Il signor ministro di colore: stereotipi razzisti e linguaggio “neutro”
Anche il bianco è un colore, infatti la Kienge alla festa del PD di Cervia ha corretto il giornalista definendosi di “pelle nera”. Vale la pena ricordare che durante la prima emigrazione italiana negli Stati Uniti, i nostri emigranti erano definiti di “pelle olivastra”. “Il signore ministro Cecile Kienge“ per poco non si è preso in faccia alcune banane, lanciate da un giovane durante l’incontro organizzato dalla Festa del Pd a Cervia venerdì 26 luglio.
Prima del lancio delle banane e dell’arrivo della Kienge, giovani di Forza Nuova avevano gettato nell’area della festa tre manichini imbrattati di vernice rossa con un volantino contro lo{ jus soli}.
La Kienge è stata presentata dalla segretaria comunale Pd Daniela Rampini che l’ha salutata come “ministro”. L’ha fatto anche il coordinatore Giancarlo Mazzucca, direttore del quotidiano{ Il Giorno}, chiamandola “il signor ministro”. Il quale ha tracciato la storia ripetendo la diceria leghista di un’entrata entrata in Italia da clandestina; definendola poi “di colore”, stereotipo di stampo colonialista.
La ministra ha rettificato un po’ indispettita perché è giunta trent’anni fa nel nostro Paese con un permesso di studio. L’on. Paola De Micheli del Pd arrivata con notevole, e giustificato, ritardo ha, a sua volta, definita la Kienge “di colore”.
“Di colore” è una definizione che si usa soltanto per i neri e che suona esplicitamente razzista. Anche il bianco è un colore, infatti la Kienge ha corretto il giornalista definendosi di “pelle nera”.
Vale la pena ricordare che durante la prima emigrazione italiana negli Stati Uniti, i nostri emigranti erano definiti di “pelle olivastra”.
L’insistenza nell’uso del neutro universale, cioè il maschile, applicato a una donna di origine straniera come la Kienge, marca con evidenza l’arretratezza mentale dell’Italia. Cioè, la difficoltà culturale a riconoscere alle donne, in quanto tali, il diritto di raggiungere ruoli importanti e di potere.
Difficoltà delle stesse donne (vedi la segretaria Rampini) a legittimarsi il diritto di parlare, agire nell’ambito pubblico, a partire dalla propria soggettività storica; senza essere assimilata al modello maschile.
D’altronde, pochi giorni prima alla festa del Pd della città rivierasca romagnola, si era svolto un dibattito sul femminicidio, coordinato da una giornalista di una Tv locale che si è ripetutamente definita come “un giornalista…”.
Ci si chiede perché il Pd locale non ha invitato a condurre l’incontro con la ministra per l’emigrazione e l’Integrazione, un/una giornalista preparato/a su queste problematiche. E’ mancata, per esempio, una domanda assai opportuna, sull’argomento delle seconde generazioni di ragazze e sulla situazione, in genere, delle donne immigrate.
La problematica dell’integrazione, assai complessa, non si può trattare in modo generico. Richiede un taglio di genere perché, tra l’altro, spesso in talune etnie le donne, le giovani donne, pagano il prezzo di essere considerate con il loro corpo, il segno dell’identità collettiva . E in quanto tali quindi controllate dagli uomini padri, mariti, fratelli in modi coercitivi se non violenti.
Nel Pd sembra esserci un grosso deficit di formazione politica e culturale della dirigenza. E’ emerso esplicitamente nel comizio tenuto dall’onorevole piacentina, pragmaticamente brava, ma poco solida sul piano delle idee e dei concetti più generali.
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