Mai ho parlato del mio ritorno dai Lager, e dopo oggi, mai più ne parlerò. Ma ne ho preso l’impegno e lo faccio, pur risentendone orrore e dolore. Alzerò quella lastra tombale, guarderò in un fondo dove strisciano serpenti.
Per l’urgenza di allontanarmi, riassumerò quel tempo in gruppi, inquadrando in ciascun gruppo gli episodi più significativi, più emblematici.
_ Documenti non ne ho, le mie date sono incerte. Ma necessito di una premessa.

{{4 (o 5) marzo del 1944, Venezia}}.

Arrestata nel magazzino dove avevo appuntamento con due compagni, e condotta in un ufficetto dove un uomo di mezza età, con uno scuro volto impenetrabile, mi prende la borsetta, strappando la fodera, rovesciandola tutta. Ogni tanto alza la testa e mi scruta. Cerco di concentrarmi sui vetri appannati di nebbia, finché l’uomo si alza e dice:

— Andiamo.

{{Primi di settembre 1945, Venezia}}.

Condotta in un ufficio della polizia ferroviaria, davanti a tre uomini che, dopo qualche domanda incuriosita, mi guardano in silenzio. Mi ci aveva sbattuto un controllore paonazzo dall’ira, stringendomi il braccio, quasi strattonandomi. Aveva spiegato che, nel tragitto Mestre-Venezia, alla sua legittima – le-git-ti-ma!! – richiesta del biglietto, avevo risposto di essere salita a Mestre, scendendo da una tradotta.

Una donna in una tradotta? e doveva credermi? Alle sue insistenze, avevo perfino alzato la voce.

– Vengo dalla Germania, soldi non ne ho, il biglietto non lo pago. Ho fatto un anno di Lager!

Germania non Germania, qui eravamo in Italia e il biglietto dovevo pagarlo. Cosa erano quelle pretese? Dei Lager, lui, se ne fregava!

Raccontò tutto ai poliziotti e se ne andò con un’ultima occhiata minacciosa. E, ora, quelli mi guardavano in silenzio. Sentivo i loro sguardi indugiare sulla camicetta che mi ero confezionata a Dörverden, provincia di Hannover, zona inglese, campo di raccolta per militari italiani.

Laggiù, la camicetta rimediata con tre tovaglioli dell’ospedale, aveva riscosso complimenti. Ma, ora, i tre la guardavano con disapprovazione: era tutta stropicciata e anche sporca.

– Vada pure – finalmente uno si decise – Vada pure e…

– Vada e si ripulisca, si metta un po’ in ordine. Una donna…

Dunque, ero una donna. Ci pensai uscendo dalla stazione, nella mattina splendente. Ero una donna. “Laggiù”, per un anno tutto era stato fatto perché me ne dimenticassi.

A Genova, dove ero tornata, l’Ente Comunale di Assistenza elargiva 500 lire al mese – allora erano qualcosa – ai reduci privi di casa e di mezzi. Veramente, una casa dove dormire ce l’avevo. Una signora, timorosa che il Commissariato degli alloggi le requisisse una camera inutilizzata, mi ospitava volentieri ripetendo:

– Meglio una poveretta tornata dai Lager, che gentaglia imposta dal Commissariato!

Così, dal settembre, mi presentavo agli sportelli dell’Assistenza. La fila era lunga e l’impiegato impaziente.

Una volta, era quasi mezzogiorno, quando venne il mio turno, mi appoggiai con le braccia sullo sportello: ero stanca. L’impiegato si sporse per controllare quanta gente c’era ancora e, per caso, lo sguardo gli cadde sul numero tatuato sul mio braccio.

– Cos’è?

Glielo spiegai ed ebbe un risolino sardonico.

– Vi marcavano la pelle? come bestie?

Poi aggiunse.

– Dite che nei Lager era un macello. Ma a vedere quanti vengono qui a beccarsi le 500 lire, mica si direbbe. Altro che sterminio!

Nel mio testamento, ho scritto che una piccola somma venga data all’Auxilium e alla Caritas con questa precisa motivazione:

«In ricordo dei quattro quadratini di cioccolata e del sorriso ricevuto da due suore francesi che vennero al treno dalla Croce Rossa che mi rimpatriava dalla Germania. E del bicchiere di latte ricevuto alla stazione di Verona, dal banco dell’Auxilium, da una giovane donna dal viso gentile».

Non avevo più genitori né parenti stretti: ad Auschwitz questa mancanza mi aveva sollevato dai pensieri torturanti di chi aveva lasciato la famiglia. A guerra finita, tramite la Croce Rossa, ebbi il biglietto di una zia. Mi raggiunse in un ospedale di Merano dove rimasi esattamente 4 giorni, il quinto me ne andai con una tradotta. Dovevo. Avevo paura di non riuscire più a controllare l’impeto di furore che mi prendeva davanti alla bella infermiera altoatesina, una bionda che somigliava tutta a una ausiliaria che vedevo ad Auschwitz.

Rimpiangeva sempre i “suoi” soldati: così beneducati, corretti, puliti!

Si scagliava contro le abitudini “bestiali” di noi ex deportate, l’avidità di cibo, la mancanza di pudori. Ci guardavamo con vero odio.

Così, in ottobre, decisi di accogliere l’invito di mia zia, abitava a Pisa, la città dove sono nata e cresciuta. Ci abbracciammo, poi cominciarono i racconti. E io volevo parlare, avevo bisogno di raccontare, far sapere, e alla zia, qualche volta, venivano gli occhi lucidi. Ma interrompeva sempre, sovrapponeva ai miei ricordi i suoi che erano quelli di una sfollata e a lei sembravano tremendi, a me sembravano acqua di rose. Cominciavo già a convincermi che la gente non poteva capire. Le rape, per esempio! Era la stagione e la zia era salutista, convinta che depurassero il sangue e ne preparava ogni giorno. Certo non erano le legnose rape del Lager. Ma il nome era quello, l’odore era quello e mi faceva ammutolire.

Una cugina volle incontrarmi. Sua figlia (un tempo mia compagna di scuola) era stata deportata nel ’44 e non ne sapeva più niente. Mi pungolò di domande alle quali non potevo rispondere che vagamente. Infine, mi piantò in faccia due occhi nemici.

– Sei tornata tu. Sei tornata tu che non hai genitori, non hai un marito, hai sempre dato dispiaceri alla famiglia. Perché non è tornata lei? Aveva un bambino piccolo, era buona. Lei si meritava di tornare! Lei doveva tornare! È questa la giustizia di Dio?

Mia zia abbassò gli occhi, contrita per le misteriose ingiustizie di Dio.

Allargai le braccia, in silenzio. Non mi sentivo colpevole.

– Dal sito www.tecalibri.it riprendiamo i seguenti estratti dal libro di
Liana Millu, Tagebuch.
_ “{{ {Il diario del ritorno dal Lager} }}”,
_ Giuntina, Firenze
2006