il corso rotto, interrotto senza remissione, o meglio, lo stesso corso precipitato alla fine chiaramente nella sua assenza di fine, nella sua insopportabile assenza di un termine» (Nancy p. 141). Sarah è consapevole che è presso la sua fine quando non riesce più a ricordare ciò che legge, ciò che ascolta (la musica), quando non riesce mantenere il ritmo forsennato della sua scrittura.

Ma torniamo alla sua infanzia, sembrerebbe emergere a prima vista un triangolo edipico, dove c’è un propendere di Kofman per il padre ma questo si tramuta presto in quadrilatero, a complicare una cosa già complicata perché queste genealogie sono filtrate dalla appartenenza alla complessa cultura ebraica nonché dalla dietetica. Kofman, infatti, rifiuta l’ebraismo della madre biologica, la cultura del basso – in termini culinari quella della carne, bianca o rossa che sia – ma accoglie l’ebraismo del padre, ossia la cultura alta della tradizione Goy.

Lei, come in ogni buona analisi freudiana, propende per il padre, tradendo la madre biologica che l’aveva a sua vota tradita – le resta la madre “putativa” che incarna l’amore salvifico e la filosofia. Si evince dalla sua interpretazione del Simposio, dove appare la “dissimmetria genealogica” tra il padre e la madre di Eros. «Infatti, della madre di Poros, né Platone, ovvero Socrate, ovvero Diotima, non dice nulla, o quasi nulla, se non il nome Penia, come se questa dovesse già esser “privata di tutta la sua discendenza” mentre del padre Poros è precisato che si tratta del figlio di Metis» (Ombrosi, p. 78). Metis, la ragion pratica, che è all’origine di ogni technè, espediente per garantire all’umanità una via di uscita dalle aporie. Infatti, la filosofia di Kofman è una ricerca continua e insieme una via di uscita dalle aporie che ritrova nei grandi filosofi.

Dopo questa ultima carta giocata, Sarah non ha più carte e si suicida. Il suicidio non è, però, la sua ultima parola. Il suicidio è afasico per definizione.

A differenza dei molti intellettuali (maschi) suoi contemporanei che avevano proclamato l’impossibilità di scrivere di fronte ad un evento assoluto come l’Olocausto, come fine delle Storia – una storia maschile fin dalle origini votata alla morte – Kofman rilancia e pone un imperativo: «si deve, è questo il nostro dovere, dopo Auschwitz, continuare “proseguire” (echainer)» (Kofman, p. 85).

Anche rispetto alla doppia aporia di Auschwitz c’è una via di uscita: c’è Metis, dea di una pratica filosofica più vicina al discorso femminile.