Il tempo lungo per morire
Da “il manifesto” di giovedì 4 settembre riprendiamo l’intervista – «Lasciar morire, una questione morale»a cura di Matteo Bartocci – a Caterina Botti, docente di Etica delle donne all’Università La Sapienza di Roma e autrice di “madri cattive” che interviene nel dibattito suscitato dall’editoriale di Lucetta Scaraffia “I segni della morte” su “l’Osservatore romano” […] «La definizione di morte – spiega {{Botti}} – è una questione essenzialmente morale e non scientifica, perché la morte, come la nascita, non è un fatto istantaneo ma un processo, un continuum , che può anche essere molto lungo».
{{E allora? Cosa non va nell’editoriale dell’ Osservatore romano ?}}
Non riconosce la dimensione morale e non solo scientifica della definizione di morte. E’ vero che il criterio di morte cerebrale si può tematizzare. Ma d’altra parte è il migliore disponibile. {{La tesi di}} {{Lucetta Scaraffia}} è un incredibile passo indietro, tutto chiuso in un atteggiamento a sua volta «scientista», che propone un ritorno al passato fino a suggerire la morte cardiaca al posto di quella cerebrale. Ma definire la morte implica sempre una definizione della vita. Il problema non è trovare un criterio scientifico valido in assoluto, il problema va allargato a un giudizio morale che dice chi è vivo, chi è «morente» e chi è morto. {{E’ errato definire «viva», come fa Scaraffia, una donna in morte cerebrale}}, tenuta attaccata alle macchine, con respiratori automatici, trasfusioni e farmaci di tutti i tipi, per portare avanti una gravidanza. Ritengo che quell’esperienza non sia una riproduzione «umana». E’ un processo tipo Matrix , un’incubatrice di carne che nutre un essere vivente. E’ una scelta che può avere senso nei singoli casi ma che sicuramente è diversa dalla gravidanza di una donna che decide ogni giorno come portarla avanti.
{{Perché sostiene che definire la morte è una questione essenzialmente morale?}}
Morire è un processo molto lungo, che arriva fino alla decomposizione dell’organismo. In passato per accertarla si usava lo specchio: chi non respirava più era dichiarato morto, poi si è inventato lo stetoscopio e si è usato il criterio del battito cardiaco, quando si è capito che il cuore poteva anche tornare a battere si è scelto l’«encefalogramma piatto». Tutti questi diversi criteri – morte cardiaca, cerebrale, etc. – sono legati alle conoscenze scientifiche disponibili in quel dato momento. Il punto che li accomuna tutti è che la morte è un processo irreversibile, {{un punto di non-ritorno}} ma si tratta sempre della migliore convenzione possibile.
Un non-ritorno rispetto a che cosa?Ogni definizione di morte, necessariamente anche scientifica, è collegata alle conoscenze disponibili ma soprattutto deve dire di ch i stiamo parlando. Non possiamo definire la morte se non definiamo la vita.
{{Quali sono le principali posizioni bioetiche in questo campo?}}
E’ molto diverso vedere la morte come la fine di un organismo vivente o la fine di un essere umano nelle sue diverse capacità di relazione, percettive e cognitive. Mentre in passato si era contemporaneamente «esseri umani» e «persone», oggi questa identità sfuma grazie al progresso scientifico. Nascita e morte non sono più eventi istantanei ma processi anche molto lunghi. Dopo la morte, per esempio, continuano a crescere naturalmente i capelli e le unghie ma non è un dato che riteniamo decisivo, perché concordiamo sul fatto che unghie e capelli non costituiscono la personalità dell’essere umano. D’altra parte si può ben sostenere che una persona irreversibilmente incapace di relazionarsi col mondo, anche se il suo cuore batte, non sia più viva. E’ il caso, per esempio, di Eluana Englaro: alla fine di un lungo percorso si è deciso di sospendere strumenti come l’alimentazione e l’idratazione che stanno interrompendo un chiaro processo di morte. Infine c’è chi prescinde completamente da una definizione di morte in quanto tale. Peter Singer, per esempio, sposta tutta la questione sul piano della «moralità»; e sostiene che è ipocrita nascondersi dietro una definizione precisa quando è più opportuno discutere se ci sono ragioni morali sufficienti per «lasciar morire», ad esempio, i bambini anencefalici. Sono individui che non possono essere dichiarati morti però si può decidere che possono essere lasciati morire.
{{Come giudica il no della Lombardia ai tutori di Eluana Englaro?}}
Mi sembra un’assurdità giuridica più che etica. La sentenza della Cassazione è valida e non c’è ancora stata nessuna sospensione. La Regione sta semplicemente rifiutando a un cittadino un intervento che li spetta. Complicazioni che rendono urgente una legge sul testamento biologico. Mi sembra evidente che alcuni settori cattolici vogliano condizionare il dibattito in parlamento e impedire, come ha ammesso il tribunale nel caso Englaro, che idratazione e nutrizione siano considerati strumenti terapeutici come gli altri e in quanto tali è possibile sospenderli rispettando la volontà dei pazienti.
[Lucetta Scaraffia: I segni della morte. A quarantanni dal rapporto di Harward->http://www.mascellaro.it/web/index.php?page=articolo&CodArt=26323]
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