Il sapore di un’albicocca – riflessione sul libro LA MEMORIA RENDE LIBERI
Riflessione sul testo di Enrico Mentana. – Liliana Segre. La memoria rende liberi La vita interrotta di una bambina nella Shoah, Bur Rizzoli, Milano, quarta edizione Best Bur, febbraio 2018 E’ questione di pochi anni, poi non ci saranno più testimoni della Shoah.
Queste le parole con cui Enrico Mentana, direttore de La7, introduce la riflessione profonda e scomoda sullo sterminio, sui tanti perché di una robusta indifferenza in molti. L’autrice del racconto è Liliana Segre, di recente nominata senatrice della Repubblica italiana dal Presidente Mattarella.
Ognuno, sia Mentana sia la Segre, secondo una propria sensibilità, interroga e pungola, lambita più volte la lucidità di loro argomentazioni da un’ inquietudine, trattenuta, che prende forma pagina dopo pagina. Non è questa solo narrazione di quell’inferno dalla Segre già rappresentato in un precedente libro , scritto da Emanuela Zuccalà(N).*
E’ quel modo, tenace e sobrio, di promuovere la volontà di capire, di non mummificare quella vicenda, di alimentare il desiderio di conservare i fili spinati del ricordo. Scrittore e lettore proseguono in un’unica direzione, stipati i pensieri dentro quel treno che sferraglia sui binari per Auschwitz. Il torpore dell’indifferenza, come si sottolinea più di una volta nelle pieghe del racconto, si presume sia stato spesso frutto anche di pigrizia mentale. Sovente genera quel chiamarsi fuori da rigore e senso di responsabilità che conquista ulteriori forme di complicità collusiva.
Il discorso sulla Shoah parrebbe poi ancora leggersi per sue parti nel vago del troppo incomprensibile, perché incistato ed al tempo stesso scollegato, incapace di comprensione quand’ anche certi i nessi tra le cause, complesse e multifattoriali, e gli effetti, totalmente drammatici. Una dolente sicurezza in Enrico Mentana taglia il possibile nodo gordiano di perplessità, non a sufficienza chiarificatrici , e mantiene convinzioni su dubbi, pesanti ed amari .
Semplicemente non si voleva sapere.
Ad oggi resta lo sconforto per quel dolore, sulla pelle di quegli esseri umani. In documentari o filmati, datati primavera 1945, sgomenta la vista di corpi di uomini e donne tornati liberi dentro scheletri rivestiti di stracci. Respirano, camminano, si guardano e guardano. Tremore, gesti lenti , incerto nella postura e nel movimento chi riesce ancora reggersi in piedi. Un silenzio, irreale, domina su vite ancora congelate in tante(troppe) morti: è un testimone che ascolta in ognuno di loro la paura di non poter essere ancora vivo.
Nel collocare storicamente lo sterminio, nel chiedersi da dove la più incredibile forma di eliminazione di massa possa aver avuto il suo primum movens e quale minuzioso calcolo ne abbia mai sostenuto la regia, viene agevole riconoscere il volto di un pragmatismo disumano , mettendo a fuoco un’inquietante efficienza organizzativa, ben confortata da una dis-umanità assurda.
Nel 1932, in un’intervista ad Emil Ludwig, giornalista tedesco, Mussolini aveva sottolineato negli ebrei italiani un comportamento consono. Erano stati soldati coraggiosi ed avevano ricoperto, in modo onorevole, posizioni di rilievo in banche ed università.
Pur con differenti abitudini ed usanze, gli ebrei si sentivano pienamente cittadini di questo paese, ma i tanti che desideravano conservare l’appartenenza all’Italia si trovarono , in una manciata di mesi, negato tutto. E’ questo il dramma morale del dolore non risarcito, la sofferenza che non può essere lenita perché si ri- presenta come piaga con cui dover convivere.
Liliana Segre è stata liberata il primo maggio 1945 nel campo di Malchow, un sottocampo di Ravensbrück. Di quei giorni, come ha avuto modo di raccontare a Fabio Fazio, che l’ha intervistata alcune settimane fa, le resta, dolcissimo sulle labbra, il sapore di un’albicocca secca, lanciata da un soldato delle Forze alleate. Il sapore della libertà. Unico e indimenticabile. Il libro è il racconto lucido e struggente di quegli anni.
Descrive quell’assurdo far terra bruciata da parte di altri (con i quali c’era stata la condivisione quotidiana di gesti e cose) , il tentativo , mal riuscito ,di fuga in Svizzera, l’ umiliazione del carcere ,l’inumana sofferenza del viaggio e , da ultimo, l’inferno del campo. A Birkenau , fummo separati, uomini e donne. Avevo tredici anni ,non conoscevo il tedesco e vicino a me non c’era più mio padre a tenermi per mano. Dal lager ritornerà sola, orfana, straniera di futuro, tra le macerie di una città, Milano, in un Paese lacerato ,ferito, che ad uno sguardo frettoloso pareva difendersi dall’ accogliere il ricordo, dolente, del passato appena trascorso.
Trenta anni dopo ,in modo crudo e commovente , Liliana Segre sceglierà di parlare di sé , dirà di leggersi come una disadattata, disperata di essere viva , del tutto consapevole che la banalità dell’esistenza mai avrebbe potuto accogliere l’orrore di quanto da lei subito. La testimonianza sull’Olocausto bisbiglia però ancora la speranza sommessa (e forte) che simili tragedie mai più accadano. Nella nostra inconfessabile paura, si riflette, forse, anche l’ombra vaga e potente di una vita deformata ,i fantasmi di uomini e donne con una tomba scavata nel cielo ed il volto di chi non può più raccontare.
Se non si tocca con sufficiente consapevolezza il come ed il perché in quell’allora , maggiormente inquieti saremo al pensiero di un” ora “ figlio di un “ oggi “ che potrà non essere un “ domani “.Con tutte le negazioni o, peggio, le rimozioni che potrebbero esserne conseguenza. La più spaventosa politica sistematica di persecuzione che il mondo abbia conosciuto è già diventata una sorta di questione privata tra due gruppi estranei al nostro mondo oggi?
Tante le facce della violenza che batte, aspra , i sentieri della intolleranza. Sintomo e segno del troppo sovente smemorarci, energicamente impegnati a non rappresentarci quanto forse ancora oggi siamo capaci di un povero ben-disporci , di una fiducia imperfetta nell’essere degli umani. Questioni, per così dire a latere, allora non risolte ma subite, possono ora correre il rischio di ri- tornare ancora al centro della scena?.
Magari con la complicità dei tanti che allora chiusero gli occhi o , semplicemente , di coloro che oggi focalizzano il dover ricordare solo all’interno del perimetro di Auschwitz, il punto terminale della soluzione finale. Non si vuole mummificare un dolore, se mai con pietas virgiliana raccoglierne i pezzi , comporne le spoglie evitando ,per dirla con Segre, di assistere ad un naufragio da una distanza di sicurezza. Qualunque naufragio. Come accade quando si pensa che una cosa non ci tocchi ( o non debba farlo più).
(N)*Emanuela Zuccalà, Sopravvissuta ad Auschwitz. Liliana Segre fra le ultime testimoni della Shoah, Paoline Editoriale Libri,Milano,2005